• 19 Aprile 2024 0:38

Azione nonviolenta – Giugno 1999

DiFabio

Feb 6, 1999

Azione nonviolenta giugno 1999

– Tra Europa e Asia, di Alberto Negri
– Un popolo sacrificato dai potenti, di Tonino Perna
– Una guerra (inevitabile ?) che dura da cent’anni, di Pierfelice Bellabarba
– La nonviolenza per riconciliare, di Francesco Grasselli
– Notizia “bomba” contro la nato
– Obiettori e disertori di tutti i paesi
– Sua maestà il tempo, di Christoph Baker
– S.Francesco, civilta’ italiana, di Claudio Cardelli
– Le periferie della memoria profili di testimoni di pace, di Sergio Albesano
– Ding Zilin e Jang Peikun. La memoria di Tienanmen
– Anno 2000 marchiato Nestle’, di Paolo Macina
– An in ritardo? Disservizio postale
– Ci hanno scritto

ACCORDO NATO-SERBIA
Due guerre Quale pace?

di Mao Valpiana

L’accordo di pace è stato firmato. Tutto bene, quindi? Ha vinto la fermezza americana? Il dittatore di Belgrado è stato piegato? Avevamo torto a chiedere lo stop dei raid aerei?

A bocce ferme, meglio fare qualche riflessione..

Anche i più ingenui filo-Nato, gli irriducibili anti-Milosevic, i sinceri assertori dei diritti kossovari, devono ammettere che nell’intervento degli Alleati contro la Federazione Jugoslava qualcosa non ha funzionato. I mezzi utilizzati (bombardamenti su obiettivi militari, poi via via estesi alle città) non erano correlati al fine dichiarato (l’Argomento: “bloccare la pulizia etnica attuata dai serbi contro gli albanesi”): tant’è che i profughi in fuga all’inizio del conflitto erano circa 200.000, alla fine superano il milione. Non parlerò degli “effetti collaterali” (strage di civili, bombe all’uranio, bombe nell’Adriatico e nel Garda, bombe sui profughi, le ambasciate, gli ospedali) che pur sono gravissimi e criminali, ma che tuttavia rispetto all’Argomento si potrebbero anche ritenere secondari. Ammesso e non concesso….

La strategia militare scelta non ha fatto cadere Milosevic, né ha impedito il progressivo spopolamento del Kossovo. Qualcuno tra i responsabili politici dei paesi dell’Alleanza ha ammesso che c’era la convinzione di concludere l’attacco in pochi giorni. Così non è stato, e c’è da dubitare che gli strateghi militari Usa (il meglio in questo campo che ci dovrebbe essere sul pianeta) non sapessero cosa stavano facendo. Noi profani di cose belliche (ma un po’ di storia l’abbiamo studiata) immaginiamo che per fermare militarmente sul campo la milizia serba che compie stragi, stupri, brucia case e riempie fosse comuni, la strategia più efficace sarebbe stata quella di un intervento di terra, con artiglieria e copertura aerea, attuato da truppe specializzate per bloccare i serbi in azione e presidiare le zone dove ancora non erano giunti. I capi militari rispondono che il prezzo da pagare sarebbe stato troppo alto e che prima, comunque, bisognava indebolire l’intero sistema serbo. E qualcuno ha ammesso che l’obiettivo finale non era più solo la difesa dei civili del Kossovo, ma la capitolazione della Jugoslavia. In effetti sembra di capire che l’effetto finale sia stato proprio quello di mettere in ginocchio l’intera società serba, fino in fondo, creando le condizioni per occupare militarmente la zona. I profughi Kosovari erano sempre più delle comparse in questa guerra e ora sembrano destinati a passare l‘inverno nelle tendopoli: quello che interessa è la supremazia Nato in un’area geografica strategica. Questo dicono i fatti.

A noi cosa resta da fare? Innanzitutto, come ci ha insegnato Gandhi, ricercare e dire la verità. E sono tre le verità che balzano subito agli occhi.

Abbiamo assistito a due diverse e distinte guerre: quella dei serbi contro i kossovari, e quella della Nato contro la Serbia.

La pulizia etnica in Kosovo esisteva e bisognava intervenire per fermarla con mezzi adeguati al fine (non farlo sarebbe stata un’imperdonabile omissione di soccorso).

L’intervento della Nato aveva altri obiettivi e non è servito a salvare il Kosovo.

In ogni caso sia benvenuto il “cessate il fuoco”. La “pace” però è un’altra cosa; un compito enorme per costruire l’Europa del 2000 (mentre i governi pensano già alla ricostruzione con il cemento…).

Prima di tutto, però, soccorriamo i profughi!

TRA EUROPA E ASIA
Dietro la guerra, i “corridoi”

Di Alberto Negri

A che cosa servono i Balcani e qual è il significato strategico di questa guerra, l’ultima del secolo, o forse la prima del ventunesimo? “Siamo qui anche per difendere le vie di comunicazione Est-Ovest e dell’energia”, si è lasciato sfuggire qualche settimana fa il generale britannico Mike Jackson, che comanda le forze di terra Nato in Macedonia. L’importanza strategica della Jugoslavia è nella posizione che occupa come più importante via di comunicazione terrestre tra l’Europa, il Medio Oriente e le rotte del petrolio in Asia e nel Caucaso.

Mentre esplodono le polemiche sull’intervento Nato, questa guerra in apparenza evitabile non sfugge alla logica di un confronto più ampio tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del mondo iniziato con il crollo del Muro.

In realtà, per motivi contingenti ma collegati tra loro, si sta combattendo da dieci anni un lungo conflitto tra potenze e blocchi di potenze.

I livelli dello scontro sono sempre gli stessi – politici, economici e militari – ma è il teatro che è cambiato.

Con la fine della guerra fredda e la disgregazione dell’Urss – in cui si riflette come in uno specchio quella della Jugoslavia – si è liberato uno spazio immenso con le sue risorse economiche ed energetiche: l’”Eurasia”, l’area compresa tra l’Oceano Artico, il Mar Caspio, il Caucaso e il Lago d’Aral.

Questo continente riemerso dalla glaciazione delle guerra fredda, agganciato alla Russia, confinante con il Medio Oriente e l’Asia sud-occidentale, percorso un tempo dalla Via della Seta, è il nuovo scenario di conflitto ma anche di cooperazione tra gli Stati. Sull’asse tra Occidente e Oriente si combatte da dieci anni una battaglia a colpi di pipeline, gasdotti, autostrade e ferrovie. “I Balcani non valgono la vita di un solo granatiere di Pomerania”, fu la storica frase di Bismarck alla vigilia della Conferenza di Berlino del 1878 ma in realtà, come già avvenne alla fine dell’800 nel gioco delle potenze coloniali dell’epoca, anche oggi si sono riaperte le mappe per disegnare i corridoi Est-Ovest e Nord-Sud dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni e, naturalmente, della politica.

Nasce così in Europa l’idea di dare ai nuovi stati dell’ex “Impero rosso” un’alternativa al monopolio di Mosca sui grandi assi commerciali con il Transport Corridor Europe-Caucasus-Asia, in sigla Traceca, appoggiato con forza anche da Washington. L’asse euro-asiatico, dal punto di vista americano, ha il doppio vantaggio di tagliare fuori Mosca e Teheran e consolidare il ruolo di stato-cerniera tra Est e Ovest del principale alleato Usa nella regione, la Turchia.

L’accordo militare tra Ankara e Israele completa l’arco delle alleanze in Medio Oriente cogliendo altri due obiettivi: rafforzare il controllo strategico sugli Stretti, nel Mediterraneo orientale e quello su Kurdistan e Anatolia, le chiavi di accesso al bacino del Tigri e dell’Eufrate e alle risorse idriche di buona parte del mondo arabo (Irak e Siria).

“La prossima guerra in Medio Oriente scoppierà per l’acqua”, è il mantra che ripetono da anni le diplomazie mediorientali e gli studiosi di geopolitica.

Intanto il caso Ocalan ha messo al passo in pochi mesi Damasco, Mosca, Atene, logorando i rapporti tra Europa e Turchia. In fondo lo “zio Apo” è stata una vittima eccellente della nuova geopolitica euro-asiatica.

E interessante notare come il caso Ocalan, iniziato con Siria e Turchia sull’orlo di una guerra, e continuato tra potenti frizioni internazionali, sia stato “risolto” con un manovra di diplomazia segreta.

Dove è finita invece la questione curda? L’Europa da tempo si sta giocando a Oriente e nella polveriera balcanica la partita per aprire sotto il suo controllo le rotte dell’Eurasia.

E guidata da una serie di programmi comuni delineati a Bruxelles – sono previsti investimenti da qui al 2015 per 90 miliardi di Ecu e interventi su 18mila chilometri di strade, 20mila di ferrovia e 13 porti marittimi – ma in realtà nelle retrovie dei campi di battaglia, in Jugoslavia, Kosovo, Albania e Macedonia, ogni stato dell’Unione spinge per la soluzione geopolitica ed economica più conveniente.

Esemplare è il caso del Decimo Corridoio, la via che da Germania e Austria, passando per Zagabria-Belgrado-Skopje, ha un terminale nel porto ellenico di Salonicco e un altro nella valle che dalla Morava conduce al porto bulgaro di Vardar sul Mar Nero.

Lo sviluppo di questa direttrice Nord-Sud è appoggiata da Grecia, Serbia e Russia, con la Germania pronta a infilarsi nel Corridoio del Danubio dove la sua diplomazia lavora tenacemente da un secolo, dai tempi del Congresso di Berlino alla caduta del Muro.

Da sempre posta in palio nel grande gioco geo-politico dei Balcani questo asse, in cui si è visto una sorta di collegamento tra i Paesi ortodossi (Russia, Serbia, Grecia), non ha ancora un’alternativa definita. La guerra nei Balcani, interrompendo le comunicazioni tra Nord e Sud, prima per l’embargo e poi per gli eventi bellici, ha sottolineato ancora una volta quanto sia indispensabile il Decimo Corridoio. Non è forse Salonicco la base di partenza per il build up logistico della Nato in Macedonia? Lo stato di necessità creato da dieci anni di instabilità e guerre balcaniche ha costretto a sviluppare nuove vie, soprattutto attraverso l’Adriatico.

Una di queste è l’Ottavo Corridoio che ha l’ambizioso progetto di collegare i porti della Puglia con quelli dell’Albania per poi arrivare in Turchia e in Asia attraversando la Macedonia e la Bulgaria. Un’altra strada e’ costituita dal Quinto Corridoio, con il collegamento tra Ancona e il porto bosniaco di Ploce: da qui si può andare a nord-est ricongiungendosi con l’Ungheria o scendere verso la dorsale balcanica dell’Adriatico.

Sia l’Ottavo che il Quinto sono vie più costose rispetto al Decimo, ma con l’integrazione nel sistema dei trasporti possono diventare molto competitive.E evidente che lo sviluppo dei corridoi adriatici porta un beneficio immediato all’economia dell’Italia, inoltre queste vie rappresentano un’alternativa strategica che sfugge al controllo diretto di alcuni Stati balcanici, della Russia e anche della Germania. Non è un caso che l’Ottavo Corridoio abbia i suoi sponsor a Roma ma anche in Usa e in Francia.Questa oggi è la complicata realpolitik di quella che è stata definita la guerra “etica” del Kosovo, la prima del ventunesimo secolo, certamente non l’ultima nel gioco del potenze tra Est e Ovest.

IL DESTINO DEI PROFUGHI DOPO LA GUERRA

Un popolo sacrificato dai potenti

di Tonino Perna

Se veramente qualcuno era convinto che la sola soluzione del problema del Kosovo fosse l’intervento armato, che gli albanesi fossero oggetto di una pulizia etnica (che è stata da tanti paragonata al genocidio degli ebrei), allora il solo intervento sensato era quello di terra, di truppe paracadutate dentro il territorio del Kosovo per salvare la popolazione inerme e dar man forte all’Uck.

Questa poteva essere una strategia d’intervento con una sua logica e coerenza. Ma siccome questa guerra risponde ad altri obiettivi ed è gestita come un’azienda, dove si minimizzano i costi e si massimizzano i profitti, il passaggio all’intervento via terra arriverà quando ormai il Kosovo sarà una landa desolata, radioattiva, invivibile. Quel giorno le truppe della Nato potranno gridare al mondo: abbiamo vinto! I Kosovari, sopravvissuti, brinderanno. Poi il giorno dopo si renderanno conto che quello che gli verrà consegnato è un pezzo di luna colorata col sangue.

Tutti contro i kosovari

I profughi kosovari sono ormai diventati uno spot di questa guerra, un intermezzo pubblicitario che accompagna, spezzandole come avviene nei film televisivi, le immagini dei bombardamenti nella ex-Jugoslavia, le notizie sugli effetti collaterali, i ricorrenti errori, le migliaia di vittime civili di questa guerra che era stata definita chirurgica.

Da questa estate i profughi, che ormai avranno raggiunto il milione e mezzo, diventeranno un ingombro fastidioso, in autunno delle eccedenze di magazzino scadute che il prossimo inverno penserà bene di eliminare.

Non credo che sia mai esistito nella storia un popolo che sia stato così sadicamente e lucidamente imbrogliato, manipolato, annientato. Questa guerra, è bene ripeterlo, si è fatta per salvare questo popolo dalla pulizia etnica di Milosevic. Il risultato è, come tutti sanno, esattamente l’opposto: prima del conflitto c’erano qualcosa come 40.000 profughi kosovari ed un dato imprecisato che oscilla intorno alle 200.000 persone che avevano lasciato le loro case o per le minacce dei serbi o, più spesso, in quanto zona di combattimento tra l’Uck e le truppe di Belgrado; oggi si è superato abbondantemente il milione e l’esodo continua.

