• 24 Aprile 2024 16:05

Azione nonviolenta – Aprile 2006

DiFabio

Feb 2, 2006

Azione nonviolenta aprile 2006

– Nonviolenza e politica per passare dalla telecrazia all’omnicrazia, di Mao Valpiana
– La pace profetica come programma politico. Giorgio La Pira, governare la città col Vangelo, di Carmelo Sgandurra
– 5 per mille al Movimento Nonviolento, a cura della Redazione
– Isreaele-Palestina, un conflitto lungo un secolo. Quali prospettive dopo il successo elettorale di Hamas?, di Alberto Trevisan
– Una forza più potente. Scheda 3: Polonia 1980-1981. Abbiamo preso Dio per un braccio, di Luca Giusti
– Davide Melodia, 1920-2006. Un artista della nonviolenza evangelica, di Mao Valpiana
– I Quaccheri e il Pacifismo. I Quaccheri e la Riconciliazione, di Davide Melodia
– Laboratori di nonviolenza in carcere. Capire le ragioni della violenza. Rimarginare le ferite attraverso la consapevolezza, per cambiare, intervista a Pat Patfoort, a cura di Elena Buccoliero

LE RUBRICHE

– Giovani. Saper dire “no” e saper dire “sì” per essere obiettori e nonviolenti, a cura di Laura Corradini
– Educazione. Un’esperienza brasiliana: la scuola Bandeirante, di Nara Zanoli
– Economia. Autocostruire al propria casa: un sogno realizzabile?, a cura di Paolo Macina
– Per esempio.Il caffè femmina delle donne peruviane, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Musica. La musica contempooranea e la guerriglia non aggressiva, a cura di Paolo Predieri
– Disarmo. Una conferenza dell’Onu sui traffici illeciti di armi leggere, di Riccardo Troisi
– Cinema. Quattro bambine africane piene di speranza e coraggio, a cura di Flavia Rizzi
– Libri. Abolire le guerre per sopravvivere allo sviluppo, a cura di Sergio Albesano

EDITORIALE
Nonviolenza e politica per passare dalla telecrazia all’omnicrazia

Di Mao Valpiana

Scrivo queste note a pochi giorni dalle elezioni del 9-10 aprile. Quando verranno lette, i risultati saranno già noti e i commenti si sprecheranno. Aldilà dell’esito (ma ci sarà modo e tempo per valutare l’operato del nuovo governo…) qualche osservazione è d’obbligo.

C’è bisogno di ripensare completamente la politica. E noi crediamo che ciò debba essere fatto con le categorie della nonviolenza (amore, verità, ripudio della violenza, dialogo, empatia, mitezza, coraggio, abnegazione, pazienza, coscienza). Per questo proponiamo a tutti gli amici e le amiche una tre giorni di riflessione e proposta su “Nonviolenza e politica” (Firenze, 5, 6 e 7 maggio). Purtroppo le forme attuali della politica stanno andando in senso diametralmente opposto: i partiti, la legge e la campagna elettorale ne sono stati uno specchio. Il sistema bipolare obbliga ad alleanze innaturali, elimina le differenze ed esalta la mediocrità. La legge elettorale ha affidato tutto il potere alle oligarchie dei partiti, che hanno deciso la composizione del nuovo parlamento, esautorando l’elettore da qualsiasi possibilità di scelta delle persone. Gli eletti non sono stati votati dai cittadini, ma indicati dai partiti, per di più senza esprimere la territorialità. La campagna elettorale non è più basata sui dibattiti, ma esclusivamente sulla “telecrazia”. Pochi leader (si fa per dire…) che accedono ai salotti buoni degli studi televisivi e parlano per tutti, più attenti a come dicono, piuttosto che a cosa dicono. Spesso lo spettacolo è nauseante, comunque sempre ininfluente. Milioni di cittadini hanno l’illusione di “occuparsi di politica” solo perché assistono ad un teatrino i cui attori sono giornalisti e politici.
Gli amici della nonviolenza hanno una concezione altissima della politica, che è tale solo se c’è vera partecipazione, vero dialogo, vero confronto. Ma la nonviolenza vuole andare anche oltre, dalla democrazia all’omnicrazia, il potere di tutti. Dunque, come diceva Gino Bartali, oggi “gli è tutto sbagliato, tutto da rifare”.

Nel numero di gennaio-febbraio abbiamo pubblicato, in questa stessa pagina, a firma Mir e Movimento Nonviolento, una proposta di pace per il programma dell’Unione. L’abbiamo inviata a tutti i partiti del centro-sinistra e ai loro segretari. Risultato? Nemmeno una risposta, nemmeno un cenno di riscontro. I partiti dovrebbero essere uno strumento di collegamento fra la società e le istituzioni, per trasformare in proposta politica gli interessi generali, e quindi l’atteggiamento dei partiti dovrebbe essere quello di grande ascolto e di attenzione per ciò che si muove dal basso. Siamo ben coscienti di essere un piccolo movimento, un gruppo minoritario, ma abbiamo anche la consapevolezza di essere portatori (per fortuna non da soli, e non unici) di una proposta di fondamentale importanza per il futuro di tutti: la nonviolenza. I temi della pace e della nonviolenza (cioè la speranza di futuro per il pianeta stesso) sono stati completamente oscurati durante la campagna elettorale, e poco spazio hanno avuto anche nei programmi politici.
Per questo insistiamo, e riportiamo quei cinque punti di governo che riteniamo il minimo essenziale.

Ridurre le spese militari, finora sempre crescenti, almeno del 5% annuo progressivo, per finanziare forme di difesa nonviolenta quali ad esempio i Corpi Civili di Pace, unico mezzo degno per dare aiuto e solidarietà democratica ai popoli vittime della guerra.
Spostare su un apposito capitolo di spesa il denaro sottratto al bilancio del Ministero della Difesa, per istituire il Ministero per la Pace, dotato di portafoglio, per adottare una rigorosa politica costituzionale di Pace che obblighi a ripudiare la guerra come metodo di risoluzione delle controversie.
Cominciare subito il ritiro continuo e completo della presenza militare italiana di appoggio alla guerra e occupazione dell’Iraq.
Decidere l’espulsione dall’Italia delle molte decine di bombe nucleari presenti nelle basi Usa, in violazione clamorosa e inammissibile della Costituzione e dei patti internazionali.
Ripristinare e rafforzare la legge 185, limitativa del commercio delle armi, che è causa primaria dei conflitti omicidi nel mondo, e disumano criminale esercizio del profitto economico.

Si dice che ogni popolo ha il governo che si merita. Io penso anche che “la gente”non sia poi tanto migliore di chi la governa (se non altro perché ha permesso che ciò avvenisse). Dunque, in fondo, il nuovo governo rappresenta proprio ciò che l’Italia è oggi. Nel bene e nel male. Il Movimento Nonviolento, per la sua piccola parte, fa parte di questo popolo, e non intende rinunciare alle proprie responsabilità.

La pace profetica come programma politico.
Giorgio La Pira, governare la città col Vangelo.

Di Carmelo Sgandurra

Sindaco santo, profeta disarmato, cantore delle città, viaggiatore di pace, sono alcuni tra i tanti appellativi usati per definire Giorgio La Pira (Pozzallo 1904 – Firenze 1977).
Numerosi sono gli studi che lo riguardano, ed in particolar modo, durante il 2004, nel centenario della sua nascita, in pieno processo di beatificazione, numerosi convegni e articoli hanno riproposto il profilo di “uno degli uomini nuovi auspicati da Einstein dopo l’esplosione di Hiroshima” secondo la definizione di un suo grande amico, Ernesto Balducci. Molto è ancora il materiale inedito, soprattutto la corrispondenza epistolare, meritevole di attenzione.
Giuseppe Lazzati, suo amico e compagno di viaggio nell’esperienza della Costituente, ha scritto che “in un’epoca in cui si tende a trascurare il contemplativo per privilegiare la concretezza del quotidiano, Giorgio La Pira ha scandalosamente rovesciato i termini di questo rapporto intorno al quale si gioca l’intero significato della vita cristiana.”
La sua formazione culturale comincia in un ambiente futurista e anticlericale, nella Messina devastata dal terremoto del 1908. Nei primi anni del Ventennio, per completare gli studi di Giurisprudenza, si trasferisce a Firenze, la città dove la sua conversione ed il suo operato lo proietteranno nel novero dei profeti di pace del ‘900.
Sicuramente originale il suo itinerario personale che lo vedrà conciliare l’impegno nelle stanze (mai nei salotti) del potere con le visite domenicali ai carcerati, la cattedra di Diritto ed il pulpito della Badia, da cui spiegava il vangelo ai poveri, prima di distribuire loro da mangiare. Il suo modo di fare il Sindaco del capoluogo fiorentino, nelle fila della DC (di cui non volle mai la tessera), requisendo ville disabitate per darle ai senza casa, difendendo i disoccupati delle industrie fiorentine, fu per i più sconcertante, fuori da ogni schema e, soprattutto, da ogni logica di potere.
Ed in effetti molti suoi atteggiamenti sono stati compresi solo l’indomani della sua morte quando il Cardinale Antonelli ha rivelato che La Pira era un laico consacrato, una scelta su cui per tutta la vita, fedele al suo impegno, mantenne il più assoluto riserbo anche con gli amici più intimi.
Nel 1926 entra nel Terz’Ordine Domenicano, e nel 1928 abbraccia la regola terziaria francescana al pari dei religiosi, prendendo i voti e facendo la promessa di apostolato. È questa la sua vocazione sociale, vissuta in perfetta coerenza con lo stile di Francesco, prima da testimone e poi da annunciatore del Verbo. Dimorerà per lungo tempo in una cella del convento di S. Marco, tra gli affreschi ispirati del Beato Angelico, azzerando, alla fine di ogni mese, il suo reddito in opere di carità.
Molti autori hanno accostato la sua figura a quella del poverello di Assisi, contribuendo a rileggere i quasi cinquant’anni del suo apostolato. L’amico Dossetti ce lo descrive con “una libertà sovrana… una percezione acutissima… della bellezza e dell’armonia, un senso poetico di tutto il reale e della vita, una creatività inesauribile… la sua mimica, il suo sorriso… l’estrema leggerezza e soavità… la sua letizia sempre così pura e armonica…” Il saggista Piero Antonio Carnemolla ha voluto confrontare i pellegrinaggi dei due laici consacrati nel mondo musulmano: “La missionarietà lapiriana si modellava sull’esempio del Santo d’Assisi, la cui presenza tra i saraceni ebbe il significato di superare barriere politiche e religiose per l’instaurazione di una convivenza amichevole riconoscendosi fratelli perché figli di un comune Dio.” E Balducci scrive: “Andava inerme, con candore scoperto, senza mettere un velo sulle sue ispirazioni, programmando i suoi itinerari come un pellegrino medievale che misura il tempo e lo spazio con criteri del tutto ignari alle cancellerie del potere.”
Per entrambi, liberi dai pregiudizi delle loro rispettive epoche, il Vangelo è il messaggio della Pace.
La sua personale ortodossia, è stata più volte avversata in Vaticano, proprio come per il Poverello di Assisi. E se Don Sturzo lo definiva “statalista della povera gente” accusandolo di pericolosi innamoramenti socialisteggianti, lui ribaltava il punto di vista dell’avversario con affermazioni al limite dell’eresia. “I veri materialisti siamo noi cristiani”, soleva ripetere. All’amico Fanfani nel ‘55 aveva scritto: “Tutta la vera politica sta qui: difendere il pane e la casa della più gran parte del popolo italiano… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro; la casa è sacra; non si tocca impunemente né l’uno né l’altra. Questo non è marxismo: è il vangelo”.
Se Francesco è stato il modello da emulare, tra i suoi contemporanei è Aldo Capitini la persona a lui più vicina nell’idea di pace vera, quella che non “nasce da una guerra vinta – per dirla con Gianfranco Ravasi – bensì da una coscienza rigenerata.”
Francesco Comina su il “Segno nel mondo”, li definisce i “due personaggi che hanno contribuito fortemente ad innovare la lezione gandhiana in Italia.” Capitini è stato “un vero e proprio teorico della nonviolenza attiva e dinamica”, Giorgio La Pira è stato “il braccio operativo, se così si può dire, della cultura della pace. Ha posto il tema della pace universale al centro del programma politico per il governo della città”. È infatti nel ruolo di amministratore che la sua personalità trova la sintesi di una vita trascorsa tra la sua piena aderenza alla realtà e lo slancio profetico. Amministra sentendo continuamente le istanze della gente, rispondendo ai reali bisogni dei concittadini, in una forma di democrazia partecipativa ante litteram. Da Firenze, “città terrazza”, lancia un appello, attraverso numerose iniziative volte a favorire il dialogo interreligioso, politico e culturale, per scavalcare le barriere dei due grandi blocchi: “unire le città per unire le nazioni”.
Anche se non ha in tasca la tessera del Movimento Nonviolento e non usa la terminologia degli Obiettori di coscienza, La Pira intuisce la carica innovatrice del messaggio che viene dall’India. E aderisce con gesti concreti. Manda un telegramma augurale alla prima Marcia Perugia-Assisi, unico sindaco democratico e cristiano, in un clima di sospetto e distinguo nei confronti del professore perugino. Con la proiezione del film censurato Tu non ucciderai, che tratta il tema dell’obiezione di coscienza, compie un gesto di disobbedienza civile che gli costerà un procedimento giudiziario. Siamo nel ’61, e seguiranno a breve anche i noti processi a padre Balducci ed a don Milani nel quinquennio che il padre scolopio definirà della “germinazione fiorentina”. Nel frattempo, con l’entusiasmo che lo contraddistingue, saluta la promulgazione della Pacem in terris come “il manifesto del mondo nuovo”, grazie al quale “la guerra non sarà più possibile”. Siamo oltre il pacifismo cattolico del suo tempo, quello che lui aveva sostenuto nella rivista Principi quando condannava il nazifascismo ma annoverava “la guerra giusta nelle tradizioni della Chiesa Cattolica”.
Nell’ultimo decennio della sua vita il politico lascia sempre più il posto al profeta. Alla sua uscita di scena dai santuari del potere (nel ’65 termina la sua esperienza di amministratore e, con il boicottaggio del suo tentativo di mediazione tra Stati Uniti e Vietnam, viene isolato definitivamente), ai momenti di sconforto dovuti alle varie crisi internazionali, corrisponderanno le più belle pagine rivolte al futuro dell’umanità, a “forzare l’aurora a nascere”. Ai limiti evidenti del capitalismo e del comunismo, preferisce la terza via gandhiana, e decreta la strada della Nonviolenza come l’unica percorribile. A Budapest nel ’69 è tra i quattro relatori invitati ad una commemorazione di Gandhi. Nel suo intervento profetizza “un mondo nel quale la liberazione dei popoli deboli ed oppressi da quelli potenti ed oppressori avrebbe avuto il suo punto di forza insurrogabile ed invincibile, il suo punto di Archimede, non nella guerra, ma in quella nonviolenza dei forti che egli (Gandhi) vedeva, in prospettiva, come la fondamentale ed unica norma reggitrice ed edificatrice della nuova politica (mondiale) dei popoli e della nazioni.” Come Capitini, anche La Pira, crede che la storia vada inevitabilmente verso una cooperazione universale tra i popoli che farà tutti gli uomini concittadini del mondo.
Secondo Balducci, che forse meglio di chiunque altro ne ha saputo decifrare il personale itinerario dalla metafisica delle città verso la profezia “dell’uomo mediterraneo”, La Pira “tende a mettere tra parentesi il venerdì santo. La Resurrezione ha per effetto l’instaurazione di un Regno pienamente umano, anche dentro l’orizzonte storico.” Lo strumento politico per costruirlo è l’ONU. Il suo obiettivo è unire, mai dividere, per questo “non capiva gli steccati, né nel consiglio comunale, né tra est e ovest, né tra nord e sud. Li scavalcava tutti, anche quelli eretti dalle controversie teologiche”.
Fare il bilancio del suo operato sarebbe ingeneroso e riduttivo; in molti hanno provato a liquidarlo come uno sconfitto dalla storia e dagli eventi, ma questo è un metro che non appartiene a chi usa il linguaggio del Vangelo. La sua esistenza rimane un inno di lode all’Amore universale, cantato da un pellegrino in marcia, in cammino, verso il luogo in cui giustizia e pace s’incontreranno.

Bibliografia

AA. VV. La Pacem in terris quarant’anni dopo – Quaderni della Fondazione Balducci, Fiesole 2003
AA. VV. Giorgio La Pira: speranza e profezia cristiana. Quaderni dell’associazione culturale Giuseppe Lazzati – In Dialogo, Milano1998
Balducci Ernesto. GiorgioLa Pira – Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1986
Carnemolla Piero Antonio. Giorgio La Pira missionario francescano della Regalità di Cristo – Quaderni Biblioteca Balestrieri, Ispica 2003
Comina Francesco. Costruttori di pace – Segno nel mondo n. 5 – 31 marzo 2005
De Giuseppe Massimo. Giogo La Pira. Un sindaco e le vie della pace – Centro Ambrosiano , Milano 2001
La Pira Giorgio. Principi – Libreria Editrice Fiorentina Firenze 2000
Peri Vittorio. I fondamenti teologali della santità dei laici: Giorgio La Pira tra speranza storica e carità politica. Quaderni Biblioteca Balestrieri, Ispica 2003
Truini Fabrizio. Aldo Capitini – Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1989

5 per mille al Movimento Nonviolento

Con la prossima dichiarazione dei redditi sarà possibile sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento. Non si tratta di pagare tasse in più, ma solo di utilizzare diversamente soldi che comunque dovranno essere versati allo Stato. La legge finanziaria ha previsto per l’anno 2006, a titolo sperimentale, la destinazione in base alla scelta del contribuente di una quota pari al 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche a finalità di sostegno del volontariato, onlus, associazioni di promozione sociale e di altre fondazioni e associazioni riconosciute; finanziamento della ricerca scientifica e delle università; finanziamento della ricerca sanitaria; attività sociali svolte dal comune di residenza del contribuente.
La scelta del contribuente: cosa fare per destinare la quota
Il contribuente può destinare la quota del 5 per mille della sua imposta sul reddito delle persone fisiche, relativa al periodo di imposta 2005, apponendo la firma in uno dei quattro appositi riquadri che figurano sui modelli di dichiarazione e indicando il codice fiscale dello specifico soggetto cui intende destinare direttamente la quota del 5 per mille, traendo il codice fiscale stesso dagli elenchi pubblicati (vedi sito www.agenziaentrate.it)
La scelta di destinazione del 5 per mille e quella dell’8 per mille di cui alla legge n. 222 del 1985 non sono in alcun modo alternative fra loro.

Dunque, destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento è molto semplice: basta apporre la propria firma nell’apposito spazio  e scrivere il numero di codice fiscale dell’associazione. Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento è: 93100500235 Coloro che si fanno compilare la dichiarazione dei redditi dal commercialista, o dal CAF, o da qualsiasi altro Ente preposto (sindacato, patronato, Cud, ecc.) devono dire esplicitamente che intendono destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento, e fornire il Codice Fiscale della nostra Associazione. Sono moltissime le associazioni cui è possibile destinare il 5 mille, compresi i Comuni, le Università, Enti di ricerca scientifica. Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in più o in meno non farà nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola quota sarà determinante per sostenere attività, campagne ed iniziative nonviolente che si basano esclusivamente sul volontariato, la gratuità, le donazioni.
SOSTIENI UN’ASSOCIAZIONE CHE DA OLTRE QUARANT’ANNI, CON COERENZA,
LAVORA PER LA CRESCITA E LA DIFFUSIONE DELLA NONVIOLENZA. GRAZIE!
Movimento Nonviolento
sede nazionale
Via Spagna, 8 – Verona

Israele – Palestina: un conflitto lungo un secolo.
Quali prospettive dopo il successo elettorale di Hamas ?

di Alberto Trevisan

Il conflitto israelopalestinese, che dura da quasi un secolo, è stato affrontato nel corso di questo lungo periodo dai maggiori pensatori del nostro tempo: da Gandhi a Martin Buber, da Einstein ad Hanna Arendt, da Magnes a Fromm sino ad arrivare a Galtung, solo per citare persone che hanno espresso un giudizio competente e autorevole su questo conflitto. Una premessa che non poteva mancare a chiunque si accinga ad una riflessione sull’attuale situazione in terra di Israele e Palestina, dopo le elezioni palestinesi del 26 gennaio 2006, il cui risultato ha sorpreso la maggior parte dei politologi per la dimensione del successo della formazione islamica Hamas. Cercando anche di ricordare solo alcuni brevi riferimenti storici, ricordo che al termine di un mio studio sull’Intifada (1987-1991), conosciuta come la rivolta delle pietre lanciata dai ragazzini palestinesi, mi avevano colpito due particolari significativi: uno di carattere politico, citato da Johan Galtung, l’altro di carattere letterario raccontato dallo scrittore israeliano David Grossman, forse il primo a parlarci di un viaggio nei territori occupati al tempo dell’intifada. Galtung, con la lungimiranza e competenza di cui è capace, senza incertezza scriveva nel suo libro, “Palestina-Israele: una soluzione nonviolenta? (edizioni Sonda-Torino 1989) che “non c’è processo di pace in Medio Oriente, non c’è mai stato e probabilmente non ce ne mai stata l’intenzione” e, pur sottolineando il valore dell’esperienza dell’intifada come uso della violenza al livello più basso possibile, non lasciava molto spazio a soluzione di breve durata, come invece molti politologi pensavano. Lo scrittore David Grossman, nel suo splendido libro, “Il vento giallo” (Mondadori-Milano 1988) raccontando il suo viaggio nei territori palestinesi occupati da Israele dopo la guerra del 1967, riprendendo una leggenda raccontatagli da un vecchio palestinese, definito come “la storia ambulante del paese”, ipotizza, come metafora, il possibile disastro del conflitto rappresentato dal soffio di un terribile vento proveniente dal deserto, caldissimo, che coprirà tutta la terra di Palestina di una coltre gialla (il vento giallo, che gli arabi chiamano riha azpar) raggiungendo tutti, persino le persone rifugiatesi negli anfratti delle rocce: nessuno avrà scampo. Ma ora che dal 26 gennaio 2006 spira un vento “verde” rappresentato dalle migliaia di bandiere verdi che hanno salutato l’imponente vittoria elettorale di Hamas, quale processo di pace in Medio Oriente e in particolare a Gerusalemme? si avvicina o si allontana.? Sono questi gli interrogativi più significativi che politici, politologi, uomini di cultura e del diritto si sono posti in tutto il mondo all’indomani dei risultati delle elezioni palestinesi. Come già è accaduto, pensiamo alla rapidità con cui il muro di Berlino è crollato, spesso il corso della storia è imprevedibile e lascia sorpresi anche i più fini interpreti delle vicende politiche e sociali della vita degli stati e dei popoli. Su un punto mi sembra ci sia una convergenza: le elezioni, volute in particolare dall’Unione Europea, con oltre 220 milioni di euro stanziati per fornire, schede, seggi, osservatori internazionali, si sono svolte con regolarità e senza particolari problemi. Significativo il commento di Aldo Baquis, riportato sul settimanale “Diario” il quale osservando l’atmosfera attorno ai seggi gli “sembrava di essere in Europa la domenica mattina: Gaza e’ diventata una provincia della Danimarca”. Dodicimila gli osservatori palestinesi, novecento quegli stranieri, niente brogli, niente assalti ai seggi, non un colpo di fucile sparato: i palestinesi sono andati a votare, hanno individuato i loro candidati, hanno illustrato i loro programmi in una tregua concordata e in un’atmosfera che persino alcuni osservatori israeliani hanno azzardato: “i palestinesi hanno dato una bella lezione di democrazia a tutto il mondo arabo. Da oggi noi in Israele non siamo più l’unica democrazia nella regione”, riferisce sempre Baquis nel suo reportage. Hamas ha conquistato 74 seggi, Al Fatah appena 45: ha vinto il pragmatismo, il partito–assistenza che dove era al governo locale ha amministrato bene, dove forse ha spirato questo “nuovo vento verde” o ha perso la mala amministrazione e l’ insopportabile corruzione di Al Fatah, dove da tempo una coltre di “vento giallo” continua a posarsi sui territori amministrati dalla autorità palestinese? Non sarebbe però corretto dimenticare come la politica di delegittimazione di Israele nei confronti di Arafat, prima, assediato per mesi nel suo quartiere semidistrutto, di Abu Mazen, dopo, cioè la parte moderata palestinese, abbia di fatto favorito l’ascesa imponente del movimento islamico di Hamas. Lo steso era accaduto negli anni dell’occupazione del Libano da parte di Israele quando questa politica aggressiva aveva contribuito alla nascita della formazione degli Hezbollah, sostenuti dal fondamentalismo iraniano. Se pensiamo che persino intellettuali israeliani, come Kimmerling che si definisce “patriota” non ha esitato a definire la politica di Sharon nei confronti dei palestinesi come un “politicidio”, cioè “un processo che comprende un’ampia forma di attività sociali, politiche e militari che hanno come fine la distruzione dell’esistenza politica e nazionale di una intera comunità di persone, negandole, così di ogni possibilità di autodeterminazione”. (“Politicidio. Sharon e i Palestinesi.”, Fazi editore, luglio 2003). Se anche Tanya Reinhart, docente e giornalista israeliana, descrive la politica di Israele dopo il 1948 con il significativo titolo del suo libro “Distruggere la Palestina” (Marco Troppa editore, 2004), sicuramente le vie d’uscita per una soluzione del conflitto appaiono difficilmente ipotizzabili. Come i due popoli possono uscirne insieme? Luigi Bonanate, insigne studioso nel campo dei diritti umani, all’indomani del risultato elettorale palestinese, in un suo editoriale apparso sul giornale “L’ Unità”, pur riconoscendo che “nessuno di noi conosce il futuro, osa ipotizzare che la gestione del potere politico potrebbe fare di Hammas un partito di governo più che di lotta e che ciò costituirebbe il miglior viatico per la ripresa di un vero processo di pace con Israele. Hammas, sostiene Bonanate, non ha vinto le elezioni con un programma di azioni terroriste e non potrà usare il terrorismo né per organizzarle né per giustificarle. La democrazia, infatti, tra le sue virtù, ha anche quella di avere una funzione promozionale, spinge cioè chi utilizza le sue istituzioni a comportarsi secondo le regole…Se e’ vero che l’Autorità palestinese nazionale del passato non era democratica, ora che il suo governo è stato eletto, Israele avrà un interlocutore affermatosi con le schede elettorali e non il fucile”. Mentre scrivo l’esito delle prossime elezioni israeliane non e’ dato a sapere, oltre alla difficoltà di prevederne il risultato, data l’irreversibile uscita dalla politica di Sharon: certo se le elezioni confermeranno una chiusura netta sulla linea suggerita dagli Stati Uniti, “con Hamas non si tratta”, se il muro continuerà implacabile a creare “enclaves” all’interno dei villaggi palestinesi e in particolare da parte di Israele continuerà l’annessione di Gerusalemme Est senza minimamente pensare all’idea di una Gerusalemme, se non “condivisa”, almeno rispettosa dei diritti dei due popoli che la abitano, allora il “vento giallo” rischierà di soffiare sempre più forte. Se invece Hamas riuscirà a contenere le sue spinte più estreme senza umiliare o persino estromettere dal parlamento la moderazione dei rappresentanti di Al Fatah, e come ha sostenuto il suo leader, H. Hassan Yousseff, “ad aprire un dialogo aperto e senza condizioni con l’ONU, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Russia” e nell’attesa di un chiaro rifiuto del terrorismo rispettando il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele, attraverso “una tregua” di lunga durata dove sia garantito l’ordine nei territori palestinesi, questa potrebbe essere la strada indica da Bonanate come possibile alternativa all’uso promozionale della loro democrazia. E sulla via di una possibile soluzione non violenta tra Israele e Palestina, una possibile risposta ce la fornisce Alì Rashid, da anni primo segretario della Delegazione Palestinese in Italia, ora probabile deputato al prossimo Paralamento italiano quando in una sua intervista al Manifesto del 22/6/06 dichiara che “la non violenza è un punto di arrivo. “Per noi il bilancio della lotta armata contro Israele è terribile. Abbiamo perso la nostra generazione più bella, quella nata a ridosso dalla catastrofe (“Nakba”) del 1948. Una generazione che fino al 1967 aveva investito nell’istruzione dei propri figli che si e’ laureata nelle migliori università’ del mondo e che aveva un peso culturale enorme in tutto il mondo arabo e non. Era questa la nostra forza….Nella condizione specifica dei Palestinesi credo sia necessario cercare altri strumenti di lotta. Se sul piano militare il confronto è impossibile, sul piano etico-culturale gli spazi di azione sono immensi… per questo sono per una lotta non violenta: perché è un atto di fiducia nelle donne e negli uomini. Mentre la violenza dilaga ovunque bisogna avere la lucidità di evitare scorciatoie. Israele è il più acerrimo nemico del suo popolo non vorremo anche noi fare lo stesso per il nostro”. Sarà questo il nuovo vento dell’arcobaleno in terra di Palestina? Ce lo auguriamo.