Ma non basta. Una volta trasformato un popolo intero in una massa di profughi senza documenti (grazie alla polizia serba) e senza meta (grazie alla Nato) si pretende persino di interpretare i loro bisogni e volontà. I profughi vogliono restare al confine, più vicino possibile al Kosovo – hanno strombazzato i mass media da quando è iniziata la guerra. Stranamente poi scopriamo che circa 5.000 profughi kosovari, in questi ultimi due mesi, hanno pagato migliaia di DM per attraversare l’Adriatico rischiando la vita. Naturalmente la colpa è tutta degli scafisti che vanno duramente repressi perché sono dei mostri che sfruttano i desideri dei profughi. Così, pochi giorni fa al largo di Valona, una nostra motolancia della guardia di finanza impaurendo un giovane scafista di solo 14 anni (sic!) ha fatto sbattere il gommone contro le rocce con relativi morti e feriti gravi.

Omicidio preterintenzionale come quello della nave Rades i Kader che fu affondata dalla nostra marina il Venerdì santo del ’97.

I profughi muoiono per malattie e stenti nei campi-lager della Macedonia ed Albania (in Montenegro la situazione è grave ma non così disastrosa). E la colpa è di Milosevic. I profughi (albanesi e serbi) scappano anche per la via dalle bombe della Nato che cadono copiose in Kosovo e la colpa è sempre di Milosevic che li caccia. I profughi tentano di scappare dall’inferno dei campi di fango e melma ed per colpa della criminalità che li sfrutta.

La verità è che, finito il loro uso pubblicitario, i profughi sono diventati una patata bollente che nessun paese Nato vuole prendersi. La Germania, si dice, ha già dato: durante la guerra in Bosnia ha accolto qualcosa come 500.000 profughi. La Gran Bretagna, anche se i numeri dell’accoglienza dei profughi bosniaci furono nettamente inferiori, è sulla stessa posizione. E gli altri paesi europei? E l’Italia?

Accoglienza?

Dopo aver predicato che bisognava assolutamente tenere i profughi vicini al confine con il Kosovo, per non fare il gioco di Milosevic, il governo italiano ha finalmente deciso, dopo un mese e mezzo, di accoglierne 10.000. Un numero ridicolo rispetto alle necessità ed alle possibilità del nostro paese. Malgrado la disponibilità di centinaia di enti locali disponibili all’accoglienza, il nostro governo rimane sordo rispetto alle terribili condizioni di vita imposte ai profughi in campi sempre più ingestibili di 40, 60 fino a 100.000 persone concentrate in spazi angusti ed esposti alle intemperie quanto al caldo torrido. I tassi di mortalità sono altissimi, le malattie e le epidemie si diffondono ed ancora non è arrivata l’estate. Dovremo ancora una volta parlare di “effetti collaterali” o finalmente verranno fuori i nomi dei responsabili di questi crimini? Vogliamo lasciare che la Macedonia salti per aria ed accusare i serbi-macedoni di razzismo, oppure capire che la soglia è stata superata, che il numero di profughi presente in Macedonia deve essere drasticamente ridotto?

Il governo D’Alema è sordo anche su questo punto perché abbisogna sempre di più dell’appoggio del Polo per continuare la guerra della Nato. Un appoggio del Polo per continuare la guerra della Nato. Un appoggio che verrebbe meno se l’Italia aprisse veramente le frontiere a queste persone disperate. Ma, tutti coloro che sono stati contro questa guerra non possono rimanere indifferenti di fronte a queste altre catastrofi annunciate.

Le forze politiche che chiedono la tregua e la sospensione dei bombardamenti non dimentichino la tragedia di questo popolo del Kosovo, martoriato, ingannato, vilipeso sinergicamente da Milosevic e dalla Nato, come se un patto scellerato fosse stato siglato segretamente. Un’accoglienza reale ed adeguata non è solo una virtù; è oggi una necessità se vogliamo evitare altri morti, altri lutti, altre sofferenze. Ed è anche meno costosa della strappalacrime, ipocrita e caotica “missione Arcobaleno”.

NUOVE STRATEGIE NELLA POLVERIERA DEI BALCANI
Una guerra (inevitabile?) che dura da cent’anni

di Pierfelice Bellabarba

Quando finirà la guerra dei quasi cento anni nella penisola balcanica? Nel 1991 è iniziata la sesta guerra balcanica con la prima fase sloveno-serba, poi quella serbo-croata, poi la serbo-croato-bosniaca ora siamo alla fase serbo-kosovara, che è una deja vu, perché Serbi, Montenegrini e Macedoni hanno sempre aggredito i kosovari.

Ora è necessario un brevissimo excursus delle guerre balcaniche in questo “secolo breve” per coloro che credono che la pace si raggiunge con la guerra e che la guerra sia il destino dell’uomo o “il sale della politica” o “la continuazione della politica con altri mezzi”. Ma non sarà forse l’inverso? Non sarà la guerra la continuazione di questa specie di pace armata e di questo genere di politica che preferisce “mostrare i muscoli”.

Dopo la guerra italo-turca per la conquista della Libia nel 1911 si ebbe l’effetto domino, infatti nel 1912 scoppiò la prima guerra balcanica, che si combatté per l’indipendenza dalla Turchia, che fu cacciata dall’Epiro, Macedonia e Tracia, dopo secoli di dominio ed il trattato di Londra nel maggio del 1913 cercò di porre fine alla guerra, ma la Bulgaria non era soddisfatta dei confini sia in Tracia sia in Macedonia e dichiarò guerra ai Serbi ed ai Greci che vinsero con l’aiuto del Montenegro e della Romania; nel 1913 con il trattato di Londra si pose fine alla seconda guerra balcanica durata due mesi, luglio e agosto; la Macedonia fu divisa a vantaggio della Serbia e della Grecia e la Bulgaria fu esclusa dalla sua “Terra promessa. Intanto era nata l’Albania grazie all’intervento dell’impero austroungarico e dell’Italia che volevano bloccare le mire espansionistiche serbe sull’Adriatico, ma il Kosovo di etnia albanese fu assegnato alla Jugoslavia che cercò di denazionalizzarlo con deportazioni e stragi. Passò un anno e scoppiò la prima guerra mondiale, che possiamo chiamare senz’altro terza guerra balcanica, anche se giustamente Limes fa notare che la guerra “fu scatenata nei Balcani e non dai Balcani”. Si può definire guerra balcanica perché i nostri testi di storia chiamano la guerra franco-austriaca del 1859 seconda guerra d’indipendenza e classificano la guerra austro-prussiana del 1866 come terza guerra d’indipendenza. La Bulgaria si schierò contro la Serbia e la Grecia a causa della Macedonia e dopo la sconfitta perse lo sbocco sull’Egeo a vantaggio della Grecia. Dopo la prima guerra mondiale nacque uno stato artificiale la Jugoslavia con l’unificazione degli slavi del sud da secoli divisi e che avevano combattuto su fronti opposti: Croati, Sloveni e Bosniaci per l’impero austroungarico, Serbi e Montenegrini contro l’Austria insieme alla Russia. La nascita della Jugoslavia fu decisa nel trattato Versailles soprattutto dalla Francia in funzione antitedesca ed antitaliana. Nel 1921-22 la Grecia combatté contro la Turchia e questa fu la quarta guerra balcanica con trasferimento della popolazione greca e turca nei rispettivi territori, in realtà questa guerra fu anche un’appendice della prima guerra mondiale. Passarono quasi venti anni e iniziò la quinta guerra balcanica nel 1941 fino al 1945 che si inserisce nel quadro più ampio della seconda guerra mondiale. Nella Jugoslavia scoppiò una feroce guerra civile fra partigiani comunisti di Tito e i nazionalisti cetnici guidati da D. Mihailovic e fra ustascia fascisti croati e i partigiani comunisti. La guerra costò 1.700.000 morti, di cui 2/3 furono dovuti alla guerra civile e la Jugoslavia si divise durante la guerra per riunirsi alla fine di nuovo artificialmente sotto la dittatura comunista di Tito. Già nel 1970 prima della morte di Tito c’erano movimenti separatisti in Croazia ed in Kosovo e l’esercito federale reprimeva le rivolte per l’autonomia, il pluripartitismo e la libertà e non riuscì ad essere il collante dell’unità nazionale. Nel 1991 scoppiò la sesta guerra balcanica che gli storici invece chiamano terza; inizia una nuova balcanizzazione ed i confini cambiano di nuovo. Scriveva un nazionalista italiano “i confini si segnano non per la pace futura, ma per le guerre future”. Nella penisola balcanica le sei guerre combattute dal 1912 ad oggi non hanno mai portato sicurezza, giustizia, pace e libertà; tra una guerra e l’altra, tra una rivolta e l’altra ci sono stati dei cessate il fuoco, delle tregue armate più o meno lunghe. In Jugoslavia, come in altri Paesi, con buona pace dei pacifisti militaristi, la guerra è stata seme di altre guerre, perché essa serve solo ad occultare, schiacciare, deviare, rimandare e non a risolvere i conflitti che nascono inevitabilmente in una società. I polemologi, come G. Bouthoul affermano: “la guerra è inoltre tra tutte le soluzioni possibili la più comoda a prendersi, quella cioè che stanca di meno. Essa dispensa dall’andare alla ricerca di faticosi compromessi e di equilibri di interessi fra loro divergenti (“le guerre” pag. 390 Longanesi).

Capi di stato e politologi sostengono che la guerra si poteva evitare, ma allora chi l’ha voluta? Oggi è certo che neppure le grandi potenze volevano la prima guerra mondiale, ma vi furono trascinate dalla loro volontà di potenza e dal meccanismo delle alleanze che invece avrebbe dovuto difenderle dalla guerra. Il riconoscimento della indipendenza della Slovenia e Croazia nel 1992 da parte dell’Austria, Germania e Vaticano favorirono la crescita del nazionalismo e dell’intolleranza; l’espansionismo serbo sempre favorito dalla Russia ha fatto da contraltare . Si è detto che le secessioni secondo gli accordi di Helsinki non dovevano essere fatte con il ricorso alla guerra, ma concordate con le altre regioni e con le minoranze etniche al proprio interno, così aveva promesso ufficialmente la Croazia . Il sogno atavico della “Grande Serbia” ha provocato quello della “Grande Croazia” . La Serbia ha sobillato e aiutato la sua minoranza in Croazia, che non si credeva difesa in una Croazia indipendente .

Si dà la colpa della guerra al mancato e non tempestivo intervento internazionale di una forza armata di interposizione e nessuno voleva morire per Sarajevo.

Neppure nella I guerra mondiale si morì per la Serbia, essa fu uno scontro fra imperialismi e nazionalismi per i quali la penisola balcanica aveva una considerevole importanza strategica .

Agli inizi degli anni ’90 la Jugoslavia non aveva l’importanza dell’Iraq e non aveva invaso un paese

straniero, né c’era stata la violazione del prestigio di una grande nazione europea che portò alla guerra delle Falklands nel 1981 . I non interventisti consideravano la guerra in Jugoslavia come una guerra interna che non richiedeva un’ingerenza militare esterna . Anche i militari ed i politici temevano “la tagliola dei Balcani” . Oggi alla balcanizzazione già in atto se ne aggiunge una ulteriore quella del Kosovo e forse del Montenegro . Forse è un’azione di destabilizzazione della penisola balcanica e dell’Europa o più probabilmente si stanno ridisegnando nuove geostrategie da parte degli USA e di alcuni stati della NATO . Con l’ingresso nella NATO della Polonia, repubblica ceca e Ungheria e con in lista di attesa i Paesi baltici, la Bulgaria, la Romania, la Slovenia, la Slovacchia si torna al vecchio “cordone sanitario” intorno alla Russia . La Serbia va domata perché intralcia questa strategia dei falchi e degli ultras della NATO e degli USA . La difesa dei kosovari non interessa agli strateghi e alla Realpolitik, semmai è un buon paravento ed un ottimo pretesto per farci apparire la guerra come giusta e necessaria ed anche umanitaria, non è una beffa, non è una assurdità, ma è la logica del pacifismo militarista . Le bombe non salvano i kosovari e non convincono né i Serbi né i loro capi . I serbi o non sono a conoscenza di ciò che ha fatto la Serbia o lo giustificano, come hanno detto i giornalisti italiani da Belgrado; noi da decenni diciamo che la guerra si può vincere, ma con essa non si può convincere .

E’ proprio in funzione di questa strategia che ci fu l’aiuto USA e ONU alla Macedonia nel 1992, perché essa si trova al confine con l’Albania, la Grecia e la Bulgaria e si sarebbero potuti riaccendere i vecchi appetiti di queste nazioni verso la Macedonia e ciò avrebbe coinvolto anche stati membri della NATO .

Nonostante tutto, ammesso l’errore dell’Europa a Versailles e degli Usa nell’aver sostenuto la dittatura di Tito che faceva da cuscinetto fra la NATO ed il Patto di Varsavia, non è inevitabile ricorrere alla guerra per unirsi o per separarsi , la Macedonia ne è un esempio . La guerra per la separazione della Slovenia ha fatto tante vittime quante ne può fare un paio di week-end sulla strada. Si è divisa la Cecoslovacchia senza guerra, si sono staccati dall’URSS i paesi balcanici senza guerra e la Germania si è riunita senza guerra .

In una guerra ci sono spesso responsabilità e complicità internazionali, la maggioranza degli Jugoslavi non voleva la guerra, né sono stati consultati, anzi spesso si sono opposti alla guerra con tutti i mezzi; hanno perso il lavoro, hanno rischiato la vita, molti disertori sono fuggiti per non combattere una guerra ingiusta . Sono sempre le elite politiche che dichiarano la guerra e vi trascinano le masse; la convivenza etnica era scomoda solo per i capi politici, militari e religiosi che cercavano maggior potere, prestigio e ricchezza . Si è rinfocolato l’ultranazionalismo più bieco fondato sul “Blut und Boden” (sangue e suolo) nazista che non ha nessuna importanza storica e significato scientifico . Ai capi politici, militari e religiosi ed al loro seguito si sono aggiunti criminali comuni, volontari e miliziani born to kill, fanatici esaltati come furke, machi bellicosi talvolta drogati, tutti presi da un senso di superiorità e di orgoglio individuale ed etnico .

Per essi distribuzioni, saccheggi, uccisioni, stragi, stupri collettivi e crimini contro l’umanità sono atti di eroismo, coraggio, onore militare e dovere indiscutibile anzi motivo di vanto e di gloria .

Del resto la guerra è legibus soluta (libera da ogni vincolo di legge).

Certamente non tutti i cittadini serbi, croati e bosniaci erano “belve infuriate” che uccidevano e si facevano uccidere, anche perché non si facevano prigionieri; molti combattevano perché credevano di difendere se stessi, la famiglia, la casa; in guerra ed anche in questa guerra tutti credono di difendersi, perché nei mass media si fa credere che il cattivo, il mostro, l’aggressore, lo stupratore, il mangiabambini è sempre l’altro .

La guerra in Jugoslavia ha fatto più morti fra i giornalisti che qualsiasi altra guerra e ha fatto migliaia di disoccupati fra i giornalisti, licenziati perché non in linea con i propri governi divenuti sempre più dittatoriali, liberticidi e bellicosi . Molti combattevano perché non potevano fuggire, altri perché avrebbero perso il posto di lavoro e la casa . Tuttavia la guerra non ha risolto i conflitti, le tensioni, le oppressioni, le ingiustizie, non ha sedato i desideri di vendetta, gli sciovinismi .

Forse oggi c’è più compattazione etnica basata su emigrazioni forzate, deportazioni e stragi, ma la convivenza civile si basa su uguali diritti per tutti e non su una impossibile omogeneità etnica .

Lo scopo delle guerre è uccidere e distruggere o per ferocia o per odio o per vendetta o per dovere o per piacere o per rassegnazione; una volta scoppiata la guerra si alimenta da se stessa, c’è sempre un amico o un familiare da difendere o da vendicare, ai Lager serbi si aggiungono altri Lager croati e bosniaci, alla pulizia etnica serba e alla “Grande Serbia” si aggiungono la pulizia etnica croata e la “Grande Croazia” e la pulizia etnica islamica e lo stato integralista islamico in Bosnia .

Qualcosa di importante non è stato chiarito nei mass media e a noi sembra che sia alla radice di ogni guerra, è la cosiddetta “banalità del male”. Perché si possono fare eccidi di massa di civili e di prigionieri, deportazioni, Lager e stupri collettivi? Non sembrava che tutto questo appartenesse al passato? Eppure in Jugoslavia alcuni si sono avventati come belve verso il vicino di casa, l’amico, il compagno di scuola e di lavoro, il conoscente con la ferocia tipica della guerra civile . Sembrava che tutto questo non dovesse più accadere, invece è diventato banale, facile, possibile, normale durante la guerra . Tutto è scaturito dalla “cultura del nemico” tipica della dittatura che nega e criminalizza il pluralismo sociopolitico e demonizza il processo di democratizzazione . Si cerca e si vuol trovare nell’altro, nel diverso un nemico, quando il kosovaro e il croato chiedono più libertà sono dei nemici, il primo appartiene ad una razza inferiore e deve essere o serbizzato o eliminato, l’altro è sempre un ustascia un fascista . Il bosniaco suscita le angosce ed il terrore del lontano dominio turco, lo sloveno che chiede il pluripartitismo, la smilitarizzazione della società, la pace è il nemico controrivoluzionario che destabilizza la Jugoslavia . La Serbia che aggredisce si sente sempre aggredita e fa la vittima . Il continuo addestrarsi alle armi di uomini e donne nelle fabbriche, nelle scuole, il prepararsi alla “difesa popolare totale” dai 16 ai 65 anni con la tecnica della guerriglia; i depositi di armi, cibo e munizioni nelle caverne sotterranee nelle campagne e nelle montagne, l’esaltazione dell’esercito popolare e socialista che in realtà tiene unita la Jugoslavia solo con i carri armati fanno parte della cultura del nemico . Il clima di diffidenza e di repressione del dissenso degli intellettuali e dei membri del partito come M.Gilas, il clima di odio e di persecuzione dei comunisti stalinisti jugoslavi rinchiusi nei Lager dell’Isola Nuda dopo lo strappo da Stalin nel 1948, quel clima di diffidenza sospetto ed emarginazione della chiesa cattolica nonostante la libertà di religione sono alla base della cultura del nemico ed hanno creato quell’Aumus indispensabile al mantenimento ed al risorgere di odi, rancori, desideri di vendetta, fanatismo, intolleranza, sciovinismo, ultranazionalismo mai sopiti dopo la seconda guerra mondiale. In questa cultura del nemico si trova a suo agio l’esercito federale jugoslavo che doveva difendere la Jugoslavia paese non allineato dal nemico esterno; ora finalmente il nemico l’ha trovato ed identificato, ma all’interno. Troviamo sempre l’esercito federale in prima linea in Slovenia, a Vukovar (Croazia) a Dubrovnik; appoggia i raid terroristici dei serbi ribelli contro i Croati in Krajina, invece di “impedire i conflitti etnici e mantenere la pace” . A tutto questo si aggiunge il nazionalismo che si alimenta dello scontento economico .

Ciò che è più ripugnante in questa guerra è quell’orgoglio e vanità stupida della propria etnia, quella chiusura mentale dei fanatici, quella violenza gratuita dei machi e dei volontari born to kill tutti pronti a battersi fino alla morte per dimostrare di essere coraggiosi forti superiori agli altri, per conquistare con il sangue i confini di una patria più grande e per dimostrare di essere veri uomini distruggendo, torturando, massacrando fino a giungere al massimo delle aberrazioni uccidendo la donne incinte ed il loro feto nelle maniere più atroci . La guerra sempre più legibus soluta permette che le atrocità accadano in modo sistematico, la guerra accende l’odio, la follia, il furore selvaggio, la guerra giustifica, ritualizza, dà sacralità alle azioni disumane, quindi più si è disumani e più si è veri uomini .

CAPIRE IL KOSOVO
La Nonviolenza per riconciliare

di Francesco Grasselli

Questo libro esce mentre uno degli Autori, don Lush Gjergji, grande amico e collaboratore di Rugova, è ancora – speriamo, ancora! – nelle mani dei Serbi, controllato a vista dalla polizia, che pochi giorni fa ha ucciso quattro ragazze, che hanno avuto l’unica colpa di chiedere di potergli fare visita. Ma cos’è oggi la morte di quattro ragazze, che hanno avuto l’unica colpa di chiedere di potergli fare visita. Ma cos’è oggi la morte di quattro giovani, di fronte all’immenso numero di morti, di prigionieri, di torturati, di deportati di tutto il Kosovo? E’ un intero popolo condannato a morte violenta!

Di questo dramma e del dramma della guerra della Nato contro il regime serbo di Milosevic sono state date infinite letture. Ma nessuna che abbia tenuto conto del “grande esperimento” che il popolo Kossovaro, guidato da Rugova e da altri leader laici o religiosi, cristiani o mussulmani, stava portando avanti da dieci anni: quello della resistenza non violenta al regime di Milotevic.

I politici occidentali non hanno creduto a questo esperimento, non l’hanno aiutato. Essi alla violenza sanno rispondere solo con altra violenza. Ma anche i commentatori più acuti non si sono accorti che i bombardieri della Nato non colpiscono solo le città e i villaggi del Kosovo, della Serbia, della Vojvodina, del Montenegro: essi colpiscono anche al cuore l’idea stessa della non violenza attiva, che in Kosovo stava diventando patrimonio e metodo di un popolo intero, anche se un piccolo popolo, di oppressi e prigionieri nella propria terra.

Perfino i pacifisti dell’ultima ora, quelli che non avevano spesso una parola o un gesto a favore della pacifica resistenza Kossovara, e che ora gridano a gran voce contro la NATO, dimenticando quasi che c’era una guerra in corso ben prima che la Nato intervenisse, anche questi pacifisti distratti sembrano ritenere la non violenza di Rugova e dei suoi amici poco interessate, forse perché non facilmente spendibile in termini di ideologia e di contrapposizione politica.

Il libro di Lush Gjergji, di Giancarlo e Valentino Salvoldi è, invece, proprio centrato sull’azione non violenta, sull’educazione del popolo Kossovaro al perdono e alla riconciliazione, al dialogo interreligioso e interetnico… Il primo capitolo (“La non violenza nel cuore dei Balcani”) ci introduce nella storia di questa regione e soprattutto nelle vicende più recenti, quando è divenuta “il campo di concentrazione più grande d’Europa” (p. 32). Nel secondo capitolo (“Dalla vendetta al perdono”) si racconta l’iniziativa di una vera e propria “riconciliazione universale del popolo albanese”, che ha avuto lo scopo di combattere la consuetudine della vendetta di sangue, consuetudine sancita nel Codice di Lek Dukajini. Questa iniziativa, avviata nella primavera del 1990, ha permesso di estinguere 1275 vendette di sangue e altri conflitti e dissidi minori.

Il capitolo terzo (“Kosovo: la libertà verrà dalla non violenza “) mette in luce la lotta di resistenza non violenta dal 1990 al 1995 e, soprattutto, i principali protagonisti di questa lotta pacifica: Ibrahim Rugova, Anton Cetta, mons. Nike Prela, l’Associazione di soccorso “Madre Teresa” guidata da Lush Gjergji.

Il capitolo quarto (“Futuro del Kosovo, futuro di tutti noi”) parte dagli accordi di Dayton (24 novembre 1995) e giunge alle terribili vicende dei nostri giorni, con una conclusione “aperta alla speranza”: riferendosi alla recente liberazione di Rugova da parte dei Serbi gli Autori dicono: “E’ grottesco pensare oggi che la non violenza, la coesistenza pacifica potranno avere un domani l’ultima parola? Forse, ma ora inaspettatamente, è consentito loro di dire almeno una parola. E se non si cercherà di chiamare pace un deserto, ma di far germogliare nel deserto la pace, ci si rivolgerà al giardiniere che la seppe far fiorire fra le aspre montagne del Kosovo” (p. 138).

Il libro è arricchito da alcune appendici. La più corposa è il dossier Kosovo, curato dall’Associazione Peacelink, che con lo stile delle FAQ (frequently asked questions: risposte alle domande più frequenti) cerca di portarci dentro gli enigmi di questa incomprensibile guerra nel cuore dell’Europa, alla vigilia del 2000. Importante anche l’appello per la pace di Alex Zanotelli, che chiude il libro.

Credo che il lettore rimanga con una domanda; non “chi ha vinto la guerra?”, perché è una guerra che nessuno può vincere, a parte il fatto che una guerra è sempre una sconfitta. Ma “vincerà la violenza o la non violenza?”. Domanda quando mai significativa dopo un secolo tutto insanguinato e all’alba di un nuovo secolo, anzi del terzo millennio.

Giancarlo e Valentino Salvoldi – Lush Gjergji, KOSOVO – NONVIOLENZA PER LA RICONCILIAZIONE, pp.192 – L. 17.000 – 2.a edizione, maggio 1999

UNA SENTENZA DI CONDANNA DAI GIUDICI GRECI
Notizia “bomba” contro la NATO

In Grecia venti membri del Consiglio di Stato (la Suprema Corte amministrativa) hanno pronunciato una dichiarazione che deplora i crimini internazionali contro la Jugoslavia. I giudici affermano che questi crimini inaugurano un “periodo di arbitrarietà” degno dei tempi della Santa Alleanza e dell’Asse. In una dichiarazione sottoscritta da venti giudici di alto rango del Consiglio di Stato ellenico, presieduto dal suo vicepresidente decano Michalis Dekleris, la NATO è stata riconosciuta colpevole di una barbara e senza precedenti aggressione alla Jugoslavia. In questa importante dichiarazione i giudici condannano i bombardieri della NATO, denunciano i crimini internazionali commessi dai paesi della NATO mediante l’attacco armato, e avvertono che un’eventuale legge mirante a coinvolgere la Grecia in questa guerra costituirebbe una flagrante violazione della Costituzione . Per la prima volta, dall’inizio dei bombardamenti, dei giudici, dimostrano che l’offensiva della NATO contro la Jugoslavia ha dato inizio a un periodo di arbitrarietà nelle relazioni internazionali, degno dei tempi della Santa Alleanza e dell’Asse. In concreto, essi rilevano che “questa aggressione si accompagna a una ripresa della campagna propagandistica mirante a sfruttare le sventure dei profughi per distogliere l’attenzione pubblica dalla violazione delle leggi internazionali”.

Ecco il testo della dichiarazione:

“ I giudici greci contro la guerra della NATO”

L’offensiva della NATO contro uno stato sovrano europeo, senza precedenti negli anni del dopoguerra, è un affronto non solo ai principi etici della Grecia e della civilizzazione europea, ma anche ai precetti fondamentali della legge internazionale. Quest’ultimo punto è una questione di natura legale e non dovrebbe essere messa in secondo piano dalla repulsione morale che è stata giustamente provocata da questo attacco barbaro e codardo. Al contrario, tale questione è di primaria importanza e deve essere chiarita in particolare da coloro che sono competenti in materia di diritto, perché questo è il loro compito.

Questo attacco ingiustificato è avvenuto in flagrante violazione degli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite, che proibisce espressamente l’uso della violenza nelle relazioni internazionali e stabilisce che l’unico organismo competente nelle crisi internazionali è il Consiglio di Sicurezza (art. 41 e seguenti). Secondo tali clausole, ma anche secondo i precetti generalmente riconosciuti della legge internazionale, non c’è alcuno spazio per chi voglia auto-proclamarsi manager delle crisi, e non è neppure permesso, qualunque sia il pretesto addotto, a paesi terzi di intervenire negli affari interni di uno stato sovrano.