una forza più potente: scheda 2
Polonia 1980-81: Abbiamo preso Dio per un braccio

E’ in uscita anche in Italia la serie di video “Una forza più potente” (prodotta negli Stati Uniti dalla York Zimmerman e diffusa in versione DVD nel nostro paese dal Movimento Nonviolento) che presentano 6 casi storici di resistenza nonviolenta nel XX° secolo. Presentiamo una scheda al mese: dopo Danimarca, India e Polonia seguiranno Cile, Sudafrica, Usa.

A cura di Luca Giusti
I cantieri navali di Danzika scioperano, avviando il processo che porterà alla vittoria di Solidarnosc.

La situazione: a fine anni ’70 l’economia è al collasso; aumento prezzi e licenziamenti agitano un regime trentennale.
?1945: l’esercito sovietico libera il paese dai nazisti e insedia un regime di partito unico che vieta i sindacati autonomi.
?1970–settembre: i lavoratori di Danzica (Gdansk) in sciopero si riversano in direzione del governo che risponde con i carri: 6 morti, 300 feriti e moltissimi arresti.
?1976-settembre: intellettuali e dissidenti creano un comitato di difesa del lavoratori (KOR) per aiutare le famiglie in difficoltà e pubblicare giornali e libri.
?1979:l’arcivescovo di Cracovia Carol Woytila è eletto Papa
Un elettricista con una grande consapevolezza
?1980, 14 agosto Danzica, Lech Walesa, leader degli operai del Cantiere navale Lenin annuncia: “Occuperemo il cantiere, io sarò l’ultimo ad andarmene”.
Lech Walesa 37enne meccanico e poi elettricista a Danzica dal’61: “Nei dieci anni trascorsi dal 1970, quando ero leader dello sciopero nello stesso cantiere, ho continuato a domandarmi ‘Quali errori abbiamo commesso?’ Se avessi un’altra occasione di guidare uno sciopero come lo organizzerei? ”
Questa volta non saranno dati pretesti ai carri armati: lo sciopero è dichiaratamente non violento e attentamente preparato. Così quando, dopo qualche ora, la gente comincia ad urlare di aprire i cancelli per andare alla sede regionale del partito comunista, è pronto un antidoto: cominciano a cantare l’inno nazionale e gli animi si calmano. Per evitare che il regime blocchi la diffusione della notizia, lsi telefona subito al KOR di Varsavia; quando le linee telefoniche vengono tagliate, la notizia è ormai giunta a Radio Europa Libera e BBC.
?2° giorno: lo sciopero si è allargato a 50.000 lavoratori di trasporti pubblici, porto e a decine di fabbriche nel comprensorio. Si prepara una lista di richieste senza precedenti: diritto allo sciopero e sindacati liberi.
?3° giorno: il partito autorizza il direttore del cantiere a negoziare offrendo aumenti salariali e migliori condizioni lavorative; ma non un sindacato autonomo. L’assemblea è pesantemente infiltrata e accetta l’accordo. Migliaia di scioperanti se ne sono già andati quando Anna (operaia) e Alina (infermiera) con coraggio si piazzano davanti al cancello principale e gridano: “Che ne sarà degli operai che ci sostengono? Delle altre 40 fabbriche?”. Riescono a persuadere alcune centinaia di operai a restare la notte: lo sciopero prosegue.
Anna Walentynowitcz: ai cantieri Lenin dal ’50, diventando presto leader sindacale; viene licenziata nell’agosto dell’80 ma è subito reintegrata per la sollevazione dei colleghi.
Si crea un comitato inter-fabbrica, che in meno di una settimana rappresenterà mezzo milione di lavoratori, 370 fabbriche di ogni settore e di ogni regione: un potere popolare mai visto.
?4° giorno: messa cattolica domenicale nel cortile d’ingresso. Migliaia di cittadini partecipano da fuori decorando i cancelli con fiori, biglietti e foto del Papa, divenuto simbolo di coesione e liberazione nazionale (foto Zgbiniew Tribiek ).
?5° giorno: Il comitato diffonde un documento con 21 richieste. Molti ritornano a scioperare in tutto il paese.
?8°giorno: Gli occupanti pubblicano un bollettino quotidiano dal titolo Solidarnosc, e istituiscono una sorta di secondo governo della Polonia, preparandosi a una lunga lotta..
Zbigniew Bujak: 27enne, elettricista organizzava comitati sindacali alle fabbriche Ursus di Varsavia: “Ci rendemmo conto di avere un’opportunità da cogliere, prendere Dio per un braccio, come si dice in Polonia“. “Conoscevamo la storia di Gandhi e Martin Luther king e sapevamo che loro attraverso la resistenza non violenta avevano vinto”
Il negoziato
?10° giorno: arrivano al cantiere i rappresentanti del governo. Il comitato chiede la trasmissione diretta del negoziato in televisione. Walesa rende quotidianamente conto ai lavoratori, in un modo aperto e diretto che non ha precedenti. L’appoggio dei lavoratori è forte e il regime, nell’urgenza di riprendere la produzione, gradualmente scende a patti.
? 18° giorno: il 31 agosto 1980, si firma l’accordo: si concedono sindacati liberi e diritto di sciopero, aumenti salariali, settimana lavorativa di 5 giorni e alleggerimento della censura sulla stampa. Walesa dichiara: “Abbiamo conquistato la cosa più importante: il diritto alla libertà attraverso le nostre organizzazioni sindacali che saranno come noi vogliamo che siano”.
Bujak: Firmato l’accordo, ci rendemmo subito conto di aver fatto solo il primo passo e che la corsa contro il tempo cominciava solo allora” […] “Il decreto era costruito in modo che ci registrassimo separatamente […] migliaia di piccole strutture separate
Per evitare la trappola della frammentazione ci si affretta a rafforzare Solidarnosc (www.solidarnosc.org.pl/english.htm) come struttura nazionale legale e unitaria. Walesa e Anna Walentinowicz passano 4 intensissimi mesi in giro per la Polonia, federando centinaia di sindacati locali e 10 milioni di iscritti.
La repressione
La repressione arriva, sotto forma di violazioni dell’accordo (ripristinati due sabati lavorativi al mese), molestie agli attivisti, censura ai giornali e arresti dei funzionari. Ma Solidarnosc è ormai un’organizzazione ben radicata, democratica e per questo impermeabile a estremisti e infiltrati; controbatte minacciando scioperi.
? 1981, 9 dicembre: arresto dei delegati di una conferenza sindacale. Nei due giorni successivi avviene lo stesso ovunque per migliaia d’attivisti.
?13 dicembre: viene introdotta le legge marziale. Solidarnosc è bandita e privata dei suoi dirigenti; il regime infiltra dappertutto i propri informatori. Ma il movimento continua clandestino in migliaia di piccole organizzazioni locali, troppe per essere spazzate via. Il regime non può andare oltre, nell’attaccare un blocco sociale unito, ramificato e in collegamento con chiesa e papato. Nè Solidarnosc gli fornisce il pretesto di ribellioni violente; rafforza invece reti di disobbedienza e solidarietà a partire dalla preziosissima rete di contatti fidati che si era creata nei cinque anni di KOR.

La stampa clandestina si moltiplica raggiungendo oltre sette milioni di Polacchi, in maniera decentrata (ogni città stampa il proprio giornale), così da sfuggire alla repressione. Se un giornalista è cacciato dalla stampa ufficiale, viene stipendiato da quella clandestina. Se un attore è messo al bando, gli si aprono le piazze minori.
?1982-1988: in sette anni di repressione, il regime mantiene un’apparente stabilità ma le sue fondamenta sono marce. Nel 1983 Lech Walesa riceve il Premio Nobel per la pace.
Il confronto finale
?1988. estate: il continuo aumento dei prezzi, il razionamento alimentare ed energetico paralizzano il paese; la nuova ondata di scioperi costringe il governo a legalizzare Solidarnosc.
?Tre giorni dopo: gli scioperanti riprendono il lavoro.
?1989, febbraio: Solidarnosc, governo, partito e chiesa aprono un dialogo sul futuro della Polonia.
?aprile: accordo su liberi sindacati, libera stampa ed elezioni parlamentari, le prime in oltre 60 anni.
?4 giugno: La folla festeggia la vittoria sotto le finestre del nuovo premier Walesa; ha vinto con un margine di 10 a 1.
Per approfondire
Persky, Stan. At the Lenin Shipyard: Poland and the Rise of the Solidarity Trade Union. Vancouver: New Star Books, 1981.
Bernhard, Michael H. The Origins of Democratization in Poland: Workers, Intellectuals and Oppositional Politics, 1976-1980. New York: Columbia University Press, 1993.
Jan Zielonka, Political Ideas in Contemporary Poland, Gower Publishing Group, Aldershot UK, 1989.
Ash, Timothy Garton. The Polish Revolution: Solidarity. New York: Charles Scribners’ Sons, 1984.
Goodwyn, Lawrence. Breaking the Barrier: The Rise of Solidarity in Poland. New York: Oxford University Press, 1991.
Laba, Roman. The Roots of Solidarity: A Political Sociology of Poland’s Working-Class Democratization. Princeton: Princeton University Press, 1991.
Vaclav Havel, Il potere dei senza potere, La Nuova Agape, 1979
Theodor Ebert, La difesa popolare nonviolenta, Ed. Gruppo Abele, Torino 1984 (originali 1967-1982).
Resistenze civili: le lezioni della storia, n.22 della collana Quaderni della DPN, (ed. La Meridiana, Molfetta 1993, pp.163)