Ma questo attacco viola anche la Carta della NATO, il cui unico scopo è la difesa collettiva dell’area definita come campo d’azione che coincide con i confini dei suoi stati membri, e che si è espressamente impegnata nelle sue relazioni internazionali a contenersi nella minaccia o nell’uso della violenza in qualsivoglia modo che sia incompatibile con i principi e gli scopi delle Nazioni Unite (art. 1). Quindi, sulla base della sua stessa Carta, la NATO è stata posta sotto la giurisdizione delle norme della Carta delle Nazioni Unite. E non potrebbe essere altrimenti, poiché nessuna organizzazione o alleanza internazionale può essere posta al di sopra delle Nazioni Unite.

Inoltre, sia la Carta delle Nazioni Unite sia tutti i precetti generalmente riconosciuti della legge internazionale salvaguardano l’uguaglianza e la sovranità di tutti i popoli, indipendentemente dal loro numero e dal loro potere, e non riconoscono alcun diritto da parte delle grandi potenze di intervenire negli affari interni delle nazioni più deboli o di imporre soluzioni di loro gradimento. Di conseguenza, per quanto possa essere grave la crisi in Kossovo, essa rimane una questione interna della Yugoslavia e ricade sotto l’esclusiva giurisdizione dello stato yugoslavo. Qualsiasi interesse umanitario o di altra natura da parte dell’ONU, di altre organizzazioni internazionali o paesi terzi può essere manifestato solo in modo pacifico e con mezzi diplomatici entro il contesto della Carta dell’ONU.

E, in questo caso, le Nazioni Unite, rispettando queste limitazioni, e rimanendo nell’ambito della loro giurisdizione, raccomandano al legittimo governo della Yugoslavia di adempiere ai suoi obblighi (risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 1160/31.3.1998 e 1199/23.9.1998). Ma dietro le quinte, l’alleanza militare della NATO si presenta in un ruolo che si è auto-assegnata, e senza avere – né potrebbe avere – alcuna competenza a coinvolgersi in tale questione, avendo dapprima imposto un arrogante ultimatum che violava la sovranità effettiva della Yugoslavia, lanciando quindi una guerra di aggressione contro questo stato, e pretendendo che esso si conformasse alle sue richieste. Questo attacco è stato accompagnato dalla riproposta di una triste propaganda che tenta di sfruttare il dramma dei rifugiati per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dalla violazione della legge internazionale.

Il significato legale di queste azioni non dovrebbe essere nascosto né sottostimato. Con il loro attacco armato, i paesi della NATO stanno commettendo i seguenti crimini internazionali, secondo la Carta che è stata preparata dal tribunale internazionale contro i Crimini dell’Umanità, che si riferisce alla Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 (Documento ONU A/CONF/183/9) e in particolare:

il crimine di combattere una guerra offensiva, con la distruzione violenta di vite umane, monumenti culturali e di interi insediamenti;

il crimine di genocidio mediante l’intenzionale distruzione dell’infrastruttura delle comunità serbe e la creazione in esse di condizioni che conducono alla annichilazione fisica, e

il crimine della distruzione ecologica mediante l’uso di una tecnologia militare che provoca danni alla salute umana e all’ambiente naturale, un crimine commesso anche contro paesi terzi nei quali si diffonde l’inquinamento mortale.

Durante il recente vertice di Washington, i capi dei paesi aggressori NATO hanno cercato di emendare le clausole della loro Carta per rendersi indipendenti nel continuare l’attacco alla Yugoslavia, e anche in vista dei loro piani per il futuro nel realizzare il cosiddetto peace-making e gli interventi umanitari con il pretesto della “gestione della crisi”! Ma questo tentativo è stato condotto invano. L’unica valida modalità di gestione della crisi, secondo la legge internazionale, rimane come sempre quella dell’ONU. E nessun’altra organizzazione che per definizione è inferiore a essa può rimuovere o usurpare il suo ruolo. La NATO non può abolire la legge internazionale e non può produrre nuove norme di legalità internazionale riconosciute da tutti quanti. La sua nuova Carta concerne solo i governi che l’hanno sottoscritta. E anche se è stata ratificata dai parlamenti nazionali dei suoi stati membri essa esprimerà le intenzioni di soli 19 stati su un totale mondiale di 158.Gli altri stati non tollereranno la falsificazione o la derisione della legge internazionale. Essi respingono la teoria secondo la quale il potere è diritto, sia che si eserciti in forma esplicita o nascosta. E piccoli stati come la Grecia saranno in pericolo se abbandoneranno i diritti che non sono stati messi in discussione per secoli. Stiamo ritornando all’era della Sacra Alleanza e dell’Asse, contro i quali l’umanità, e i greci in particolare, lottarono con così grandi sacrifici.

Essendo stata coinvolta in questa crisi, la Grecia non ha altra opzione che quella che le impone la sua cultura e la sua Costituzione, cioè seguire le norme universalmente riconosciute dalla legge internazionale, cercare il consolidamento della pace, e usare le sue forze armate solo per scopi difensivi (art.2, par.2 e art.4, par.6, della Costituzione). Alla luce di queste norme della Costituzione dello stato ellenico e delle norme della Carta delle Nazioni Unite è possibile interpretare le clausole degli articoli 27, par.2, e 28, par.3, della Costituzione, nel senso che, dopo l’approvazione di una legge speciale, essi consentono a truppe straniere di sostare o attraversare lo stato ellenico o consentono una limitazione della sovranità nazionale. Tuttavia, queste clausole potrebbero essere implementate solo con il rispetto della partecipazione della Grecia a una guerra difensiva, e non per facilitare un attacco contro un paese terzo. Di conseguenza, il coinvolgimento della Grecia in questa guerra contro la Yugoslavia non può essere deciso neppure mediante una legge, perché tale legge sarebbe totalmente incostituzionale.

Oltre che dal Sig. Dekleris, questo testo è stato firmato dai seguenti membri del Consiglio di Stato:

St. Sarivalasis, Ioanna Mari, Dim. Kostopoulus, Evdoxia Galanou, Sot. Rizos, Pan. Pikrammenos, Nik. Sakellariou, Th. Papaevangellou, Nik. Rozos., Dion. Marinakis, St. Haralambos

e dai giudici associati:

Maria Karamanov, Ekaterini Christoforidou, I. Kapelousos, Dim. Alexandris, Eleni Anagnostopoulou, Euth. Antonopoulos, Varvara Kapitsi, Theo. Aravanis.

AI GIOVANI SERBI, KOSOVARI, ITALIANI, AMERICANI
Obiettori e disertori di tutti i paesi …

Nello scorso numero avevamo presentato il documento politico, approvato nel corso del Congresso di Napoli, nel quale, tra le altre cose, si affermava che la LOC si sarebbe impegnata per far ottenere l’asilo ai disertori ed agli obiettori di tutti i paesi in conflitto.

Sul piano legislativo la situazione attuale è la seguente:

la Legge 390/92 (varata ai tempi del primo conflitto jugoslavo), in merito all’accoglienza dei disertori-obiettori, all’Art. 2-bis, recita: “La Repubblica Italiana è impegnata a garantire comunque l’ingresso e l’ospitalità ai giovani cittadini delle repubbliche ex – jugoslave che siano in età di leva o richiamati alle armi, che risultino disertori o obiettori di coscienza”.

La legge è stata poi recepita in seno alla legge sull’immigrazione, prorogandone la validità fino al 31.12.99.

Questo contesto legislativo è sufficiente per pretendere che il Governo attui le misure di accoglienza necessarie, infatti gli eventuali disertori serbi, montenegrini e kosovari (anche se dell’UCK), sono cittadini di una delle “repubbliche ex – jugoslave”.

Come già accadde ai tempi del precedente conflitto, però, vi è il forte rischio che la legge rimanga inattuata in quanto, pur esistendo gli strumenti legislativi, mancano gli strumenti politici ed esecutivi per renderla operativa, non ultimo il fatto che molti disertori non sanno dell’esistenza di questa legge e, quindi, non si dichiarano tali quando vengono fermati dalle forze dell’ordine italiane, finendo per essere rispediti in Slovenia e, da qui, chissà dove.

Onde evitare che nulla si muova, a livello parlamentare e governativo, abbiamo mobilitato le nostre piccole risorse su tre direzioni:

Un appello al Presidente del Consiglio;

Un’iniziativa parlamentare;

Garantire, ai disertori, una corretta informazione sulla legge.

I tempi della politica sono sicuramente lunghi ma, finalmente, il nostro impegno sembra produrre qualche risultato infatti:

Molte associazioni e/o singoli hanno aderito al nostro appello (pubblicato nelle pagine LOC);

Gli On. Mantovani e Nardini (PRC) hanno presentato una interrogazione parlamentare sulla questione (pubblicata nelle pagine LOC);

Amnesty International, in collaborazione con la LOC Roma e le strutture di volontariato che operano nelle zone di conflitto, si sta attivando per informare i disertori.

Tutto questo, però, è ancora troppo poco e, pertanto, vi chiediamo di collaborare per raccogliere ulteriori adesioni all’appello e, al contempo, mettere in campo tute quelle strategie, di cui è capace la creatività pacifista, per esercitare pressioni sul governo affinché dia risposte concrete alle esigenze di chi subisce il conflitto.

Resistere alla guerra

Per quanto sia difficile riuscire a sapere cosa avvenga veramente, si moltiplicano le notizie su diserzioni e iniziative di resistenza alla guerra nella Repubblica Jugoslava:

in Montenegro il numero di giovani che decide di rifiutare l’arruolamento, anche sull’esempio di alcune importanti personalità pubbliche, sembra essere in forte crescita, sebbene a rischio di forti atti repressivi.

In Serbia un gruppo di 400 riservisti, arrivati ad Aleksandrovac affermano che non torneranno più al fronte e si rifiutano di ripartire per il Kosovo. A Krusevac sono arrivati altri centinaia di altri disertori.

Sempre in Serbia paiono moltiplicarsi le manifestazioni delle madri di militari che protestano per l’impiego nel conflitto dei loro figli e chiedono la fine dei combattimenti; tutt’altro che morbida, a tale riguardo, la reazione della stampa che le accusa di essere traditrici.

Come si vede il dissenso alla guerra comincia a trovare spazi per emergere ed è doveroso che possa incontrare sostegno e solidarietà nel movimento pacifista italiano.

Interrogazione prodisertori

Pubblichiamo, di seguito, il testo dell’interrogazione parlamentare n° 4-23614, dagli On. Mantovani e Nardini, al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Ministri dell’Interno e per la solidarietà sociale.

Per sapere – premesso che:

I bombardamenti della Nato, l’attività dell’esercito della Repubblica federale jugoslava e delle milizie serbe dell’Uck, producono un esodo forzato di decine di migliaia di profughi kosovari verso Albania, Macedonia e Montenegro, paesi assolutamente non in grado di garantire condizioni di vita dignitose a un numero tanto elevato di persone;

Nonostante l’enorme sforzo mediatico per far credere all’opinione pubblica il contrario, nel lungo periodo, l’intervento dei volontari sul territorio albanese e macedone non è assolutamente adeguato a far fronte alle difficoltà logistiche;

La prosecuzione dei bombardamenti della Nato, delle azioni dell’esercito jugoslavo, delle milizie serbe e dell’Uck, renderanno impossibile il ritorno in tempi brevi dei profughi nelle loro case;

I bombardamenti e la situazione che determinano hanno accelerato l’esodo dei profughi, che chiaramente non hanno alcuna intenzione di tornare nelle loro case;

Si ha notizia di alcuni casi di membri dell’opposizione jugoslava e di disertori dell’esercito di quella federazione respinti alla frontiera di Gorizia;

Se il Governo intenda attivarsi per riconoscere a tutti i profughi provenienti da quella regione che ne facciano richiesta, senza distinzione alcuna, e predisponendo un piano di accoglienza adeguato, lo status di protezione umanitaria previsto dal testo unico sull’immigrazione e già applicato nel caso di profughi provenienti dall’Albania, anziché tenere, come fino ad oggi è avvenuto, un atteggiamento simile a quello previsto per gli immigrati clandestini o per le persone richiedenti asilo politico;

Se non si ritenga di dover applicare per i disertori jugoslavi che si presentano alle nostre frontiere le disposizioni previste dalla legge n. 390 del 1992, in merito all’automatico diritto d’asilo per obiettori di coscienza e disertori dei paesi della ex-Jugoslavia.

Obiettori e consiglieri?

Il caso di Mario Carleschi l’abbiamo presentato nel numero 10/98.

Dopo “soli” 6 mesi, rispondendo all’interrogazione del Sen Russo Spena, il Ministero della Difesa, afferma che:

assegnò Mario al Comune di Calcinato non sapendo che, al contempo, fosse Consigliere nello stesso Comune;

I regolamenti prevedono, per l’odc-consigliere, l’assegnazione ad un ente limitrofo al Comune in cui riveste la carica;

Carica elettiva e servizio civile nello stesso ente sono incompatibili, non per legge, ma per ragioni di opportunità;

Su segnalazione del Sindaco di Calcinato, si è reso necessario il trasferimento.

Di fatto Mario è stato “allontanato” (60 km) dal Comune cui avrebbe dovuto essere avvicinato.

Per rispettare una ragione di opportunità non scritta, il Ministero ha di fatto violato una norma scritta!
Mercenari per le FFAA: reclutamento difficile

Malgrado “Rap Camp”, iniziativa mirante a promuovere l’arruolamento di mercenari nelle FFAA, pare che l’appeal della figura del soldato di professione rimanga molto basso tra i giovani italiani e che la campagna di reclutamento abbia raccolto un numero di giovani molto inferiore rispetto al fabbisogno delle FFAA.

A tale proposito gli On. Valpiana e De Cesaris hanno presentato un’interrogazione parlamentare per sapere:

quanto sia costata l’iniziativa Rap Camp;

quale sia stata la risposta, in termini di nuovi reclutamenti, dei giovani italiani;

quale sia il fabbisogno numerico che il Ministero intende coprire mediante i mercenari;

se sia giustificabile il costo di Rap Camp, in relazione agli scarsi risultati da esso ottenuto;

quanto sia il costo effettivo, di questo tipo di iniziativa, calcolato per ogni soldato effettivamente arruolato.

Secondo alcuni convinti assertori della cultura militarista, la colpa della scarsa adesione dei giovani italiani risiederebbe nella diffusione di una cultura “antipatriottica”, operata dalle associazioni pacifiste e dagli obiettori di coscienza.

E’ un riconoscimento di un merito che non osavamo attribuirci ma, se così fosse, forse il nostro lavoro si è dimostrato più efficace di quanto noi stessi non sperassimo.

DECALOGO MEDITERRANEO/5
Sua Maestà il Tempo tra Cronos e Kaos, passato e futuro

di Christoph Baker

Nevicava su Innsbruck quella sera di novembre. Un manto di bianco copriva il vecchio ponte sul fiume e i fiocchi volteggiavano nella luce dei lampioni. Tutt’intorno era silenzio ovattato. All’improvviso, come per incantesimo, si udì in lontananza la voce di un pianoforte. Poi questa musica si fece sempre più chiara, mentre mi avvicinavo ad un vecchio palazzo barocco. Dal secondo piano, da una finestra aperta su questa notte d’inverno, uscivano le note di una Nocturne di Chopin. Avevo diciannove anni e la vita mi offriva per la prima volta il regalo del tempo sospeso. Non esisteva più niente se non questo pianoforte, queste note, le mie orecchie e il cuore che si riempiva di una grande emozione. E mentre ascoltavo, la neve cadeva inesorabilmente. Quando lo sconosciuto smise di suonare, avevo dieci centimetri di neve sulle spalle…

Così accade che da un momento all’altro cambia per sempre il modo di vedere le cose. Ero stato indottrinato a pensare che il tempo era una cosa che si misura. In ore, in minuti, in secondi. Una cosa che si guadagna o che si perde. Una cosa che comincia da una parte e va da un’altra. Comunque davanti. Così, come tutti, ho cominciato a rincorrere il tempo, a risparmiarlo, a sfruttarlo, a massimizzarlo. Ho imparato a organizzare il mio tempo, a dividerlo, fossi chissà quale dio (e meno male che Cronos non si è arrabbiato più di tanto). Ma è così, non è vero? Abbiamo sviluppato una specie di rapporto di padrone-schiavo con il tempo. Vogliamo ingabbiarlo, controllarlo, e a volte addirittura affrettarlo! Ci piacerebbe averlo a disposizione quando diciamo noi, per obbedire ai nostri capricci, per darci una mano. Come se fosse un semplice bene di consumo. Ho sentito dire che il tempo si dovrebbe potere comprare al supermercato quando ci serve, per poi rivenderlo quando ci avanza. Per non parlare di quelli che dicono che non c’è abbastanza tempo in una giornata per fare tutto quello che c’è da fare. Non c’è abbastanza tempo??? Ma di che cosa è fatta una giornata se non di tempo? Di tutto il tempo?

Probabilmente subentra anche qui il nostro eterno problema esistenziale: la paura di morire. Una superficiale – ma quanta ingannevole – attitudine verso la morte è quella di immaginare di rimandarla in là il più possibile. E quale illusione più forte che di possedere il tempo, e decidere noi quando è giunto il momento (che a giudicare da certi “scienziati” dovrebbe essere perennemente rimandato, grazie a delle pillole di gioventù eterna!)? Fra parentesi, non ho mai capito perché dovremmo allungare la vita, dopo averla sprecata lavorando, risparmiando, faticando, litigando, sbuffando, deludendo noi e gli altri, inseguendo chimere di plastica, nascondendoci in continuazione, e così via… Vogliamo veramente un’altra dose di tutto questo? Invece chi l’ha abbracciato in pieno normalmente va incontro all’attimo finale non dico cantando, ma almeno con l’anima in pace per avere vissuto tanto.

A qualche passo dai Pirenei, appesi al cielo come nidi d’aquila, ci sono ancora oggi dei castelli che otto secoli fa hanno conosciuto una delle pagine più buie della storia cristiana: la crociata contro gli Albigensi. Per quarant’anni, con la benedizione – anzi sotto l’ordine – dei Papi, un esercito di crociati andò a massacrare e terrorizzare una intera popolazione (pulizia etnica?), colpevole solo di avere creduto in un’altra teologia cristiana, la dottrina dei bonshommes, dei Catari. Non è il caso di dilungarmi qui, ma ho menzionato questi castelli – soprattutto Peyrepertuse e Quéribus – perché ancora oggi sono più o meno identici a quando furono abbandonati nel trecento, quando la frontiera fra Francia e Aragona si spostò più a Sud. Da allora, nessuna ha più abitato questi luoghi sacri e magici che sembrano dialogare direttamente con Dio. Ebbene, essendo salito fino in cima a questi castelli, sono stato di nuovo stregato da un tempo che non è quello che mi hanno inculcato. Infatti, le pietre ma anche le travi di legno sono intatte, le valli intorno non evidenziano la presenza della modernità (forse qualche raro e orrendo traliccio, qualche strada, e ovviamente il parcheggio delle macchine di chi è arrivato fin qua), e c’è un silenzio imponente interrotto solo dal vento o dal grido di un uccello rapace. Ma soprattutto, quando si è lassù, per la prima volta la testa veramente nelle nuvole – mi raccomando, per un ricordo incancellabile, l’arrivo di un temporale – ci si rende conto che esistono cose che non obbediscono alle leggi che avevamo miseramente imputato al tempo.

Così, tutto di un tratto, il tempo non è più solo divisione, misura, o susseguirsi di momenti e eventi. Il tempo si arricchisce lentamente di colori, di suoni, di sapori. Ti rendi conto che non si può separare una entità astratta dal luogo e dall’emozione che te l’hanno fatto conoscere meglio. Ti accorgi che le tue nozioni indottrinate crollano come un castello di carte di fronte a tanto spessore. In quel momento cominci anche a intuire che il presente è qualcosa di sconvolgente, che il presente ha tutto in sé, che non esiste un momento che è fuori di adesso, né il futuro né il passato. Il ricordo non lo stai ricordando adesso? Il progetto non lo stai progettando adesso?

Allora, la nostalgia e il sogno diventano i veri parametri del nostro pellegrinaggio terrestre. Al posto dell’illusione di organizzare il futuro, o di progredire in rapporto al passato, possiamo cominciare a viaggiare dolcemente da una emozione all’altra, con la fiducia che il tempo a quel punto non è altro che il contesto, il paesaggio in cui spaziamo all’inseguimento delle grida e dei canti della nostra anima. Un tempo sentito dentro le trippe è tutt’altra cosa di quello imprigionato nelle nostre menti e nei nostri orologi. Laddove il secondo crea angoscia e frenesia, il primo invita al profondo, alla contemplazione, e – c’è bisogno di dirlo? – all’ozio…

Sono convinto che solo con un nuovo senso del tempo, di un tempo eterno e pieno di tutto, sia possibile finalmente imparare dalla storia umana le cose vitali che finora sono state scartate dalle filosofie trionfanti dei vincitori. Cose che ci permetterebbero – è il sogno – di uscire dall’atavica propensione dell’uomo alla violenza. Perché bisogna pur chiedersi come mai, con questo mito del progresso (scientifico, tecnologico, economico, politico, ecc.), siamo ancora ridotti a usare l’odio, la distruzione e le armi per “risolvere” i conflitti? Come si usa dall’alba della storia umana. Su questo tasto non abbiamo fatto un misero passo in avanti. Tuttavia, sappiamo benissimo che l’uomo è anche capace di grandi slanci di generosità, di gratuità, di umiltà e di amore. Ci sono testimonianze lungo tutto il cammino dell’esistenza umana sulla terra che ci ricordano che l’uomo non è solo violenza e sopraffazione, avidità e intolleranza. Solo che l’ironia più dolorosa della storia umana è che la pace è sempre un concetto debole di fronte alla guerra. Un po’ come la parabola della foresta tropicale che impiega milioni di anni per creare quello che l’uomo con un colpo di ruspa può distruggere in un minuto, tutto lo sforzo universale per creare dentro di noi una altra cultura del confronto, muore in un attimo di fronte all’ennesima prova di forza brutale e definitiva come lo è una guerra. Dopo una guerra, si deve sempre ricominciare daccapo…

Se invece avessimo un altro senso del tempo, forse troveremmo nei viaggi a ritroso, dentro i reperti e nei libri, nei racconti tradizionali e nell’arte, come nella danza, nel teatro o nel modo di fare le case, gli ingredienti di un mondo più pacifico. E noi occidentali potremmo cominciare a intuire perché tante civiltà – molte tuttora vive – hanno un senso ciclico della storia. Dicono che l’uomo ripete molte cose, ma che anche gli dei si ripetono. La nostra fissazione di cercare sempre di misurare il nostro progresso in termine di avanzamento rispetto al passato ci ha accecato, e non ci rendiamo conto che anche noi in fondo riproponiamo regolarmente vecchie storie, spacciandole per “scoperte”. A questo proposito, mi fa sorridere (da buon ignaro di queste cose) l’ultimo traguardo della fisica pura: la teoria del Kaos. Oggi, gli stessi fisici che qualche decennio fa erano lanciati sparati sulla via della spiegazione di tutto, della sistemizzazione di tutto, ci dicono “guardate che abbiamo scherzato: in fondo, non ci si capisce niente”! E così un bel cerchio si chiude. E da qualche parte, una vecchia saggia Apache sorride sicuramente anche lei…

Altra cartolina postale: la vita all’equatore nelle Seychelles. Un giorno che comincia sempre allo stesso momento, un tramonto di pochi minuti e la notte puntuale anche lei sempre alla stessa ora, e tutti i giorni che si assomigliano, ieri come l’altro ieri. Il tempo di un tempo, ritmato dalla stagione delle piogge e dall’altra stagione, cioè il resto dell’anno. La temperatura quasi sempre più o meno la stessa. Stavo in una sdraio gli occhi persi all’orizzonte dell’oceano indiano, mentre nuvole passavano maestose sopra le nostre teste. Meditavo sul vecchio che avevo incontrato il giorno precedente occupato a costruire una casa di bambole. Gli chiesi per chi era, e lui mi rispose che l’aveva cominciato per sua figlia, poi una cosa e l’altra, e adesso stava provando di finirla per sua nipotina… C’era nella sua voce tutta la tranquillità del mondo, nei suoi occhi una luce ironica. Ho immaginato la vita trascorsa con questi ritmi. Un’immagine fulminea invase il mio pensiero: l’ufficio, le carte, il telefono, gli appuntamenti, e tutto il tralalà. Mi girai verso la mia compagna, stavo per dirle “perché non rimaniamo qui un anno e ricominciamo a vivere”? Ma lei mi anticipò. Con uno sbadiglio, disse: “meno male che partiamo domani. Che noia, tutto è sempre uguale qui!” Mi raccomando le dinamiche di coppia…

Ma parlare del tempo in modo così razionale, mi fa perdere il richiamo di Sua Maestà. Se dovessi dire a miei figli cos’è il Tempo (se mi stessero a sentire, ovviamente!)… allora parlerei di certi silenzi in mezzo ad una partitura di violoncello. Un nonnulla, eppure una cosa irrinunciabile. Ecco, quando così leggero, ma così essenziale, si intrufola nel nostro cammino scontato, quando ci fa fermare un attimo, perché proprio non te l’aspettavi, il Tempo diventa poesia. Ci invita ad aprire il portone di casa, ad avventurarci al seguito di un pifferaio, a farci ubriacare da un profumo, ad inseguire ebeti una nuvola che ci ricorda l’infanzia, cose che non facevamo per mancanza di tempo!

A miei figli, parlerei di notti di stelle come fuochi d’artificio sopra il mare di Dalmazia; dell’aurora attesa sulla montagna di Sainte-Victoire in pieno inverno con le coperte di lana; di un fuoco nel camino con in mano un buon bicchiere di rosso e nella testa tutti i sogni che fanno a botte. Gli racconterei le ore sul molo di Cherbourg sotto la sagoma gigante del Queen Elizabeth in mezzo alle valigie prima di salpare per New York… E dovrei dirgli dell’emozione di essere in mezzo all’Atlantico, proprio a metà distanza fra il vecchio e il nuovo mondo. Laddove il Tempo diventa Orizzonte. Laddove il gabbiano che ha deciso di farsi la “traversata” a rimorchio del transatlantico, rimane l’unico aggancio con il passato e il futuro.

Non potrei evitare di raccontargli di un’estate intera a scrivere canzoni per una meteora che suonava il pianoforte e mi stringeva come mai più nessuna… E che aspettare a volte è più importante che arrivare. Che c’è un piacere profondo a perdere un treno, quando restare sembra così essenziale. E che dire delle notti passate in bianco? Gli occhi che fissano il soffitto. Il buio intenso che non consente alibi nè distrazioni. E dal profondo della nostra anima, tutti insieme pianti, urla, esplosioni disumane strappano il nostro cuore alla quiete dei nostri affetti sbiaditi. E si comincia a volteggiare in mezzo a scene stupefacenti, da Hyeronimus Bosch o giù di lì. Ditemi voi se questo è tempo sprecato, guadagnato, impiegato o sfruttato?