Davide Melodia, 1920 – 2006
Un artista della nonviolenza evangelica

Di Mao Valpiana

Davide Melodia è stato un pioniere della nonviolenza italiana. Con la sua ricca ed estrosa personalità ha camminato su tanti sentieri, si è cimentato in mille mestieri: pittore, poeta, scrittore, maestro carcerario, guida turistica, attore, cantante, compositore, traduttore poliglotta, giornalista, insegnante, pastore evangelico, predicatore.
Con i suoi racconti ti affascinava. Aveva sempre pronto qualche ricordo, qualche aneddoto, qualche storia della sua vita avventurosa. Grande narratore, che mescolava umorismo, scherzi, a momenti di commozione vera. Una persona che ispirava subito simpatia e la cui compagnia era piacevolissima. Ma ciò che subito emergeva era la sua profonda religiosità, la sua fede, che l’ha portato ad essere attivissimo negli ambienti evangelici, fino a diventare pastore battista poi predicatore evangelico e quindi attivissimo nei Quaccheri.
La sua riflessione sulla nonviolenza inizia durante la prigionia nella seconda guerra mondiale (quanti episodi, divertenti e tragici su quegli anni…). Ha approfondito soprattutto la nonviolenza religiosa, ecumenica, ed ha partecipato ai primi momenti di organizzazione della nonviolenza italiana, con notevoli frequentazioni anche degli ambienti pacifisti internazionali. Ha sperimentato la nonviolenza in mille campi, anche dentro alle carceri italiane, come insegnante. Alla nascita del movimento ecologista, lui che aveva fatto la scelta vegetariana fin dal 1972, è in prima fila e viene subito eletto consigliere comunale e provinciale. Mentre scrivo queste poche note, per commemorare un caro amico, i ricordi si rincorrono, ed emergono nitidi ma sovrapposti nel tempo. Chi ha avuto la fortuna di assistervi non potrà mai dimenticare gli spassosi siparietti che Davide improvvisava nelle serate libere di un convegno o un congresso nonviolento. Dategli un palco ed un microfono, ed è fatta! Poesie, canzoni, scene teatrali, ed era un maestro nel tenere l’attenzione del pubblico; anche se il suo era uno stile d’altri tempi, i giovani lo apprezzavano per la spontaneità, improvvisazione, sincerità. Alle volte sembrava lui stesso un giovanetto, anche se aveva all’epoca 60-70-80 anni… Per noi del gruppo veronese del Movimento Nonviolento è stato un maestro. Veniva spesso, quando si faceva il teatro ambulante per la città, e quanti trucchi da guitto che ci ha insegnato. Con il nostro Sergio Salzano ha messo in piedi un vero sodalizio: Davide componeva i testi, e Sergio la musica, poi accompagnandosi con la chitarra cantavano e insegnavano canzoni nonviolente (come la memorabile “Uomo, chi fermerà la tua mano?”) alle marce antimilitariste o ai campi estivi. Da quel sodalizio è nata anche l’idea dell’autobiografia di Davide a puntate, “Un soldato mediocre”: alcuni fogli ciclostilati, a cadenza mensile, che venivano spediti agli abbonati. Da quei primi anni l’amicizia con Davide si è sempre mantenuta e i contatti erano costanti. Recentemente, con l’avvento delle nuove tecnologie, lui, ormai ottuagenario, non si è lasciato scoraggiare, e si è adeguato, prendendo dimestichezza con l’email e aprendo anche una sua pagina, che trovate in http://web.tiscali.it/davidemelodia/ così ha potuto non far mancare mai, fino a poche settimane fa, il suo punto di vista e le sue poesie, anche se l’età ormai avanzata e vari problemi fisici gli impedivano di fare lunghi spostamenti.
Erano tanti gli amici di Davide Melodia riuniti nella Chiesa Evangelica Metodista di Intra per porgergli l’ultimo saluto.
Non so dire i nomi di tutti gli intervenuti, ma quello che più mi ha colpito è stato un giovane ragazzo ghanese, che ha raccontato di aver trovato in Davide un disponibilissimo e generoso maestro di lingua italiana: “il signor Davide non mi ha insegnato solo le parole della vostra lingua, ma soprattutto mi ha insegnato buone idee, buoni valori, l’amore per la pace”. Alla cerimonia erano presenti i figli Marco e Paolo, che ci hanno confidato che Davide si è spento dicendo con flebilissima voce: “Consegnatemi a Gesù per la Pace”. Sulla sobria ed essenziale cassa in legno e’ stata distesa la bandiera della nonviolenza con il fucile spezzato, che tanto piaceva a Davide.
Nell’ultima telefonata insisteva perchè la parte dedicata alla nonviolenza del suo ricco archivio di documentazione e bibliotecario, fosse raccolta e custodita dal Movimento Nonviolento. Ma quello che resta di Davide non sarà solo in quelle carte che testimoniano l’infaticabile e originale vita di un amico della nonviolenza. I migliori ricordi di Davide resteranno nella sue opere. Le poesie sono il frutto del suo spirito libero, ora accolto nella nonviolenza piena. E proprio all’artista nonviolento alla fine è stato tributato un lunghissimo e commosso applauso.
Un pastore della nonviolenza

Nato il 10 agosto 1920 a Messina, Davide Melodia è figlio del Pastore Evangelico Battista, Vincenzo.
Soldato in Cavalleria nel 1939, inviato in Libia nel 1940 prima dello scoppio della II Guerra Mondiale, cadeva prigioniero dell’Esercito Britannico alla fine del ’40. Dopo sei anni e un mese di Prigionia in Egitto e in Sud Africa, nel 1947 divenne Maestro Elementare, e nel 1949 è stato nominato Pastore Evangelico, come il Padre, per operare a Sarzana, La Spezia e Prato.
Dopo altri sei anni, lasciato il pulpito, ha fatto esperienze di insegnante di inglese in scuole private e nell’ Ente Nazionale Educazione Marinara a Livorno, quindi ha svolto attività di guida turistica e interprete di inglese e francese, e infine è stato per cinque anni Maestro Carcerario.
Nel frattempo ha approfondito la conoscenza della storia Tedesca, specialmente la parte relativa alla Seconda Guerra Mondiale e al Nazismo, per comprendere i problemi dei Lager nazisti e collaborare con il fratello Giovanni, reduce dal Campo di Concentramento di Dachau.
Nel 1960 trovava presso la Libreria Belforte di Livorno il libro: The Case against Adolf Eichmann, autore Henry A. Geiger, che proponeva all’Editore Cino Del Duca di tradurre.
A Milano, dal 1961 al 1968, è stato traduttore di redazione da quattro lingue – Inglese, Francese, Tedesco, Spagnolo – presso il giornale Il Giorno. Si interessava nel frattempo di problemi carcerari con la Lega Nonviolenta dei Detenuti, e, alla luce dell’esperienza pubblicava un libro-documento, “Carceri = Riforma Fantasma”, nel 1976.
Nei primi anni ’70 è stato insegnante di Lingua Italiana presso l’Istituto Dante Alighieri di Milano.
Sempre negli anni ’70 è stato due volte rappresentante del Movimento Nonviolento presso i Congressi della WRI in Europa, e nel 1985 lo ha rappresentato alla Triennale del WRI a Vedchi, in India.
Dal 1972 è vegetariano.
Tornato a Livorno è stato nuovamente Guida Turistica, poi insegnante delle Guide, e per quella città ha pubblicato una breve Guida, ed una monografia sullo Storico Cimitero Inglese.
Dal 1979 è tornato alla Predicazione come Predicatore Evangelico, a disposizione di qualsiasi Comunità Protestante, a Livorno, Pisa, Piombino, Isola d’Elba, Carrara, La Spezia, Imperia, Rho e dal 1990 a Verbania, Omega, Luino, Como, Imperia, Rho, Canegrate, Paterno Dugnano.
Nel 1985 si reca in India ad una Triennale della WRI, e l’anno successivo partecipa ad una Marcia per i Bambini del Mondo da Ahmedabad, e alla Tomba di Gandhi, Dheli.
Sempre negli Anni ’80 collabora con i Nipponzan Myohojii, monaci buddisti pacifisti giapponesi, per presentare una lettera del Sindaco di Hiroshima alla Accademia Navale di Livorno, a Camp Darby di Pisa, alla NATO di Verona, ed a Londra alla Inaugurazione di una Pagoda della Pace nel Kensington Park.
Ancora negli Anni ’80, per conto della Società Religiosa degli Amici, Quaccheri, partecipa al grnde Convegno Ecumenico Internazionale della JPIC (Justice, Peace, Integrity of Creation) ad Assisi, e poi a quello di Basilea.
Impegnato politicamente con i Verdi, è stato Consigliere comunale a Livorno, poi, raggiunto il Lago Maggiore, è stato Consigliere Provinciale del Verbano Cusio Ossola, (VCO), sempre per i Verdi.
Pacifista Nonviolento dal 1947, da subito in contatto con la War Resisters International (WRI), membro del Movimento Nonviolento dal 1972, ne è stato il Segretario per alcuni anni, così come lo è stato della Lega per il Disarmo Unilaterale, fondata dallo scrittore Carlo Cassola.
Dal 1979 è tornato alla predicazione evangelica, e dal 1983 ha approfondito i valori della nonviolenza, della pace e dell’amore con i Quaccheri, su cui ha scritto alcuni saggi inediti.
Predica nelle Chiese Evangeliche di ogni Denominazione.
Dal 1976 ha aggiunto ai valori della Pace e del Cristianesimo quelli della Salvaguardia della Natura, attraverso i Verdi. Per anni ha tenuto, nelle scuole medie e superiori, lezioni sulla Storia del pensiero e dell’azione nonviolenta.
Muore a Frino di Ghiffa il 7 marzo del 2006.

I Quaccheri e il Pacifismo

Il pacifismo nonviolento quacchero è nato, come il senso della giustizia, dell’uguaglianza fra gli uomini, del rispetto di tutte le culture e delle religioni, la difesa dei diversi, degli emarginati, dei carcerati, dei malati, gli interventi nelle zone calde del mondo per tentarvi la mediazione o iniziare la ricostruzione, dal principio fondamentale che gli Amici (Quaccheri) portano alle sue estreme conseguenze: in ogni persona v’è un tanto di Dio (seme, scintilla: « that of God in every one »).
Il tutto partendo da un altro principio: la luce interiore (di Cristo), la cui ricerca non è fine a se stessa, né è finalizzata alla salvezza, o alla pura elevazione spirituale.
Come di fatto è accaduto, il fondamentale spiritualismo quacchero non si è risolto in misticismo distaccato dal mondo, ma in un impegno (commitment) socio-religioso senza soluzione di continuità.
Mentre molte comunità locali di Amici vivono la loro fede intorno al culto silenzioso e ne traggono linfa per una attività filantropica simile a quella diaconale delle chiese evangeliche, i gruppi che sanno tenere contatti regionali, nazionali e internazionali sono coninvolti in una o più attività sociali di grande significato e respiro: vedi il Quaker Peace & Service, con una diecina di diramazioni nel campo della pace e dei diritti umani, fra cui quella che sostiene gli obiettori di coscienza in vari paesi e quella che organizza campagne internazionali per l’obiezione fiscale alle spese militari, quella che invia operatori sociali o esperti in Iraq, Israele o ex-Jugoslavia per aiutare i più deboli e dialogare con i più forti; o il Quaker Council for European Affairs, che segue con occhio critico e nonviolento gli incontri del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo, e informa tutti gli interessati di ciò che fanno o non fanno sul piano della pace e dei diritti umani, mediante il bollettino Around Europe (Bruxelles), invitando chi può a intervenire. Ad esempio a fare pressioni affinché il diritto all’obiezione di coscienza venga finalmente discusso, votato e inserito nella European Convention. L’elenco, schematico, riempirebbe almeno un fascicolo di 10 pagine.
Ma queste attività verso l’esterno provengono di solito da una notevole coerenza interiore e personale. La schiacciante maggioranza degli Amici ha sempre rifiutato di partecipare a qualsiasi conflitto fin dal 1651, quando George Fox rifiutò un incarico militare che i Puritani gli offrivano (altri avevano già preso le distanze dall’esercito cromwelliano), e, passando dalla famosa Declaration to Charles II (genn. 1661) in cui « l’innocuo e innocente popolo di Dio chiamati Quaccheri » si dichiarava contrario ad ogni guerra vuoi per i regni di questo mondo che per il regno di Dio, ha resistito ai richiami di guerra delle Colonie inglesi contro i francesi o gli indiani, non ha partecipato militarmente alla rivolta delle Colonie d’America contro l’Inghilterra, né alla Guerra di Secessione…. su su fino alla I e alla II Guerra Mondiale, alla Guerra di Corea ed a quella del Vietnam.
Non solo non vi ha partecipato, ma non ha ispirato alcun giudizio o condanna, in quanto credente nella santità della vita, data da Dio: in questo ed altri aspetti della tolleranza quacchera verso l’Altro, non c’è spazio per tribunali e per condanne, e la distanza dal moralismo, puritano o non, è, sul piano storico e di principio, insuperabile.