E qui bisogna parlare della nebbia. Perché il Tempo con un tramonto sul mare può sembrare roba facile. Invece un canale… nella nebbia. Val Padana o Plat Pays. Dove non vedi un tubo a due metri. E le ali si richiudono sconsolate. Come fai a decollare in mezzo a questo cotone? E sapere che a due passi c’è una casa che conosci a memoria; ma oggi questa casa è scomparsa. E non serve a niente correre, tanto la nebbia non è un animale nè una opinione. Si alza quando le pare. La nebbia trascina le nostre braccia verso terra finché diventano due pesi, che poi ci vuole troppa forza per portarle verso chissà quale grande traguardo. In questi casi, è normale avvicinarsi al canale. E’ normale andarci così vicino da vedere il proprio viso rispecchiato nell’acqua torpida e ferma. Vederci così come siamo. E allora la nebbia, il canale e il Tempo e… “E’ a primavera che nei canali si pescano le trote e gli annegati”, cantava Jacques Brel.

Sua Maestà il Tempo – non vorrei darne un’immagine falsa – è anche pazienza, lunga durata e compagno di strada. Il Tempo è giocatore di boules, fumatore di chilum, amatore di siesta, pantofolaro, grattatore di panza. E’ tiratore di reti, accompagnatore di capre, raccoglitore di funghi. Si alza per ultimo dalla panchina, lascia sempre passare il prossimo, si gusta fino in fondo il moscato appassito. Non contempla neanche per scherzo di essere spinto verso un traguardo immediato. Riconosce l’inganno, sa aspettare che la polvere si riposi per terra, non si fa abbagliare dai lampi. Il Tempo le ha già viste tutte…

Siamo noi che naufraghiamo. Quando gli amori sconfitti arrivano al capolinea e si va ognuno per la propria strada. Quando si tocca per mano l’incommensurabile baratro fra quello che volevamo essere e quello che siamo diventati. Quando la voglia di cambiare si è trasformata in necessità di adeguarsi. Quando si beve dal calice amaro della delusione, del rammarico e del rimpianto. Quando si spera fino all’ultimo che non finisca in guerra anche questa storia. Quando ci si rende conto che sì, è più facile conformarsi, ma che questo non semplifica niente. Quando si è soli e non ci voleva… Sono questi i momenti dove il Tempo tocca il nostro cuore. Sarebbe bello se riuscissimo poi a portare questa emozione con noi, come compagna di viaggio per affrontare i prossimi scogli del destino, ma anche le spiagge d’argento della nostra vita.

LA NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 5
S. Francesco, civiltà italiana

Arrivare ad Assisi di primo mattino, mentre la luce rosata dell’aurora ne lambisce le mura e le chiese: Assisi è un “paese dell’anima” per l’impronta che vi ha lasciato S. Francesco. Anche per questo Capitini la scelse come meta della prima marcia della pace (1961).

Quando cerchiamo le radici della civiltà italiana, dobbiamo venire nella cittadina umbra, permeata dallo spirito francescano. Il santo non solo compose uno dei primi documenti della poesia in volgare, il Cantico delle creature (I224-25), ma fu l’iniziatore di un rinnovamento spirituale popolare, al quale anche i massimi intellettuali del tempo: Dante e Giotto.

Il primo celebra il “poverello” nel canto XI del Paradiso (vv. 43-117); il secondo, coadiuvato da altri pittori, lo fa rivivere nei mirabili affreschi della Basilica francescana di Assisi e nella cappella Bardi in S. Croce a Firenze. Tra i tanti artisti che si ispirarono a S. Francesco, Benozzo Gozzoli intorno al 1452 ne illustrò la vita, in dodici scomparti, nella chiesa S. Francesco di Montefalco (PG), una delle “città del silenzio” cantate da D’Annunzio.

Neppure il Carducci si sottrasse al fascino del Santo:

………….

Su l’orizzonte del montan paese,

nel mite solitario alto splendore,

qual del tuo paradiso in su le porte,

Ti vegga io dritto con le braccia tese

Cantando a Dio – Laudato sia, Signore,

per nostra corporal sorella morte!

(S. Maria degli Angeli, dalle Rime Nuove)

I Fioretti di S. Francesco

Dalla vita e dalla predicazione di S. Francesco ebbe origine una folta letteratura, ora raccolta nell’ampio volume Fonti francescane (Edizioni Messaggero Padova, 1980, pp. 2827). Noi ci limiteremo a presentare con lievi ritocchi alcuni brani dai Fioretti, opera molto popolare per il candore e la freschezza della narrazione, la cui stesura dovrebbe aggirarsi tra il 1370 e il 1385. Non è un testo originale, ma l’autore, non identificato con certezza dagli studiosi, tradusse dal latino in parlata toscana una raccolta di Atti del beato Francesco e dei suoi compagni, formatasi tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento.

Dov’è perfetta letizia

Frate Leone con grande ammirazione gli domandò: – Padre, io ti

prego dalla parte di Dio che tu mi dica ove è perfetta letizia.

E santo Francesco gli rispose: – quando noi giungeremo a

Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati

per il freddo, e infangati di melma e afflitti di fame,

e picchieremo la porta del luogo, e il portinaio verrà adirato

e dirà: “Chi siete voi?”, e noi diremo: “Noi siamo due dei

vostri frati”, e colui dirà: “Voi non dite vero, anzi siete

due ribaldi che andate ingannando il mondo e rubano le elemosine

dei poveri, andate via”, e non ci aprirà, e ci farà

stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame,

infino alla notte, allora, se noi tante ingiurie e tanta

crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente senza

turbarci e senza mormorazione, e penseremo umilmente e

caritativamente che quel portinaio veracemente ci conosca, e che

Iddio lo faccia parlare contro noi: o frate Leone, scrivi

che ivi è perfetta letizia (cap. VIII).

La predica agli uccelli

La sostanza della predica di santo Francesco fu questa:

Sorelle mie uccelli, voi siete molto debitrici a Dio, vostro

Creatore, e sempre e in ogni luogo lo dovete lodare, perché

v’ha dato il vestimento duplicato e triplicato; poi v’ha

dato libertà di andare in ogni luogo, e anche riservò il seme

di voi nell’arca di Noè, affinché la specie vostra non venisse

meno al mondo.

Ancora, gli siete debitrici per l’elemento dell’aria, che Egli

ha destinato a voi. Oltre a questo, voi non seminate e non

mietete, e Iddio vi pasce, e vi dà i fiumi e le fonti per

vostro bere, vi dà i monti e le valli per vostro rifugio

e gli alberi alti per fare il vostro nido. E benché voi non

sappiate filare né cucire, Iddio vi veste, voi e i vostri

figlioli. Onde, molto v’ama il Creatore, poi ch’Egli vi fa

tanti benefici; perciò guardatevi, sorelle mie, dal peccato

della ingratitudine, ma sempre studiatevi di lodare Dio.

(cap. XVI)

Un giovane donò tortore e santo Francesco

Un giovane avea prese un dì molte tortore e le portava

a vendere. Iscontrandosi in lui santo Francesco, il quale

sempre aveva singolare pietà per gli animali mansueti,

guardando quelle tortore con l’occhio pietoso, così disse

a quel giovane:- O buon giovane, io ti prego che tu mi

dia codeste tortore, affinché uccelli così mansueti e

innocenti, ai quali nella santa Scrittura sono assomigliate

l’anime caste e umili e fedeli, non vengano alle

mani dei crudeli che le uccidano.

Di subito colui, ispirato da Dio, tutte le diede a

santo Francesco; ed egli, ricevendole in grembo,

cominciò a parlare loro dolcemente:- O sorelle mie tortore,

semplici, innocenti e caste, perché vi lasciate pigliare?

Or’è ch’io vi voglio scampare dalla morte, e vi farò i

nidi a ciò che voi facciate frutto, e vi moltiplicate

secondo il comandamento di Dio vostro creatore.

E va santo Francesco, e a tutte fece il nido, ed esse

Cominciarono a fare uova e a figliare, innanzi ai frati;

e così domesticamente stavano e usavano con santo Francesco

e con gli altri frati, come se fossero state galline, sempre

nutrite da loro. E mai non si partirono, finché santo

Francesco, colla sua benedizione, diede loro licenza di

partirsi.

(cap. XXII)

NOVITA’ EDITORIALE DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Le periferie della memoria Profili di testimoni di pace

di Sergio Albesano

“Questa è l’ultima atroce guerra del mondo!” Così confidava Ernesto Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace nel 1909, poco prima di morire, riferendosi alla prima guerra mondiale. L’idea che si possa combattere la guerra definitiva, che porti come conseguenza una pace duratura ed eterna, si ripresenta ad ogni generazione e ogni volta si rivela per quel che è: una tragica illusione. Soltanto le armi termonucleari che oggi l’uomo dispone possono condurre ad una guerra terminale, alla quale non ne seguiranno altre, poiché non rimarranno uomini per combatterle. Duemila anni di storia avrebbero dovuto insegnare che il precetto latino Si vis pacem para bellum è un grave errore, perché se si desidera la pace l’unico modo per ottenerla è preparare la pace. Non è possibile, infatti, costruire qualcosa di bello e di positivo con metodi sbagliati: se si coltiva un roveto si otterranno soltanto spine; se si desidera avere frutti buoni è indispensabile piantare e curare l’albero appropriato. Come affermava Gandhi, il fine e i mezzi sono uniti da un vincolo strettissimo, nello stesso rapporto che corre fra il seme e la pianta che germoglierà. Se ci poniamo la meta di costruire il futuro e di investire nella profezia, allora dobbiamo essere consapevoli che la violenza genera odio e che una guerra ne produce altre.

La citazione iniziale è tratta dal libro Le periferie della memoria, un’opera collettiva che raccoglie le biografie di alcuni personaggi che hanno contribuito a costruire in Italia, dall’Unità ad oggi, la storia dell’opposizione alla guerra. Si tratta di un’operazione interessante, anche perché all’interno del movimento nonviolento non esiste una grande attenzione verso il proprio passato storico e ciò è senza dubbio un errore. I militari, al contrario, sono molto attenti alla loro storia e la studiano con cura, anche se spesso la distorcono con le armi della retorica. I nonviolenti, invece, in genere sono poco coscienti dell’importanza che ha il passato per comprendere il presente e per impostare il futuro. Questo libro si pone dunque in controtendenza e ha il compito, fra l’altro, di risvegliare una corrente di studi storici che è un po’ assopita e cioè quella che riguarda la storia dell’antimilitarismo.

Parliamo di studi storici, perché questo volume, nonostante la maggior parte degli autori si rispecchi nelle idealità della nonviolenza, non è un testo di militanza, ma una ricerca che ha utilizzato la metodologia scientifica della ricerca storica.

I personaggi di cui si è analizzata la biografia sono Ezio Bartalini, Tonino Bello, Andrea Caffi, Umberto Calosso, Aldo Capitini, Carlo Cassola, Remigio Cuminetti, Alex Langer, Giorgio La Pira, Gabriele Moreno Locatelli, Italo Mancini, Edmondo Marcucci, Joseph Mayr-Nusser, Ernesto Teodoro Moneta, Maria Montessori, Guido Plavan, Domenico Sereno Regis, Gracco Spaziani, Luigi Sturzo, Franz Thaler, Emma Thomas e Tullio Vinay.

Certamente esistono molti altri nomi che si sarebbe potuto prendere in considerazione, ad esempio Lorenzo Milani e David Maria Turoldo. Ma Le periferie della memoria non vuol essere un’enciclopedia completa e definitiva sul paesaggio della nonviolenza italiana, quanto piuttosto un episodio iniziale e uno stimolo affinché altri studiosi continuino il lavoro iniziato, coscienti dell’importanza di tramandare la memoria storica di coloro che ci hanno preceduto e che, grazie al loro comportamento, ci hanno permesso di raggiungere un livello più elevato di civiltà.

Tra le biografie analizzate, ci sono persone che sono state limpidamente nonviolente per tutta la loro esistenza, come Aldo Capitini, e altre che invece hanno vissuto momenti alterni e che però, in un preciso periodo della loro vita, si sono schierate contro la guerra. Il compito degli autori è stato quello di analizzare le loro esistenze, evidenziando anche le contraddizioni che hanno vissuto. Appaiono così ai nostri occhi non persone eccezionali, maestri ammirabili ma non imitabili, ma piuttosto donne e uomini che hanno commesso errori, che sono state tentate, che hanno sofferto per le loro scelte. Dunque esempi che possono essere proposti e strade di vita che possono essere ripercorse. Raccogliere l’esempio di questi testimoni di pace e proseguire il loro impegno di vita è la via per far uscire definitivamente la guerra dalla storia dell’umanità.

Nel testo sono mischiate biografie di personaggi noti, come Giorgio La Pira, ad altre di persone completamente sconosciute. Nel caso di quest’ultime si tratta di uomini che hanno lottato contro la guerra e che hanno sofferto per le decisioni assunte. Ma il loro ricordo rischia di andare perduto per sempre, se noi, storici di questa generazioni, non andremo ad estrarle dalle periferie della memoria dove sono confinate e non le riporteremo al livello della consapevolezza collettiva.

Scorrendo l’elenco dei personaggi trattati, si evidenzia inoltre la presenza di persone provenienti da aree culturali e di pensiero eterogenee. Accanto a cattolici, quali Tonino Bello e Luigi Sturzo, stanno laici, testimoni di Geova (Remigio Cuminetti) e pastori protestanti (Tullio Vinay). E’ questo il sintomo che l’opposizione alla guerra non è prerogativa specifica di una religione o di una filosofia, ma è una speranza radicata in tutti gli uomini di buona volontà.

Trattandosi di un’opera scritta a più mani, nel leggerla risultano evidenti le differenze di stile fra i diversi autori. Questa mescolanza di scritture è un’ulteriore ricchezza del libro e potrà agevolarne la lettura, proprio come in un’orchestra gli strumenti sono molti e con timbri differenti l’uno dall’altro, ma ognuno concorre a costruire la melodia, l’armonia e il ritmo del brano musicale.

Una volta raccolti i diversi interventi, il testo è stato proposto a ventisei case editrici, ottenendo altrettanti rifiuti. Il lavoro stava rischiando di finire dimenticato in un cassetto, quando, grazie ad alcuni finanziamenti, si è resa possibile la sua pubblicazione. Nessuno dei ventisei editori contattati ha avuto il coraggio di rischiare su un’opera scientifica che ha la sua ragione di esistere nel panorama dell’editoria italiana. L’aiuto economico è giunto dal Movimento Nonviolento (M.N.), dal Centro Studi Sereno Regis di Torino e dalla Federazione di Torino dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (A.N.N.P.I.A.). Questo testo, però, pubblicato artigianalmente da una tipografia, non avrà diffusione e sarà privo di pubblicità. Dunque la conoscenza della sua esistenza e la possibilità di acquistarlo e di leggerlo sarà circoscritta ad un ambito limitato. E’ un peccato che un volume di tale valenza venga a sua volta confinato nelle periferie della memoria dell’editoria italiana. Ma questa è la realtà con cui ci dobbiamo confrontare, dove le sciocchezze scritte da un cabarettista qualunque vendono migliaia di copie, mentre un testo come questo non apparirà mai sui banconi delle librerie.

Come scrivevamo più sopra, i personaggi di cui si è trattato non sono eroi, ma donne e uomini che nella loro vita hanno compiuto qualcosa di ripetibile per contrastare la guerra e la sua preparazione. E’ proprio nel fatto che si tratta di esperienze ripetibili che sta la loro forza. Gandhi rifiutava di essere presentato come un santo e diceva sempre di essere una persona normale, che ha compiuto gesti che chiunque altro può fare. I protagonisti di questo libro sono persone normali, che hanno fatto cose alle quali anche noi siamo chiamati. Il rifiuto della guerra è antico forse quanto la guerra stessa; ma la guerra è ancor oggi una tragica realtà. Le biografie che vengono presentate appartengono a persone che nella loro vita hanno preferito non mettersi al centro, sotto i riflettori, ma agire fuori dal clamore. Sono persone che hanno in comune la scelta di agire non per se stesse, ma per far crescere una coscienza comune contro la guerra, perché la civiltà umana progredisce con la pace e arretra con la guerra. Perciò i fautori della pace, quanti per essa si sacrificano, sono benefattori dell’umanità e devono essere ricordati per gratitudine e per ammaestramento dei giovani. A ciascuno dei personaggi presi in esame si addice il motto di Orazio Non omnis moriar (Non morirò interamente), perché di quanto hanno fatto rimane una memoria che con questo libro si è cercato di attestare e di tramandare.

Il volume vede la luce proprio quando una nuova guerra si è scatenata alle porte di casa nostra e ci vede protagonisti attivi. Per molti italiani si è ripresentato il dilemma di come agire di fronte alla prepotenza di uno Stato aggressivo. Cercare con difficoltà e sofferenza una strada di pace costruita con la nonviolenza oppure intervenire con la forza delle armi per difendere popolazioni inermi? La decisione più logica e pratica sembra la seconda, ma la tragedia di un’illusione che sembra portare la pace e che in realtà perpetua la guerra ci viene rammentata dalle parole di Ernesto Teodoro Moneta riportate all’inizio dell’articolo. L’esperienza storica dimostra che la costruzione di una pace duratura, nella quale popolazioni di etnie diverse abbiano la capacità di convivere, si può attuare soltanto con mezzi nonviolenti. L’uccisione di migliaia di uomini, così come la deportazione e lo sterminio di un popolo, non potranno che generare nuovo odio e porre le basi per la guerra prossima ventura.

Concludiamo riportando le parole finali della presentazione al volume, in cui si spiega quali sono i destinatari della fatica degli autori: “Certamente questa è stata un’esperienza coinvolgente, ma non abbiamo scritto questo libro per noi. Non l’abbiamo fatto per i nostri amici o per le persone che condividono i nostri ideali. Non l’abbiamo scritto neppure per coloro che leggeranno il nostro lavoro. L’abbiamo scritto per te, solo per te che in questo momento scorri queste righe. (…) Perché tu conosca e mediti.”

Autori Vari, Le periferie della memoria, Coedizioni ANPPIA e Movimento Nonviolento, Torino-Verona, 1999, pag. 180, L. 10.000

Per acquisti rivolgersi direttamente ad Azione nonviolenta (via Spagna 8, 37123 Verona, tel 045 800 9803, fax 045 800 92 12, azionenonviolenta@sis.it : il librò verrà inviato in contrassegno.

Poiché l’opera è priva di diritti d’autore, il prezzo di copertina è stato contenuto a £ 10.000, per poterne permettere la diffusione anche fra gli studenti.

PREMIO ALEXANDER LANGER 1999
Ding Zilin e Jang Peikun
La memoria di Tienanmen

Sarà assegnato ai coniugi cinesi Ding Zilin e Jiang Peikun il premio internazionale Alexander Langer 1999. Dopo l’algerina Khalida Messaoudi e le rwandesi Yolande Mukagasana e Jacqueline Mukansonera il premio incrocia il grande tema dei diritti umani e della democrazia in Asia, mentre ricorre il decimo anniversario dei tragici eventi della Tiananmen. A Pechino (secondo un rapporto interno della Pubblica Sicurezza filtrato solo nel 1996), ci sarebbero stati 623 morti e 11.570 feriti tra i civili, 45 morti e 6240 feriti tra i militari. Ma ci sarebbero stati morti – fino a raggiungere la cifra complessiva di 931 – anche a Chengdu, Wuhan, Guiyang, Harbin, Zhengzhou, Lanzhou. Tuttavia. Queste cifre sono ancora ritenute gravemente errate per difetto dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, che hanno parlato di migliaia di vittime.

Ding Zilin, un’assistente di filosofia all’Università di Pechino perse in quella notte fatale un figlio di 17 anni. Pochi giorni dopo, con l’aiuto del marito Jiang Peikun, anch’egli professore di filosofia, iniziò un’opera difficile e dolorosa: rintracciare i familiari delle vittime, compresi i mutilati e gli invalidi; farne una sorta di catalogo per tenerne viva la memoria negata.

In questa opera paziente, Ding Zilin è aiutata, oltre che da suo marito, da un piccolo gruppo di volontari dell’associazione Human Rights in China. Impossibilitati a raggiungere Bolzano per la cerimonia di annuncio ufficiale che è prevista il 2 luglio 1999, nell’ambito di “Euromediterranea”, i coniugi hanno chiesto di essere rappresentati dal vice-presidente dell’associazione Xiao Qiang, che vive a New York.

IL BOICOTTAGGIO CONTINUA
Anno Santo 2000 marchiato Nestlè

di Paolo Macina

Il 1998 è stato un anno difficile per Nestlé Italia, non solo per la contrazione dei consumi delle famiglie italiane: la sua sede è stata assaltata due volte, da Greenpeace e dai verdi per protestare contro l’uso sregolato delle manipolazioni genetiche; i suoi panettoni hanno subìto il sabotaggio dell’Animal Liberation Front, che gli analisti finanziari hanno valutato in 100 milioni di franchi svizzeri di perdita; e la campagna di boicottaggio Baby Milk Action, sezione italiana della IBFAN internazionale, ha colpito diversi tentativi di migliorare l’immagine della multinazionale svizzera con sponsorizzazioni di eventi nazionali. A partire da quest’anno e contrariamente all’anno scorso, i festival del cinema di Torino, Venezia e Giffoni non avranno più la contestata etichetta sui dépliant pubblicitari, così come la casa editrice Piemme non regalerà più merendine Nestlé a chi acquista uno dei suoi libri per ragazzi.

Al colosso del cioccolato non è andata meglio in Gran Bretagna, dove il partito dei liberaldemocratici ha deciso di aderire al boicottaggio e l’antitrust l’ha obbligata a ritirare un’inserzione pubblicitaria ritenuta eticamente non corretta. La protesta si diffonde sempre più rapidamente, a cinque anni dall’avvio, favorita dalla testardaggine della azienda elvetica che si ostina a negare ogni addebito sulle violazioni al codice di condotta OMS sul commercio del latte in polvere nei paesi in via di sviluppo. Non sono bastate altre 23.000 firme di protesta recapitate personalmente lo scorso anno dai responsabili della campagna, e che verranno raccolte anche quest’anno dalle associazioni aderenti: chiusa in un ostinato mutismo, la multinazionale rifiuta di partecipare ad incontri pubblici per chiarire le sue opinioni, non riconosce l’esistenza di una larga protesta contro di lei, men che meno cerca di capire le ragioni della campagna, discostandosi così dal comportamento tenuto per esempio da Nike, Benetton e Chicco, altre aziende oggetto di pressione a causa della loro condotta nei paesi in via di sviluppo.

Proprio per questo la campagna inaugurerà il quinto anno di battaglia, cercando fra le altre cose di convincere il comitato centrale del Grande Giubileo, organo della Santa Sede, a non accettare tra le imprese che si occuperanno della ristorazione dei pellegrini proprio la multinazionale rossocrociata. Già lo scorso anno il Cardinale Andreatta aveva inviato una lettera di scuse al portavoce della campagna per aver sottovalutato la sponsorizzazione Nestlé durante il pellegrinaggio a Parigi. Ma se errare è umano, perseverare sarebbe diabolico, ed il fatto non gioverebbe sicuramente a degli uomini di chiesa.

Chi volesse cercare ulteriori informazioni può reperirle al web ufficiale della campagna: www.peacelink.it/nestle.html
Guida pratica al boicottaggio

Il primo passo per aderire alla campagna di boicottaggio contro la Nestlé è quello di impegnarsi a non comprare Nescafè e Nesquik. Nescafè è il prodotto simbolo della multinazionale e per questo è boicottato in tutto il mondo; Nesquik è stato scelto per la campagna italiana viste le scarse vendite del Nescafé.

Ogni persona poi, può impegnarsi a seconda della propria disponibilità e sensibilità:

estendendo il boicottaggio ad amici, conoscenti ecc.;

spedendo una lettera alla Nestlé che esprima il vostro dissenso verso le strategie della multinazionale; fino a quando non si adeguerà al Codice Internazionale;

boicottando anche gli altri prodotti che appartengono alla multinazionale;

spedendo lettere di protesta ad enti, associazioni e giornali che si fanno sponsorizzare dalla Nestlé (chiederne una copia alla segreteria organizzativa RIBN);

se siete un’associazione o un gruppo, promuovendo la campagna sul territorio (è disponibile la lista dei gruppi locali che lo fanno già), con volantinaggi, banchetti informativi, spettacoli di piazza, articoli su giornali e riviste ecc., nel rispetto della legge, e/o con il monitoraggio del rispetto del Codice.

I singoli, le associazioni e i gruppi che sono interessati ad aderire al boicottaggio possono iscriversi alla RIBN, in modo da essere sempre aggiornati sugli sviluppi della campagna. I gruppi che non vogliono aderire, ma attuano il boicottaggio, sono comunque pregati di fornire il loro indirizzo alla segreteria. L’adesione alla Rete è caratterizzata da quattro aspetti:

1. consenso politico alle finalità e agli strumenti propri della Campagna di boicottaggio;

2. apporto organizzativo, o semplice sostegno economico e consenso politico;

3. quota di partecipazione (L. 10.000 per gli individui, L. 30.000 per le organizzazioni locali, L. 100.000 per quelle nazionali, regionali e le ONG);

4. accettazione dello statuto.

La segreteria della RIBN è presso SCI Servizio Civile Internazionale, Via G. Cardano 135, 00146 Roma, tel/fax 06 55 85 26 8 , posta elettronica pona@casaccia.enea.it

APPELLO DEI PICCOLI EDITORI
AN in ritardo? Disservizio postale!

Tanti lettori, specialmente al centro e sud Italia, ricevono Azione nonviolenta con clamorosi ritardi, che spesso rendono superate molto notizie. La responsabilità è unicamente di inaccettabili disservizi postali. Per questo ci associamo alla denuncia dell’Unione Stampa Periodica Italiana.

Denuncia dell’USPI

Sul disinteresse governativo ai veri problemi dell’editoria

La riforma del servizio postale è un impellente obbligo del Governo.

La sperimentazione, approvata senza il necessario intervento di riforma sulle Poste Italiane, non solo non avrà alcun utile risultato, ma produrrà nuovi e ulteriori “guasti” per i piccoli e medi editori.

Prima della sperimentazione, sarebbe stato doveroso per il legislatore porre rimedio ad una situazione di degrado del servizio postale indegna di un paese civile.

In attesa dell’avvio (e delle ripercussioni sul mercato) della sperimentazione, ennesima dimostrazione di malgoverno del settore editoriale, l’Unione Stampa Periodica Italiana, rappresentativa di oltre 4000 testate, denuncia per l’ennesima volta lo stato di degrado delle Poste Italiane S.p.A., che rende impossibili la sopravvivenza e lo sviluppo della piccola e media editoria .

I servizi postali, nel nostro paese, non sono paragonabili neanche lontanamente a quelli dei paesi più evoluti . Nel regno Unito, ad esempio, il 93% delle testate viene distribuito in abbonamento postale. Nel nostro paese questo mezzo viene usato soltanto per il 7%. Le cause di tale condizione sono da ricercare nella assoluta inadeguatezza del servizio, con ritardi epocali, quando le riviste arrivano a destinazione, e con costi esagerati rispetto alla qualità.

La legge sulla sperimentazione avrebbe dovuto, necessariamente, rappresentare l’occasione di una riforma totale del servizio di distribuzione, e quindi anche di quello postale. Tutto ciò non si è verificato e, anzi a partire dal 1 gennaio del 2000 verranno completamente riformulate anche per l’art.41 della Finanziaria 1999, le agevolazioni tariffarie per le pubblicazioni periodiche. Tutto ciò produrrà un immediato rincaro del 150% per ottenere poi a posteriori, un rimborso assolutamente incerto con quali conseguenze per l’editoria medio-piccola è facile immaginare.