Davide Melodia

Non parlare di Nonviolenza

Se non ami la vita, la gente,
la folla variopinta,
la libertà degli altri,
la follìa degli altri,
non parlare di nonviolenza.
Se non sei cittadino del mondo,
amico dei neri, dei gialli, di tutti,
non parlare di nonviolenza.
Se non denunci confini,
barriere, nazionalismi,
patrie, bandiere, galere,
non parlare di nonviolenza.
Se non ti opponi ad eserciti di ogni colore,
a corpi separati, consacrati,
ubriachi di potenza,
non parlare di nonviolenza.
Se non ti rivolti contro il verticismo,
il centralismo, l’ autoritarismo,
non parlare di nonviolenza.
Se non contesti il sacro che nasconde il vero,
il dio in terra che nasconde il cielo,
il consumismo che risucchia il sangue
dei dannati della terra,
non parlare di nonviolenza.
Se non ti getti nel folto della mischia,
come la dinamite nel pozzo di petrolio
per spegnere l’ incendio,
pronto a perir con esso,
non parlare di nonviolenza.
O, se ne parli,
di’ che stai favoleggiando
intorno a qualche cosa
che non sai.
(Sardegna, 14 agosto, 1976)
I Quaccheri e la riconciliazione

Per vocazione e per scelta, i quaccheri sono il popolo della riconciliazione. Sul piano religioso, come elemento fondamentale di un corretto rapporto con Dio, Creatore e Padre, con cui è follia avere un rapporto di conflittualità, di rigetto e di lontananza arrogante; con gli uomini, quali coeredi di una identica figliolanza divina, egualmente fruitori di una scintilla divina, partecipi attivi o passivi di una sola fratellanza universale.
Sul Piano sociale, come impegno a riportarla fra gli uomini in lotta fratricida, la riconciliazione è per i quaccheri un aspetto della testimonianza di pace. Detto questo, di fatto, come si svolge e si articola l’opera di riconciliazione?
In primis, senza prendere le parti di uno dei due (o più) contendenti. Ciò non per evitare rischi e stare comodamente a guardare con atteggiamento neutrale, ma per dare all’intervento di riconciliazione attiva presso tutte le parti in conflitto la garanzia della imparzialità, la trasparenza dell’azione e la credibilità per fungere da ponte.
Secondariamente, lasciando in disparte ogni pregiudizio verso coloro in cui vuole fare sbocciare il fiore del rispetto reciproco, dell’ascolto e della collaborazione, il quacchero deve per primo vivere fiducia, rispetto, ascolto, accettazione del prossimo.
La parola nemico deve scomparire dal suo vocabolario, sì da renderla inattuale nella bocca e nell’atteggiamento di coloro che vivono ancora la tensione, l’angoscia, il rancore e l’odio provocati dal conflitto.
Il problema, per il quacchero che ha ben maturato il concetto della pace spirituale e sociale che emana dalla luce interiore di Cristo, non è quello del suo rapporto con la religione, la cultura o l’etnia con cui viene a contatto per operare in vista della riconciliazione – perché è superato dal suo genuino rispetto per l’altro come lui – quanto indicare la via del rispetto a quelli che sono in lotta fra loro. Ad esempio portare vera pace ecumenica fra cristiani e musulmani, fra cristiani ed ebrei, fra musulmani ed ebrei, là dove quelli si mantengono su fronti opposti e polemici.
Lasciando a chiunque, quacchero o simpatizzante, di affrontare politicamente i problemi che travagliano e dividono gli uomini, purché lo facciano a titolo e responsabilità personale, i quaccheri come comunità intervengono nelle aree di conflitto cercando il contatto con la gente comune, con la base e non con il vertice della piramide sociale, con le persone di buona volontà che vogliono collaborare alla riconciliazione.
Gli stati e i governi passano, la gente resta, con i suoi problemi.
Alla gente e ai problemi va dato il massimo di attenzione. Ai governi, quando si è capaci e qualificati per farlo, si potranno in alcuni casi inviare delegazioni con documenti emessi da un’assemblea responsabile e preparata, miranti a sottolineare un’ingiustizia, una forma di violenza, una trasgressione verso i diritti inalienabili dell’essere umano.
Questo modo di operare non è raro in casa quacchera. Tutte le forze vengono da sempre dirette senza deviazioni politiche alla persona, affinché ritrovi in se stessa e nell’Altro quel « tanto di Dio » che alberga in entrambi, offrendo collaborazione nell’istruzione, nei Kindergarten, nel lavoro, nell’addestramento alla nonviolenza a tutte le parti coinvolte.
Quando e se tale risultato viene raggiunto fra gli uomini prima in conflitto, il resto viene da sé, perché la riconciliazione è benedetta da Dio.

Davide Melodia

L’ Emmanuel
(Testi : Isaia 7.14,15 ; Matteo 1. 23 )

“Dio è con noi” – sta scritto –
ma io, con chi son io ?
Con Lui, con me stesso, con gli altri,
con il piacere, con gli ’idoli del Mondo ?
Che ho fatto della mia vita,
come ho vinto il dolore,. la paura,
la solitudine ?
Ho lenito le pene del prossimo,
ho riconosciuto Cristo nell’affamato ?
Ho portato una parola di speranza
ai disperati, di pace agli assediati ?
Ho lottato contro il male e la violenza
con Lui ?
Eppure Egli è qui, accanto a me,
Amico onnipresente,
divino Consolatore.”Ma io ho altre soluzioni,
risorse tecnologiche,
scientifiche invenzioni.
“Io, Uomo pensante,
non ho bisogno dell’ Emmanuel.
Sono il mio Dio,
Il mio Io è Dio.
Posso ogni cosa,
basta che lo voglia !
Ed ecco, m’avvio alla vittoria
Sulla materia, la morte, il dolore.
Attenda pure l’Emmanuele
Qualche anno ancora . . .”
Ma poi mi sveglio
dal superbo, sacrilego sogno,
e mi accorgo
che ho sprecato la vita,
che ho scacciato l’unico
amorevole Amico.
E sono solo, sull’ orlo di un abisso
E Lui ritorna,
anzi è già qui,
dietro la porta del mio cuore,
e bussa,
e sussurra : “Sono l’Emmanuel !”

Davide Melodia

Laboratori di nonviolenza in carcere. Capire le ragioni della violenza.
Rimarginare le ferite attraverso la consapevolezza, per cambiare.

Nostra intervista a Pat Patfoort
A cura di Elena Buccoliero

Pat Patfoort è uno dei nomi più belli e più noti della nonviolenza europea. È una signora dolcissima e ridente, piena di grinta e ben persuasa del suo pensiero. Le sue tracce si ritrovano in Cecenia, in Kossovo, in Ruanda… nelle situazioni di conflitto più dure, più aspre, dove proporre training che aiutino gruppi di entrambe le parti – di solito prima separatamente e poi insieme – a riconoscere le ragioni dell’altro, la sua umanità.

Pat Patfoort è anche impegnata da oltre 15 anni nella conduzione di gruppi sulla nonviolenza, in diverse carceri del suo paese, il Belgio. Per una volta le abbiamo chiesto di parlarci di questo aspetto, meno noto, della sua azione per la nonviolenza. E come inizia a parlare dei carcerati, si intuisce una vicinanza personale molto forte alle tante storie che ha incontrato.

Il carcere è una strategia adottata dalla società per difendere se stessa, mettendo gli autori di reato in posizione minore. Ora, io ammetto che chi ha determinati comportamenti possa avere bisogno di un tempo di isolamento per pensare a quello che ha fatto, a come è stato possibile, a quali come avrebbe potuto agire diversamente. Questo però comporta un intenso lavoro con le persone dei carcerati, ed anche con le guardie, o con le persone là fuori, perché tutti oscillano tra le posizioni di debolezza o di sopraffazione, tra minore e Maggiore come io sono solita dire, ed anche i prigionieri tra loro ripropongono lo stesso modello relazionale se non vengono aiutati a fare diversamente.
La tua è una critica radicale alla istituzione carceraria, alle sue modalità…?
Io credo ci siano diversi modi per consentire la riparazione dei reati, e dovrebbero essere esplorati di più. Un tema su cui si riflette e si sperimenta da tempo è la ricostruzione di un rapporto tra vittima e autore di reato, quando questo è possibile, perché entrambi possano rielaborare ciò che hanno vissuto. Io dico ai carcerati che incontro: non puoi più cambiare il passato; puoi solo scegliere di proseguire come prima, in una posizione M o m, oppure puoi cercare l’equivalenza, il rapporto alla pari con gli altri.
La mediazione è molto importante, ma credo richieda un grosso percorso alle vittime.
Sì, ma non soltanto a loro. Anche per chi ha commesso il crimine è molto difficile accettare di incontrare la propria vittima. Non sono pronti. Per molti di loro il comportamento celava una difesa, un desiderio di affermazione positiva o il bisogno di uscire da una posizione minore – non è raro, per esempio, conoscere uxoricidi che per anni erano stati posti in posizione minore dalle loro mogli – l’errore sta in come una spinta, legittima, viene tradotta in azione. Ogni volta che noi, ad un bambino picchiato da un compagno, diciamo di “ridargliele indietro” stiamo preparando un potenziale autore di reato. Si tratta di capire, e di sperimentare, che affermare se stessi è diverso dal prevaricare gli altri.
È diverso per te lavorare con autori di violenza privata o politica?
I criminali non sono cattiva gente. Sono persone che hanno fatto cose cattive. D’altra parte, io in tanti anni non ho mai conosciuto persone veramente malvagie. Per i terroristi vale lo stesso discorso, ma io ho bisogno di lavorare di più su me stessa per accostarmi a loro.
Ricordo bene il caso di un veterinario ucciso dalla mafia del mio paese cinque anni fa, perché si era rifiutato di pagare il pizzo. Questo caso mi aveva toccato moltissimo. Era un eroe per me. Tempo dopo ho conosciuto in prigione un certo Carl che sapeva tutto sul commercio delle armi. Un tipo simpatico, intelligente. Come fai a sapere tante cose?, gli ho chiesto, e così ho scoperto che aveva scritto un libro sulle armi da fuoco. Bene, Carl aveva venduto l’arma che aveva ucciso quel veterinario. Come è stato possibile?, mi sono chiesta. Ed ecco la storia: il padre di Carl è morto quando lui era solo un bambino, è stato adottato da un mercante di armi. A dodici anni sapeva tutto il possibile sulla merce del nuovo padre. Questa era l’unica cosa che sapeva fare davvero bene.
In prigione, alcuni anni più tardi, è diventato cosciente della propria storia.
Sì, ma non credi che in questo modo si finisca per giustificare qualsiasi comportamento, anche il più crudele?
Ti racconto ancora una storia. Yussef era un ragazzo di 17 anni, nordafricano. Quando l’ho conosciuto era in carcere perché aveva ucciso una signora anziana per rubare in casa sua. Ascolta la sua storia.
Yussef veniva picchiato dal padre, non amato dai suoi familiari. Cercava fuori casa l’affetto che non sentiva intorno a sé. Ha incontrato un gruppo di amici e per la prima volta ha avuto la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande di lui, ma anche il gruppo lo ha posto in posizione minore. Avrebbe fatto di tutto pur di essere accettato. “Scommetto che tu non sei capace di rubare”, gli hanno detto. E lui ha voluto dimostrare che invece sì, era un duro come gli altri. Entra nella casa dell’anziana signora, gli altri fuori che lo aspettano. Yussef picchia questa signora, lei si difende, lui la uccide. Come posso non piangere per la tragedia di questa donna, per la tragedia di Yussef che a 16 anni ha rovinato la sua vita quando voleva solo essere amato, voleva solo esistere per qualcuno? No, non è una scusa. Non ci sono giustificazioni per un omicidio, ma ci sono delle ragioni che devono essere cercate, anche perché questo ci permette di lavorare sulla prevenzione.
Come si svolgono i laboratori in carcere?
Tengo gruppi di 9 persone e lavoro con loro per 10 settimane, due volte alla settimana, con qualche altro incontro più avanti, di verifica sul lavoro del gruppo.
Che risultati hai riscontrato?
In genere ci sono illuminazioni repentine a cui seguono delle ricadute, e poi delle lente riprese di ognuno dentro al proprio percorso di vita. È proprio come se inizialmente, quando spiego il modello m-M, chi mi ascolta adottasse per la prima volta un’altra prospettiva e scoprisse molte cose di sé. Poi il tempo passa e ognuno è portato a rientrare nella vita di sempre. È allora che il cambiamento inizia davvero, sempre con lo sguardo rivolto a quella piccola luce intravista inizialmente…
Immagino che i tuoi “allievi” possano avvicinarsi anche per opportunismo: sconti di pena, permessi…?
I prigionieri vengono ai miei gruppi per scelta e la loro prima motivazione è poter mostrare il diploma del corso al giudice del prossimo processo, per esempio di secondo grado, sperando che venga diminuita la pena. A me tutto questo non interessa. Io chiedo la partecipazione, e basta. Non m’importa del motivo iniziale per cui le persone vengono al gruppo.
“Ho incontrato una volta un terrorista musulmano che ha partecipato alle prime due sessioni e poi è scomparso. Continuava a dire che erano tutte stupidaggini. Beh, qualche tempo dopo è ricomparso e ha seguito tutto il percorso. Ciò che lo ha fatto ritornare, è che non si era sentito giudicato.
È necessario un lavoro su se stessi per relazionarsi serenamente con persone che possono aver commesso anche reati davvero gravi?
Il percorso è lungo per ognuno di noi. Trentacinque anni fa a Bordeaux ho incontrato Lanza Del Vasto. Ricordo bene quel momento. Era inverno, c’era poca gente. È stato per me una fonte di grande ispirazione, anche se poi non ho condiviso tutte le sue posizioni. Dopo di allora credo di aver fatto tanto, per i miei bambini e mio marito, e poi per i miei amici, le persone che ho intorno. Dopo qualche tempo ho cominciato a chiedermi: Quale influenza ho io? Ecco, credo che il passaggio fondamentale sia stato proprio in questa acquisizione di consapevolezza.
Generalmente il compito più difficile è proprio con le persone più vicine.
Lo so bene… Io sono cresciuta in posizione maggiore. Una famiglia dell’elite francese, benestante, con ottime possibilità di istruzione. Per mio padre era tassativo: “non sposare un fiammingo!”. Solo da ragazza mi sono resa conto della mia storia, che era molto fortunata ma anche molto dura, perché per buona parte della mia vita sono stata terrorizzata da mio padre, e cioè in posizione minore davanti a lui. Me ne sono accorta dopo la nascita del mio primo figlio, avevo già trent’anni, e da quel momento ho deciso di compiere un percorso insieme a lui. Sono andata a trovarlo da sola, spesso, per un paio d’anni. Per prima cosa gli ho chiesto di parlarmi di lui, di come era cresciuto, di che cosa gli altri si aspettavano da lui – e piano piano, con dolcezza perché non si ritraesse, sono riuscita a rivelargli quanto io fossi da sempre terrorizzata da lui. È stata una liberazione così grande… Ed è stato un dono, perché dopo pochi anni mio padre è morto.
Ora molte persone mi dicono che sono stata fortunata a poter vivere questo, ma io credo invece di essere stata brava e coraggiosa, perché ho voluto che questo percorso si compisse. Non ci sarebbe mai stato senza la mia determinazione. Io credo che, come me, anche molte altre persone potrebbero lavorare su se stesse in questi termini, per rimarginare le ferite attraverso la consapevolezza e la riconciliazione.
Nell’autunno scorso hai svolto dei laboratori sui conflitti in Cecenia. Puoi affidarci un ricordo di quell’esperienza?
Ho lavorato con russi e ceceni nello stesso laboratorio, è stata un’esperienza fortissima. Ricordo bene una donna russa il cui fratello era stato bruciato vivo nella sua macchina, rivedo la sua emozione. Riuscire per la prima volta a pensare che questa cosa tanto orribile era accaduta perché dall’altra parte c’erano non degli oppositori ma un popolo con delle rivendicazioni che potevano avere una loro verità.
L’ultimo giorno poi è stato emozionante. Ho chiesto a due russi e a due ceceni di mettersi uno di fronte all’altro e di cercare di parlarsi per soddisfare le esigenze reciproche. In certi momenti è stato durissimo.
E tu che cosa hai imparato da questa esperienza?
Mi sembra di essere diventata più umana. Ho imparato molto sui ceceni, la mia relazione con questo popolo è letteralmente cambiata. Ho imparato ancora una volta a lottare contro le mie paure e i miei stereotipi. E ho acquisito una convinzione ancora più forte che è importantissimo costruire una via per la nonviolenza, anche solo con un bambino di due anni. Non c’è niente di impossibile da risolvere, io ne sono convinta, soprattutto in educazione. Si possono svolgere seminari anche molto difficili, e questo darà potere e speranza alle generazioni future. È bello poter pensare di costruire relazioni armoniose per i propri figli.

Difesa senza attacco. La potenza della nonviolenza
L’ultimo libro di Pat Patfoort, in uscita per il Gruppo Abele

Sarà in Italia nel mese di maggio, Pat Patfoort, per presentare il suo ultimo libro edito anche in Italia alla fine di aprile dai tipi del Gruppo Abele. Si intitola Difesa senza attacco. La potenza della nonviolenza e raccoglie le ultime riflessioni ed esperienze in tema di trasformazione dei conflitti.
Il libro è suddiviso in tre sezioni che vogliono sottolineare come la nonviolenza sia azione e lotta intensa, ma con regole e modalità diverse dalla sopraffazione. Le sezioni sono: Rabbia senza aggressività; Difesa senza attacco; Riparazione senza vendetta, e puntano proprio a mostrare la nonviolenza come una possibilità realmente praticabile, diversa dalla sottomissione o dalla violenza, una via che libera dalla paura.
Il punto di riferimento è il modello di analisi, elaborato proprio da Pat Patfoort, che disegna il conflitto in termini di posizioni m-M, minore maggiore, o di equivalenza. L’autrice tende a precisare che in questo modo tutti i conflitti possono essere raffigurati, da quelli interpersonali, sociali o internazionali.
“Io torno sempre alla radice”, ha affermato Pat Patfoort. “La violenza nasce da una contrapposizione asimmetrica di forze e trasformare il conflitto significa riportare i due soggetti in una posizione di equivalenza. Questo è uno dei modelli possibili, altri autori hanno cercato per altre direzioni. Io credo che tutti i modelli si completino e siano validi percorsi di conoscenza. Come in tutte le scienze, una proposta di analisi è buona in quanto mi permette di conoscere alcuni aspetti della realtà, e nessuna deve essere intesa in senso assoluto”.

GIOVANI
A cura di Laura Corradini
Saper dire “no” e saper dire “sì” per essere obiettori e nonviolenti

Nei due numeri precedenti della rubrica “Giovani” abbiamo condiviso testimonianze e riflessioni su alcune forme di violenza. Abbiamo constatato che sia reagendo in modo violento alle provocazioni sia restando passivi di fronte alle ingiustizie i conflitti non si risolvono, ma anzi la situazione si aggrava sempre di più. Ora vogliamo capire se si può reagire alle ingiustizie in modo nonviolento e, se sì, con quali strumenti. Iniziamo questo percorso chiedendo a due attivisti del Movimento Nonviolento di raccontarci la loro storia.

Sabato 4 marzo quattro coraggiosi giovani della redazione si sono recati a Torino, presso il Centro Studi Sereno Regis, per intervistare Piercarlo Racca e Angela Dogliotti Marasso. Abbiamo chiesto loro cosa voleva dire essere obiettori di coscienza prima del 1972, anno in cui è stata approvata la legge sul servizio civile, e cosa vuol dire oggi essere “nonviolenti”.
Piercarlo, uno dei primi obiettori di coscienza, ha passato un mese rinchiuso nella caserma di Albenga ed ha subito un processo per questa sua scelta. Ci ha spiegato che il suo è stato soprattutto un gesto dimostrativo forte, in quanto alla seconda chiamata per l’arruolamento, ha poi accettato di prestare servizio militare, in seguito alle forti pressioni sia familiari sia sociali. Riguardo alla vita in prigione, queste sono state le sue parole: “La mia cella era una stanza nella quale avevo a disposizione solo un tavolaccio per dormire e una coperta. Due volte al giorno potevo uscire nel cortile per un’ora accompagnato da una guardia armata. Potevo anche recarmi allo spaccio della caserma, ma in quel caso dovevano uscirne i militari di leva”. L’esperienza del servizio militare lo ha convinto ancor di più della sua scelta nonviolenta e lo ha reso un attivista infaticabile.
In quegli anni coloro che si rifiutavano di impugnare le armi venivano incarcerati e subivano più processi, con un progressivo aggravarsi della condanna. Infatti, dopo aver scontato la prima pena, venivano richiamati alle armi e, se ancora si rifiutavano di servire l’esercito, venivano nuovamente condannati. Questa situazione teoricamente si sarebbe potuta ripetere sino al compimento dei 45anni, età in cui si è esonerati dal servizio militare per “anzianità”. Di fatto non sono noti casi così gravi, ma qualcuno è stato condannato anche sei volte. Dopo alcune condanne, si veniva esonerati per “problemi psichiatrici” o per “problemi di salute”.
Gli obiettori all’interno delle carceri erano testimoni di ingiustizie e violenze che prontamente denunciavano e quindi creavano problemi alle autorità anche in questo senso.
I sostenitori dell’obiezione di coscienza fuori dal carcere facevano sentire la loro solidarietà ai rinchiusi organizzando, nei pressi del penitenziario, frequenti manifestazioni, ovviamente pacifiche. La polizia cercava ugualmente di impedirle, qualche volta anche con i manganelli.
Angela si è avvicinata al movimento quando aveva 17 anni, ispirata dalle idee di Don Milani, che aveva difeso gli obiettori di coscienza quando i cappellani militari li avevano accusati di vigliaccheria.
Ha partecipato a molte manifestazioni. “A queste manifestazioni partecipavano poche persone, poiché, a quel tempo, protestare contro l’esercito era tabù.” In quegli anni il suo riferimento è stato il CEP (corpo europeo della pace) che si era posto tra i propri obiettivi quello di ottenere una legge sull’obiezione di coscienza. Essendo un’insegnante il suo impegno si è incentrato su tematiche relative all’educazione e alla formazione.
Le abbiamo chiesto cosa vuol dire essere nonviolenti oggi: “rifiuto della violenza a tutti i livelli, essere non solo contro la guerra, ma saper riconoscere le varie forme della violenza: l’uso delle risorse a livello planetario, il modo di relazionarsi con gli altri, mettere in discussione il nostro modello di vita e le nostre scelte di consumo. L’impostazione all’apertura e al dialogo sono il modo di vivere la nonviolenza”.
Nella stanza accanto a quella dove si è svolta l’intervista stavano costruendo un pannello solare e ci è stato spiegato come questa attività sia importante anche per un decentramento democratico delle risorse. E’ stato considerato inoltre come la nonviolenza si può attuare anche nelle scelte quotidiane, ad esempio facendo attenzione alla produzione dei rifiuti con la scelta di imballaggi minimi prima ancora di preoccuparsi del loro riciclo.

Rielaborazione di Stefano. All’intervista ha collaborato tutto il gruppo giovani di Novara (Lorenzo Lorenzo 11 anni; Simone Negro 11; Riccardo Sguazzini 11; Gaetano Smecca 11; Lorenzo Ballarè 12; Davide Marino12; Matteo Zanella 12; Mamadou Sall12; Stefano Moia 13; Sofia Mancini 12; Vanessa Gambini 12; Laura Di Pietro 12; Maria Stella Smecca 12; Raissa Zuliani 12; Carmela 12; Alice Zambelli12.

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese

Un’esperienza brasiliana: la scuola Bandeirante

Sono un’insegnante elementare da anni sostenitrice di un interscambio con amici e amiche brasiliani-e impegnati sui temi della pace e spiritualità.
In questa linea, lo corso anno, nel mese di novembre, ho partecipato all’esperienza dell’ “accampamento” della pace a Guaporè che è una città di 20 000 abitanti, nel rio Grande del sud (Brasile), fondata nel 1903 con l’arrivo dei primi immigrati italiani. A Guaporè la scuola pubblica Bandeirante ha iniziato un percorso di educazione per la pace coinvolgendo parte del personale insegnante, genitori e ragazzi e ragazze frequentanti.
L’ “accampamento” è stata un’occasione unica per me di vivere in prima persona momenti di grande ricchezza emotiva e fortissima umanità. Durante l’incontro si sono alternate dinamiche e giochi specifici per la conoscenza reciproca; riflessioni e scambi di esperienze di vita sulla nostra spiritualità a partire da alcune frasi del libro biblico del profeta Osea; un percorso naturalistico a stretto contatto con la natura come la “trilha”; la celebrazione del fuoco come ringraziamento; canti con la chitarra, danze e giochi per il divertimento di tutti e tutte.
Ho visitato personalmente la scuola Bandeirante e ho conosciuto le persone che credono e operano per questo progetto dall’anno 2001 con il coordinamento del professor Silvio Bedin.
Il Bandeirante è una scuola pubblica che si occupa di circa 1.600 alunni-e, in tutti i livelli della educazione di base e conta circa 90 fra educatori ed educatrici. Lo sviluppo del percorso per una educazione alla pace si è avvalso, fin dal suo inizio, dell’accompagnamento delle O.N.G “Educatori di pace”1 con sede in Porto Alegre e del SERPAZ (servizio della pace) di Sao Leopoldo coordinata da Ricardo Wangen.
Gli obiettivi che ci si propone di raggiungere con l’educazione alla pace e alla non-violenza sono:
– migliorare le relazioni interpersonali contribuendo allo spazio di convivenza etico-affettiva;
rendere trasversale la tematica della pace nel curricolo scolare e la trasformazione delle
lezioni dell’insegnamento religioso in spazi aperti di dialogo;
rendere effettivo il processo pedagogico di programmazione partecipativa del calendario scolastico, dei progetti educativi e le norma di convivenza;
sviluppare tutte le potenzialità per il protagonismo degli educatori, dei giovani in manifestazioni pubbliche come la camminata per la pace, la raccolta di firme per il bando delle mine terrestri, azioni per la difesa dell’ambiente e della biodiversità nella ricerca di un modello di civiltà autonomo, armonico, socialmente giusto ed ecologicamente sostenibile, senza il quale non sarà possibile conoscere una cultura di pace;
sviluppare una spiritualità intesa come cura della nostra interiorità che ci aiuti a superare le nostre fragilità di fronte alle difficili sfide educative del nostro tempo;
Questa azione pedagogica è indispensabile in un paese come il Brasile dove la violenza ha assunto proporzioni allarmanti.
Prima di arrivare ai 21 anni molti giovani hanno già perso amiche e amici vittime della violenza di armi2. Il quadro economico del paese evidenzia che il baratro tra ricchi e poveri si allarga, le imprese non assumono e i lavori disponibili sono pagati con un salario minimo insufficiente per rispondere alle necessità di base di una vita dignitosa. In questo contesto, in mancanza di opportunità, molti giovani vendono sesso, droga e armi, sviluppando un’economia sotterranea che si autoregola attraverso la violenza. Ma i giovani stessi sono anche alla ricerca di alternative, cercando modelli positivi da seguire per identificare la radici delle cause dei problemi e cambiare le condizioni che portano alla devastazione, all’isolamento, alla sfiducia totale.
Di fronte a tutto questo è evidente l’importanza della scuola Bandeirante per formare una coscienza profonda che riduca l’odio e costruisca un sentire comune tra le persone.
E’ attraverso il cammino della non-violenza che si intende assumere il conflitto come possibilità per stimolare un cambiamento positivo e affrontare l’ingiustizia sociale che giace alla radice di molti conflitti violenti. Solo l’educazione di una coscienza profonda, di una personalità critica porterà le persone a fare scelte responsabili e coraggiose.
Il senso della comunità, oggi in declino nel mondo intero, vuole essere invece sostenuto e rafforzato nel progetto di pace della scuola Bandeirante perché ritenuto indispensabile antidoto nei confronti della violenza e del preconcetto. La scuola Bandeirante è una comunità in cammino, come tanti altri gruppi che anche in Italia e nel mondo operano per raggiungere gli stessi obiettivi.

Nara Zanoli

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Autocostruire la propria casa: un sogno realizzabile?