Se questa è la politica di un Governo attento alle libertà dei cittadini …
Chi va piano…(…arriva tardi)

Alla Direzione di Filiale delle Poste Italiane s.p.a.

86100 Campobasso

Alla Direzione Generale Poste Italiane s.p.a.

00144 Roma

OGGETTO: mancato o ritardato recapito del periodico mensile “Azione Nonviolenta”.

Con riferimento alla trascorsa corrispondenza, e in particolare alla nota del Direttore del C.P.O. di Campobasso Dr. M. Forni, Prot. n. 3366 del 20/04/1999, Informo le SS.LL. che il disservizio segnalato è continuato e continua ancora mentre Le scrivo. In dettaglio:

verso la fine di marzo mi è pervenuto il numero relativo a gennaio-febbraio spedito il

19/02/1999; circa 30 giorni;

il 3 maggio mi è pervenuto il numero di marzo, spedito il 22/03/1999; totale 42 giorni;

da accertamenti telefonici presso la redazione/amministrazione il numero di aprile risulta spedito entro il giorno 5, e “ovviamente” non è ancora arrivato

Colgo l’occasione, nel caso non fosse stato notato, che la rivista riporta la data di spedizione nell’etichetta del destinatario.

Risulta evidente che il tempo medio di viaggio è del tutto inammissibile.

Informo che mi vedo costretto ad attivarmi per rivendicare i miei diritti palesemente violati e per quantificare i danni ricevuti.

Castropignano, 5 maggio 1999

Prof. Piergiorgio Acquistapac

Il postino suona sempre 2 volte

Finalmente una buon notizia! Dopo il carteggio che abbiamo riportato, per la prima volta in dieci Piergiorgio Acquistapace il 23.5.99 si è visto recapitare a casa Azione nonviolenta di maggio, dopo solo una settimana dalla spedizione (18.5.99).

E’ la prova che la protesta e l’insistenza nonviolenta vengono premiate. Invitiamo i molti lettori che si lamentano con noi per il ritardo con cui ricevono la rivista ad aiutarci nel miglioramento del nostro lavoro seguendo l’esempio di Acquistapace: prendete carta e penna e scrivete alle Poste. Pretendiamo semplicemente il rispetto di un servizio che paghiamo!

Lettera aperta a Fausto Bertinotti

Nessuno può permettersi di appropriarsi della storia, del significato, della tradizione della Marcia Perugia-Assisi che Aldo Capitini, laico, nonviolento, per primo organizzò nel lontano 1961!

Caro Bertinotti, neppure a te è permesso e se ci fosse ancora Aldo Capitini ne sarebbe profondamente disgustato perché la pace è troppo importante per diventare “merce” di scambio per rientrare nei giochi della politica, e questa tragica guerra ci deve solo interrogare e non farci “apparire” davanti ai “media” come attori di uno spettacolo carico di morte!

Ma perché questa premessa? Perché sono profondamente indignato dell’uso “strumentale” che tu, caro Bertinotti hai fatto durante la marcia “straordinaria” per la pace nel Kosovo.

Bene ha fatto l’inviata de La Stampa (17/5/99) a riferire che “Fausto Bertinotti, il politico più famoso e festeggiato della marcia (apparso all’indomani su buona parte dei media quasi fosse la marcia organizzata da Rifondazione Comunista!) in verità la marcia non l’ha fatta. E’ saggiamente arrivato ad Assisi in auto con la moglie Lella e il fido Alfonso Gianni, si è piazzato un’ora e mezza a mangiare al ristorante … poi quando è arrivato il corteo, ha fatto cinquecento metri (su 23 Km. fino alla porta della città, ha aspettato prendendo un caffè al bar, e nell’ultimo chilometro si è unito ai marciatori “Laura Rodotà).

Questa è la cronaca vera di quello che è successo: lo posso testimoniare, perché come migliaia di persone io la marcia l’ho fatta tutta, e per la pace cammino da molti anni in tempi non sospetti quando come nonvolentieri e obiettori di coscienza le merce eravamo costretti a farle dentro i cortili delle carceri militari!!

La Perugia-Assisi è la marcia della gente, del popolo della Pace, come soleva chiamarla il compianto Padre Ernesto Balducci : domenica 16 maggio 1999 è stata la marcia delle famiglie, angosciate da questa tragica guerra, persino dei molti bambini sui loro passeggini e con i loro biberon, sotto il sole, degli scouts, dei preti, delle suore, dei giovani e dei meno giovani, dei gonfaloni degli Enti locali di tutta Italia, insomma di tutti loro che pensano che la guerra è un’avventura senza ritorno, che la Pace è il diritto più grande, assieme a quello della Vita.

E questa marcia “straordinaria” voleva dire al mondo, ai capi di Stato, ai militari che il popolo della pace è dalla parte delle vittime della guerra, di tutte le vittime, a prescindere da fede, razza e quant’altro.

A nessuno si chiede di marciare per 23 chilometri: “a ognuno di fare qualcosa” diceva Aldo Capitini, ma la marcia non può essere un teatrino mediatico che della Rai né di Mediaset al quale, caro Bertinotti, sembri essere più affezionato.

Si marcia perché siamo operatori di pace, perché non conosciamo né guerre umanitarie né bombe etiche perché vogliamo simboleggiare con la nostra fatica, con il nostro silenzio la fraternità tra i popoli.

Le bandiere di partito, a cui riconosciamo importanza, alla Perugia-Assisi hanno sventolato sempre con discreta presenza: domenica invece le rosse bandiere di Rifondazione; i servizi d’ordine, il telefonino del fido Alfonso Gianni sono apparse stonate, anzi mi hanno indignato. Stonavano con il sudore e la fatica che il prato della Rocca di Assisi ha saputo accogliere con generosità, avvolta dai colori dell’Arcobaleno.

Altri uomini politici, rappresentanti di partiti, di forze sociali sindacali hanno partecipato: è stata importante la loro presenza e volevamo che ci fossero ieri come oggi e in futuro, ma nessuno ha cercato di far credere che era la “sua” marcia.

Per me tacere sarebbe come non vedere, non aver sentito, e assecondare comportamenti che non hanno nulla da condividere con la metodologia nonviolenta, quella della partecipazione, della condivisione della discrezione e della riflessione!

Alberto Trevisan

Rubano (PD)
Il CAI e gli obiettori

Al direttore dello Scarpone, Milano

Al presidente della sezione CAI, Padova

Egr. Direttore,

solo adesso ho avuto modo di leggere l’articolo sullo Scarpone di Marzo 99 che parla delle proteste antimilitariste di alcuni soci del Veneto per la posizione del CAI in merito all’impegno del CAI nel reclutare soldati. Come Lei ricorderà, nel febbraio dell’anno scorso protestai e dissi che non avrei più rinnovato l’iscrizione al CAI se non ci fosse stato un chiarimento in merito a questa iniziativa del CAI, non discussa nelle sedi opportune. Non essendo successo nulla, non ho rinnovato l’iscrizione, pertanto non ricevo più lo Scarpone e questo è il motivo per cui le scrivo adesso.

Lei mi scrive che ero l’unico a protestare e si rifiutò di pubblicare alcunché. Adesso, da questo articolo apprendo di non essere più solo. Del resto questa solitudine non mi dava fastidio: confidavo che, col tempo, questa mia posizione solitaria avrebbe potuto essere condivisa da altri .

Questo glielo scrissi nella seconda lettera e vedo che questa previsione si è puntualmente avverata .

Trovo invece profondamente ipocrita e falso questo passaggio dell’articolo:

“alcuni di loro hanno chiesto che la loro posizione fosse resa nota sulle colonne dello Scarpone . Non abbiamo difficoltà a farlo”

Ma come? Pubblica questo trafiletto dopo più di un anno dalla mia richiesta? E’ questo il modo in cui si rispettano le idee politiche dei soci? O non è piuttosto il modo per censurarle!

Inoltre non dice che almeno due soci non si sono limitati a “protestare” ma hanno restituito la tessera sociale! Altra notizia da non pubblicare.

In ogni caso adesso l’Italia è in guerra. Quindi il suo giudizio su “questa inutile” polemica alla quale non dare spazio sul giornale potrebbe anche in questo caso essere sbagliato.

L’Italia infatti non è scesa in guerra per difendersi, né sta partecipando ad una guerra su mandato dell’ONU, infine i trattati della NATO non prevedevano la guerra di aggressione, né la tutela dei diritti umani (che vanno difesi sì, ma certamente non con le bombe). Quindi, caro Valsesia, questa è una guerra illegittima e di aggressione: esattamente quello che io temevo e che si è puntualmente avverato.

Non mi sembra che come direttore di giornale Lei stia facendo un gran servizio né alla verità né alla pace. Distinti saluti.

Sergio Bergami – Padova
Mediaset e i militari

Gentile Signor Direttore,

scusi se la disturbo ma, nel caso che la notizia sia sfuggita ai Suoi redattori, mi permetto di metterla al corrente di un fatto.

Ogni domenica il Canale Cinque, alle ore 9, trasmette una rubrica religiosa (“Frontiere dello Spirito”) che consiste in una lezione-lettura tenuta da monsignor Gianfranco Ravasi, prefetto dell’Ambrosiana. Di seguito, regolarmente, si può assistere poi ad un notiziario cattolico, a cura di Maria Cecilia Sangiorgi.

Domenica 16 maggio 1999 – Ascensione – il Notiziario è consistito in una serie di commenti e interviste riguardanti il Primo Sinodo Nazionale dei Militari o Soldati Cattolici Italiani.

La rubrica ha fatto sfoggio di Cappellani Militari, compreso il Vescovo-Generale Ordinario, ed ha fatto risaltare la ferma Fede Cattolica di Ufficiali e Soldati, tuttora assoldati, e tutti ben pagati, per fare il loro mestiere e missione.

Si è avuta la visione di cerimonie e sante Messe con partecipazioni di plotoni e compagnie in armi; si sono potuti ammirare molti Generali e Ammiragli compunti e commossi, e Ufficiali e Inferiori con rispettive famiglie, e inchini e bei gesti e canti sacri. Un mio amico maligno ha sentito anche qualche ‘Alalà’.

Se da un lato mi è parso molto positivo che le Forze Armate siano un complesso formato da ferventi Cattolici, da un altro punto di vista sono preoccupato per il povero don Lorenzo Milani.

Egli si agita di sicuro, là nel suo posto, non so se in Purgatorio o in Paradiso (escluderei l’Inferno), benevolmente consolato, forse, e tenuto a freno, da qualche altro Santo: tanto più che domenica prossima – Pentecoste – è annunciata una seconda puntata sull’argomento.

C’è timore che si scoprano le tombe degli amici di don Lorenzo.

Gino Moro – Bologna

Pax Christi e la Chiesa militare

Il Consiglio Nazionale di Pax Christi, riunito a Firenze il 15 maggio 1999 esprime profondo sconcerto di fronte alle recenti dichiarazioni dell’Ordinario Militare in occasione del I Sinodo della “Chiesa Militare”: “Voglio sia chiaro a tutti il dramma degli uomini che guidano i bombardieri – ha affermato mons. Mani – e sanno che la loro azione, fatta per la pace, può uccidere vite umane: nessuno pensi che questi uomini fanno il loro dovere a cuor leggero”. E, ancora: “…la guerra è sempre ingiusta. Purtroppo, pero’, a volte è inevitabile”.

Oggi più che mai, ci chiediamo come si possa conciliare l’opera di militari impegnati a favore di popolazioni strappate dalla propria terra con l’intervento di altri militari, dello stesso esercito e della stessa nazione, che produce situazioni di disperazione, sofferenza e morte.

Ci sembra sia un tentativo impossibile di ‘tenere il piede in due staffe’.

Non possiamo accettare che la guerra sia definita “sempre ingiusta” e poi ritenuta “inevitabile”.

Se tutto questo ci sembra così lontano da una logica umana, come e possibile conciliarlo con la ‘profezia evangelica’? La Chiesa non è chiamata ad essere il sale ed il lievito? Non ci è chiesto di essere ‘nel’ mondo ma non ‘del’ mondo? E’ motivo sufficiente per orientarsi verso una diversa modalità nella soluzione dei conflitti. E’ la chiara indicazione che emerge dalla coscienza di tanti uomini e donne che hanno abitato questa seconda metà del secolo. E’ lo stesso cammino che ci ha permesso di giungere come società civile a scrivere la Carta delle Nazioni Unite e la solenne Dichiarazione dei Diritti Umani e, come comunità ecclesiale, al superamento dei tanti “distinguo” sulla guerra giusta e ingiusta per arrivare alle chiare dichiarazioni di Pio XII (Natale 1955), di Giovanni XXIII (Pacem in Terris), al grido di Paolo VI all’ONU (jamais plus la guerre!) ed alla voce alta, commossa e forte di Giovanni Paolo II, quasi ogni giorno nell’attuale drammatica vicenda.

Da tempo Pax Christi pone al proprio interno e alla Chiesa italiana il problema del ruolo dei Cappellani Militari, nella convinzione che la pur necessaria condivisione di vita che il Cappellano deve avere con i giovani affidati alle sue cure più efficacemente potrebbe essere svolta da sacerdoti “senza stellette”, cioè non inquadrati nelle gerarchie delle Forze Armate, sia per una maggiore libertà nell’annuncio evangelico, sia per una più chiara distinzione dei ruoli di fronte all’opinione pubblica.

Anche alla luce dell’appello del Papa a ‘disertare i laboratori di morte’ e del recente invito dalla Romania a compiere ‘gesti profetici’ ci sembra attuale quanto scriveva don Milani nel 1965: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto” (Lettera ai Giudici).

Pax Christi Bisceglie (BA)

Di Fabio