Trovare una casa nella quale vivere, è da sempre un problema per le fasce deboli della popolazione: da anni questa preoccupazione si è estesa ai lavoratori precari ed agli immigrati, soprattutto quelli che hanno raggiunto una collocazione sociale e lavorativa, ma che non vengono ancora considerati soggetti economici dalle banche e quindi affidabili per sostenere le rate di un mutuo. Alcuni operatori nel campo del disagio si sono quindi interrogati su come rispondere a questa sfida, mettendo in moto energie ed idee in alcuni casi veramente originali.
Nel 1998 le Ong Cidis e Nuova Frontiera, da 15 anni impegnate nella cooperazione internazionale, decidono di mettere insieme le forze per cambiare l’oggetto della loro missione, ma non il loro spirito: per aiutare le fasce povere della popolazione a risolvere il problema di trovare casa, nasce la cooperativa Alisei (www.alisei.org), che con il progetto “un tetto per tutti” rivoluziona il modo di approcciarsi alla questione.
Alisei si occupa infatti di intermediazione abitativa, ma è soprattutto lo strumento operativo dell’autocostruzione, in quanto nella sua compagine riunisce architetti, consulenti esperti in materia di immigrazione, mediatori, amministratori, tutte persone che si sono occupate e si occupano di implementare, sostenere e accompagnare gli autocostruttori in tutte le fasi del progetto, fino al termine della edificazione delle case.
In sostanza, Alisei sensibilizza le amministrazioni locali interessate a progetti di edilizia popolare e promuove la costituzione di una cooperativa edilizia formata dai beneficiari stessi che ne diventeranno i costruttori; essi devono risultare iscritti alle liste per l’assegnazione di una casa popolare ed avere un reddito massimo di 20.000 euro annui. Una banca deve farsi carico di anticipare le spese iniziali (Banca Etica ha finanziato il progetto in provincia di Ravenna), in modo da far gravare sui soci le spese solo al termine della costruzione, come se fossero rate di un mutuo o canoni di un affitto.
Viene quindi chiesta ai soci una disponibilità lavorativa di circa 60 ore mensili, per un arco di tempo che può arrivare fino a due anni, durante le quali saranno affiancati dai professionisti di Alisei nel preparare la malta, rizzare i muri, fare l’impianto elettrico. In compenso, il costo di una villetta di 100 mq con tanto di giardino può arrivare a soli 85.000 euro, un prezzo impensabile in qualsiasi città d’Italia.
I futuri proprietari formano gruppi eterogenei per razza, cultura e religione. “Un massimo di 25 famiglie, il più possibile varie quanto a provenienza e tradizioni, garantisce che non si creino odiose ghettizzazioni”, afferma Ottavio Tozzo, presidente di Alisei. “Vedere persone che non si conoscono imparare a lavorare assieme, stringere amicizie, litigare, anche, ma sempre con l’intento comune di costruire la propria casa, è un’esperienza entusiasmante. E dà due garanzie: i futuri vicini si conoscono in anticipo, cementando una solidarietà che di rado troviamo nei condomini; e si rendono visibili agli abitanti del territorio, che osservandoli lavorare estate e inverno imparano a conoscere la nuova comunità, spesso aiutandola e infrangendo così possibili diffidenze”. Per molti immigrati, si tratta di ricreare in Italia le condizioni solite che si sarebbero trovati ad affrontare nei loro paesi di origine: spesso infatti nei paesi maghrebini o dell’est europeo, l’unico modo per ottenere una casa è costruirsela con le proprie mani: prima con materiali poveri, poi migliorandola nel tempo quando le condizioni economiche lo permettono.
Ottavio Tiozzo condivide l’impegno con la vicepresidente, Carla Barbarella, insegnante di Pedagogia multiculturale all’Università di Trieste e, dal 1979 al 1989, deputato del Parlamento Europeo, dove si è occupata di problemi agricoli, riforme comunitarie e relazioni e progetti d’investimento in Paesi in via di sviluppo. “Le donne si adoperano al pari degli uomini, grazie a scelte tecnologiche in cui l’impiego della forza è sempre meno vincolante. E sebbene le famiglie musulmane fossero inizialmente riluttanti a lasciare che le donne prendessero parte ai lavori, vedere le altre signore all’opera ha fatto crescere entusiasmo e partecipazione anche in loro”, riporta Ombretta Bertini di Famiglia Cristiana.
La sperimentazione nel nostro Paese, che importa l’esperienza avvenuta già in altri paesi europei, è partita dall’Umbria, per poi estendersi all’Emilia-Romagna e alla Lombardia, e successivamente anche al Piemonte, al Veneto e al Friuli-Venezia Giulia.

Ulteriori informazioni: www.autocostruzione.net

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo –

Il caffè femmina delle donne peruviane

Le mani di Rosa Cantalina Sanchez si muovono metodicamente lungo il ramo, mentre raccoglie le rosse bacche di caffè nel cesto che porta attorno al collo. Notando la destrezza e la forza che mette nel proprio lavoro, nessuno direbbe che Rosa ha 66 anni. Glades Valencia, 14enne, sta facendo la stessa cosa, e passa le mani fra i rami come se stesse pettinando dei capelli.
Rosa e Glades rappresentano il lavoro di una vita, la vita dei coltivatori di caffè nel Perù del nord. Molti agricoltori della regione hanno ottenuto la certificazione per il commercio equo, tuttavia i loro guadagni restano sempre al disotto della media annua pro capite. 68.600 famiglie povere producono circa il 49% del caffè peruviano (quasi totalmente esportato).
Nelle società rurali a dominio maschile l’alto livello di povertà si traduce in problemi specifici per le giovani donne, che sono più spesso dei giovani maschi mandate sui campi anziché a scuola, e che vengono date in spose già a 12 anni per alleviare il disagio economico familiare.
Rosa ha lavorato per anni dalle 10 alle 12 ore al giorno durante la stagione del raccolto, e per anni ha ricevuto come compenso ciò che il marito decideva di darle quando il caffè era venduto. Le cooperative che fanno riferimento al commercio equo sono state spesso un mondo di uomini sostenuto dal sudore delle donne, ma le cose stanno cambiando in Perù, per Rosa e Glades e per centinaia di donne come loro.
Nel 2003, oltre quattrocento coltivatrici decisero di lavorare insieme ad una speciale varietà di caffè. La chiamarono “Caffè Femmina”, perché attraverso di essa avrebbero sollevato consapevolezza internazionale sulla cruda disparità che affrontavano nelle loro vite quotidiane. Trovarono l’aiuto di Isabel Uriarte Latorre, una donna peruviana che da molto tempo assieme al marito sostiene le comunità agrarie aiutandole ad organizzarsi in cooperative e ad ottenere miglioramenti nelle infrastrutture comunitarie.
Ora, 60 importatori di caffè del Canada, dell’Australia e degli Usa pagano volentieri quei due centesimi in più alla libbra che andranno alla Fondazione Caffè Femmina, che produce miglioramenti economici nelle vite delle donne. Nel contratto che devono firmare, infatti, c’è la clausola che essi pagheranno questi due centesimi alla Fondazione oppure li devolveranno al Centro Antiviolenza più vicino alla loro residenza.
“Le donne in Perù sono viste tradizionalmente come lavoratrici e madri, non come proprietarie della terra o come coloro che prendono decisioni.”, racconta Isabel Latorre, “Si suppone che servano principalmente a fare bambini. Le donne delle comunità più povere raggiunte dal progetto “Caffè Femmina” hanno in media sette figli.” Per entrare nella cooperativa, una donna deve dimostrare che il suo nome è sui documenti di proprietà della terra che lavora, e poiché tramite la cooperativa i guadagni sono più alti, padri e mariti hanno trovato conveniente avere le donne al loro fianco come proprietarie. Oggi queste donne si incontrano regolarmente al tramonto, in cerchi di dialogo provvisti di una facilitatrice e gli uomini non glielo stanno impedendo. Isabel Latorre dice che la diminuzione della violenza nei rapporti fra i generi si nota a vista d’occhio: “Gli uomini hanno molto più rispetto per loro. E ora le donne stanno parlando di frequentare le scuole, di capire meglio l’andamento dei mercati, di organizzare seminari sui metodi di coltivazione organica e dei loro diritti umani.”
A Nuevo York, in Amazzonia, le donne della cooperativa si incontrano tutte una volta all’anno. Appendono ovunque palloncini colorati, e le orchestrine suonano musica da ballo. Attorno al cerchio di dialogo, quest’anno, c’erano alcuni uomini in piedi con le braccia conserte, che mostravano un certo cipiglio. Le donne sorridevano, come la bella e giovanissima Glades: “Vogliamo che gli uomini beneficino del nostro progetto e ne siano coinvolti. Ma dev’essere chiaro che per noi stesse le decisioni siamo noi a prenderle.”

Andate a trovarle, almeno virtualmente: http://www.cafefemeninofoundation.org

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
La musica contemporanea e la guerriglia non aggressiva

di Henry Pousseur

(Seconda parte) Fino alla Rivoluzione Francese la costruzione del linguaggio musicale si è sviluppata assieme alla costruzione del pensiero liberale, che credeva in un miglioramento armonico della società, la “lumière” come si dice in francese. Poi, a partire dalla rivoluzione che non ha avuto un buon esito, il romanticismo ha cominciato a tirare conseguenze drammatiche, pessimiste. Il principio dell’armonia nel diciannovesimo secolo ha cominciato a degradarsi parallelamente alla crescita di pessimismo, di sentimenti sempre più forti di sconforto, di tragedia, di malessere. I canti più riusciti di questo periodo sono canti disperati…
Nel ventesimo secolo si è arrivati alla situazione culminante di rottura e di crisi. La musica del ventesimo secolo è critica rispetto a quella precedente e nega in gran parte qualsiasi legame con la proposta della musica classica antica. Questa musica moderna, soprattutto a partire dal 1950, diventa sempre più violenta rispetto alle nostre abitudini uditive, al nostro gusto musicale, al nostro conforto affettivo. Diventa violenta, aggressiva e dunque, si potrebbe dire che è una musica di guerra, di guerriglia culturale. Ma se pensate che la musica classica, con tutte le sue armonie, tutte le sue dolcezze, poteva anche essere un’arma di guerra, di dolce guerra, di dolce sfruttamento, di dolce dominazione e oppressione, allora questa guerriglia può essere lotta contro la guerra e può portare verso una certa liberazione. Va quindi compresa non solo in termini negativi, come negazione delle negazioni presenti nella grammatica classica. Per esempio nella dimensione acustica, la musica moderna rifiuta la selezione dell’acustica musicale classica e reintroduce tutte le sonorità che erano state eliminate e che sono invece utilizzate in altre civiltà; così tra la musica moderna, la musica giapponese e la musica di certe regioni africane c’è un certo riavvicinamento, forse superficiale, ma che ha elementi comuni. Nella musica moderna c’è un gusto per le sonorità grezze e complesse che la musica classica negava. Non è solo una negazione, è una nuova affermazione, una riscoperta di aspetti che erano stati esclusi ed è anche la costruzione di un nuovo modello che forse può essere un modello di pace.

nuovi modelli di pace in musica ?

Per offrire alcuni esempi, comincio con Anton Webern che per me e per i musicisti della mia generazione come Pierre Boulez, Stokhausen, Berio, resta un modello, una specie di faro, di chiave creativa per tutta la musica contemporanea. Webern è il grande discepolo di A.Shoemberg, membro della “triade” della scuola viennese contemporanea, il più radicale dei tre, quello che si è allontanato di più dalle regole della musica classico-romantica. Schoemberg e Berg mantengono molti elementi post romantici. Mentre la musica occidentale era organizzata attorno alla prassi della prospettiva pittorica italiana, Webern ha trovato un nuovo nucleo di organizzazione, assolutamente discordante e in un certo modo contrario, che contiene una possibile guarigione di quello che c’era di patologico nel principio precedente. Non dico del principio dell’importanza dell’individuo, perché l’individuo è importantissimo, ma del bisogno di aver a che fare con la collettività, col cosmo, con la solidarietà. Ed è questo il problema che si pone per esempio in economia col liberalismo.
La crisi aperta e sviluppata da quel gruppo di musicisti e in particolare da Shoemberg riguarda proprio la distruzione della grammatica classica. Webern ne trae le conseguenze e gli elementi responsabili della dissoluzione del principio tonale e ne fa il germe, il seme fondamentale della sua nuova costruzione. ottenendo una musica in cui non c’è più l’impressione di essere al centro, ma un universo di suoni, un microcosmo nel quale tutti gli elementi, anche molto differenti, anche molto personalizzati sono perfettamente equilibrati fra loro e formano delle costellazioni dove nessuno di questi attira su di sé un’attenzione maggiore. Non è possibile essere al centro, ma si sperimenta e si apprezza una condizione di relatività rispetto a tutto il resto, alle persone, allo spazio, com’è un punto in mezzo a molti altri punti. La musica di Webern è estremamente eloquente in questo senso, a me dà l’impressione di vedere un cielo stellato.

La prima parte di questo lavoro è pubblicato sul numero precedente (AN n. 3/2006)

(2 – continua)

DISARMO
A cura di Massimiliano Pilati
Una Conferenza dell’ONU sui traffici illeciti di armi leggere

La Campagna “Control Arms ” promossa da Amnesty International, Oxfam e Iansa (International action network on small arms) ed in Italia portata avanti dalla Rete Italiana Disarmo, ha lanciato lo scorso 16 Marzo un appello internazionale per gli ultimi cento giorni di pressione in vista della Conferenza dell’ONU sui traffici illeciti di armi leggere (Rev Con) che si terrà dal 26 giugno al 7 luglio 2006 a New York.
In questi cento giorni assai decisivi per l’esito della Conferenza stessa è necessario aumentare le attività di pressione ed intensificare l’attenzione da parte dei media e più in generale dell’opinione pubblica verso tale evento che dovrà discutere se adottare un trattato internazionale che limiti il commercio di armi, ormai divenuto incontrollabile e responsabile di centinaia di migliaia di morti ogni anno. L’ultimo caso che dimostra questa assenza di controlli internazionali è accaduto qualche settimana fa in Italia proprio con le pistole Beretta ritrovate dal contingente Usa nei depositi della guerriglia irachena dopo esser state riciclate e rivendute dalla famosa ditta di Gardone Valtrompia alla “Super Vision International ltd”, una sigla inglese sconosciuta che attraverso una triangolazione ben orchestrata è riuscita a farle arrivare in Iraq.
Tutte le iniziative attivate durante questi cento giorni avranno alcuni obiettivi in comune in tutto il mondo ma uno su tutti è fermare il problema globale della violenza legata all’uso delle armi. Per far questo è stata pensata una azione di pressione globale che parta dal livello locale ed arrivi a dare la spinta finale rafforzando quindi la mobilitazione internazionale che avrà il suo momento finale nella consegna a New York, della Petizione dei “Milioni di Volti” a simboleggiare il milione di persone uccise dalle armi dall’ultima conferenza sullo stesso tema, svoltasi nel 2001.
La foto-petizione è lo strumento di mobilitazione principale utilizzato dalla campagna per esprimere e rappresentare anche visivamente il forte dissenso sulle attuali politiche di regolamentazione del commercio delle armi.
Dall’inizio della campagna (ottobre 2003) oltre 800.000 persone in 160 paesi hanno già aggiunto la propria foto alla “Million Faces Petition . In Italia questa particolare forma di mobilitazione sta avendo un successo senza precedenti: sono già circa 30.000 le persone che hanno aderito alla campagna facendosi fotografare e “mettendo il proprio volto contro le armi” (galleria su www.controlarms.it). Inoltre abbiamo raccolto anche il sostegno di alcune facce importanti sia nel mondo dello spettacolo e della cultura tra cui Beppe Grillo, Jovanotti, Trio Medusa, Fiorello, Oliviero Toscani, Luis Sepulveda, Sergio Staino e tantissimi altri “volti noti” . Tutto questo è stato possibile anche grazie al lavoro di oltre 300 gruppi locali (coordinamenti e associazioni) che in tutta Italia si stanno mobilitando dal basso per supportare questa campagna. E’ essenziale continuare la raccolta dei rimanenti 200.000 volti, per arrivare a raggiungere e magari superare l’obbiettivo, in tempo per la conferenza di Giugno, data della consegna internazionale.
Altro lavoro portato avanti della campagna è la pressione sulle istituzioni da quelle nazionali a quelle locali per spingerle a prendere una posizione favorevole per l’adozione del Trattato. Più di quaranta governi sostengono ufficialmente i contenuti della campagna mentre il governo Italiano troppo pre/occupato dal “bussines delle armi” ancora non si è pronunciato in tal senso. L’unica nota positiva è stata una mozione parlamentare (ottobre del 2005) sottoscritta 110 tra deputati e senatori per sostenere il Trattato Internazionale e le diverse adesioni di enti locali, quasi una quarantina, che attraverso la votazione di mozioni hanno confermato il loro impegno nella campagna.
Ultima tappa prima di partire per New York sarà la consegna delle foto raccolte a livello nazionale ai funzionari di governo e ai parlamentari, ministri e delegazioni che parteciperanno alla Rev Con nella settimana Settimana Mondiale d’Azione contro le Armi leggere, il 22-29 Maggio 2006. Questo momento rappresenterà una grande opportunità per fare un ultima pressione sul nostro futuro governo che per quella data potrebbe anche esser composto da altri schieramenti politici (elezioni ad aprile ). Quello che ci auguriamo è che in questi “cento Giorni” ogni gruppo possa organizzare almeno un evento in maniera tale che si possa preparare un “Conto alla Rovescia” che segnali dal basso un’enorme dissenso per questo mercato di morte.

Riccardo Troisi  ­ www.disarmo.org

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Quattro bambine africane piene di speranza e coraggio

MOOLADE’

Regia e sceneggiatura: Ousmane Sembene
Origine: Senegal
Anno: 2004 (Uscita in Italia: marzo 2006)
Produzione: Ousmane Sembene per Filmi Doomirew
Fotografia: Dominique Gentil
Durata: 117’
Versione originale sottotitolata.

Vincitore nella sezione “Un certain regard” a Cannes 2004, solo ora nel marzo 2006, il film “Mooladè” dell’ottantatreenne regista africano Ousmane Sembene arriva sugli schermi italiani.
E’ un film che arriva da lontano. E’ un “film lontano”. Lontano perché parla dell’Africa. Parla con le lingue dell’Africa. Parla con le immagini dell’Africa e con i suoi suoni, la sua musica. Parla con lentezza africana. Con i colori africani. Di problemi africani. Di eroi africani del quotidiano.
Parla di salindè, bilakoro e mooladè. Parla di paura della diversità. Parla di modernità e tradizione. Di sottomissione della donna all’uomo. Di conflitti e di coraggio. Di oppressione e di ribellione. Di ignoranza e di informazione. Di violenza e di resistenza nonviolenta. Di “chi porta la vita” e “chi porta la morte”.
Parla di quattro bambine che, in un piccolo e grazioso villaggio del Burkina Faso che sembra uscito da una favola antica, scappano dal bosco sacro e si rifugiano da Collè Ardo implorando la sua protezione. I tamburi iniziano a suonare. Cercano qualcuno. Cercano le bambine. Sei bambine sono scappate per sottrarsi alla salindè, ovvero alla purificazione attraverso l’escissione: una mutilazione genitale estremamente dolorosa e menomante per le donne, quando non mortale, ritenuta necessaria per elevare le giovani al rango onorabile di spose, e ancora praticata nella maggioranza dei paesi africani. Delle sei bambine terrorizzate, scappate dalle sacerdotesse di questo terribile e antico rito, due si sono uccise gettandosi in un pozzo, quattro invece si sono rifugiate dall’unica donna del villaggio che, anni prima, si è rifiutata di sottoporre la figlia Amsatou alla stessa crudele pratica, condannadola a diventare una bilakoro, un’impura, indegna di essere sposata. Collè Ardo infatti, seconda delle tre mogli di uno dei notabili del villaggio, dopo aver perso due figli alla nascita non ha voluto correre il rischio di perdere anche l’ultima, cosa peraltro frequente a causa del rito, e ha voluto risparmiarle le sofferenze psicologiche e fisiche che lei stessa ha dovuto subire da piccina. Le bambine fanno appello al mooladè, una sorta di diritto d’asilo, di protezione accordata a qualcuno in fuga; è una convenzione trasmessa dalla tradizione orale ma ha valore giuridico e, soprattutto, è riconosciuta da tutti da tempo immemorabile. Le sue regole, leggi e decreti, sono impressi nelle coscienze di uomini, donne e bambini, consapevoli delle tremende e funeste conseguenze di una possibile violazione dell’antica magica norma.
Ma Collè Ardo, con la sua scelta coraggiosa, porta scompiglio all’interno della vita del villaggio, caratterizzato dalla totale sottomissione delle donne agli uomini, e fortemente gerarchizzato anche all’interno dello stesso mondo femminile. Il villaggio si divide tra due antiche tradizioni. Ma anche tra tradizione e modernità. Si divide tra religione e laicità. Ma anche tra religiosità e fanatismo.
Collè Ardo pagherà cara la sua resistenza, ma la sua lotta, che difende senza “offendere”, porterà frutto, scuoterà le menti e le coscienze di uomini e donne; un frutto che andrà ben al di là del solo problema dell’infibulazione coinvolgendo tutta la sfera dei rapporti donna-uomo, “servo-padrone”.
“La speranza fa nascere il coraggio” dice una delle donne coinvolte nella rivolta di Collè Ardo. La stessa speranza che il vecchio regista coltiva per la sua Africa: un’Africa che sappia accogliere le sfide del presente e della modernità, partendo però dalla ricchezza della sua stessa tradizione e dalla sua capacità di laicità e di autodeterminazione, senza dover fare necessariamente ricorso a culture e società esterne: “l’Africa non può più restare ripiegata su se stessa. Deve aprirsi al futuro. Dobbiamo modificare i nostri comportamenti, ma dobbiamo decidere da soli e per noi stessi”*.

* Dichiarazioni di Ousmane Sembene, raccolte da Jean-Pierre Garcia, Le Film Africain, maggio 2004.

LIBRI
A cura di Sergio Albesano
Abolire le guerre per sopravvivere allo sviluppo

MARCO DERIU, Dizionario critico delle nuove guerre, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2005, pagg. 512, euro 20,00.

Il monumentale Dizionario, scritto in collaborazione con Aluisi Tosolini e Daniele Barbieri, è una vera e propria miniera di informazioni scottanti sui conflitti in preparazione e in corso sul pianeta.
I dati che si scoprono leggendolo sono variegati e impressionanti. Gli Stati Uniti coprono quasi la metà della spesa mondiale in armamenti, l’Italia occupa il settimo posto in questa terribile classifica, con 362 dollari per abitante, la spesa militare globale (che si era ridotta fra il 1987 e il 1998) ha subito un’impennata dopo l’11 settembre, gli esperimenti nucleari in Nevada hanno provocato quindicimila morti per cancro (mentre in generale la corsa all’armamento atomico ha causato nel mondo circa mezzo milione di vittime), lo sfruttamento sessuale dei bambini rifugiati è una pratica abbastanza diffusa fra i Caschi blu, la maggior parte degli attentati contro obiettivi Usa non ha matrice mediorientale ma avviene in America Latina, la rete di sorveglianza Echelon può controllare l’intero flusso globale delle comunicazioni mobili oltre a intercettare le informazioni via satellite e attraverso i cavi sottomarini. E molto altro ancora. Quanto basta per ribadire la convinzione che la guerra, ogni guerra, è un crimine contro l’umanità.
Lungi dall’essere semplicemente un testo informativo, il volume tenta piuttosto di interpretare le vicende e i processi della contemporanea società globale nella loro interconnessione con la guerra, restituendone la complessità e l’articolazione sulla base di un preciso inquadramento teorico, di determinati principi normativi e di una chiara istanza critica. Per dirla con il suo autore, si tratta di “un ipertesto, in cui ogni voce rimanda ad altre in un intreccio di significati che può essere costruito da diversi punti di vista a seconda anche dell’interesse del lettore”, come un lavoro “eminentemente ‘sovversivo’, perché intende minare nelle fondamenta la visione dominante, standard, delle relazioni internazionali”.
Il libro si rivela uno strumento assolutamente necessario per comprendere il fenomeno guerra nel nostro tempo, inteso come un “fatto sociale totale” (secondo la definizione di Marcel Mauss), nelle sue connessioni più profonde e meno visibili con la normalità della produzione culturale, sociale, economica e politica della società. In queste pagine Deriu elenca e descrive tutti gli aspetti della violenza nella nostra società: da “aggressione” a “vittime”, passando per “armi”, “fame”, “identità”, “paradisi fiscali”, “scontro di civiltà” e concludendo con una riflessione sul pacifismo critico.
Ogni termine viene approfondito dal punto di vista storico e linguistico, con un’ampia bibliografia e consistenti riferimenti critici. Particolarmente interessanti sono alcune voci apparentemente lontane dal lessico bellico. E’ il caso di “aiuti umanitari”, che segnala come essi siano di fatto gestiti dagli attori della guerra, fino a divenire l’interfaccia della guerra (“la filosofia umanitaria ha prodotto una confusione e un cortocircuito logico tra tutela dei diritti umani, diritto di assistenza e soccorso, diritto di ingerenza umanitaria, dovere di intervento, guerra giusta. Nei fatti, dagli aiuti si è arrivati a giustificare la guerra umanitaria”, scrive Deriu). Oppure, ancora, la voce “diritti umani”, incentrata sulla critica a ogni sorta di fondamentalismo, alla luce del riconoscimento di come “nelle diverse tradizioni culturali ci siano differenti approcci nei confronti dei valori fondamentali”.

Flavio Marcolini

SERGE LATOUCHE, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, € 9,50.
Provocatorio manifesto del movimento antisviluppo, per una società in cui i valori economici non siano più centrali. Lo sviluppo ha di recente rivestito nuovi abiti che soddisfano i criteri di organizzazioni internazionali quali la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Ma la logica economica è rimasta la stessa e il modello di sviluppo è sempre conforme all’ortodossia neoliberale. Lo sviluppo si fonda sulla convinzione che sia possibile ottenere la prosperità materiale per tutti, cosa che sappiamo essere dannosa e insostenibile per il pianeta. Secondo Latouche, bisogna mettere in discussione i concetti di crescita, povertà, bisogni fondamentali, tenore di vita e decostruire il nostro immaginario economico, che è ciò che affligge l’occidentalizzazione e la mondializzazione. Non si tratta ovviamente di proporre un impossibile ritorno al passato, ma di pensare a forme di un’alternativa allo sviluppo: in particolare la decrescita condivisa e il localismo.
Serge Latouche è professore emerito di Scienze economiche all’Universita di Paris-Sud.

Di Fabio