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Azione nonviolenta – Maggio 1998

DiFabio

Feb 7, 1998

Azione nonviolenta maggio 1998

– La nonviolenza sui banchi di Montecitorio, di Mao Valpiana
– L’Islam, la violenza, l’occidente, di Enrico Peyretti
– Restituire alla gente la coscientizzazione nella pratica della libertà, di Paolo Macina
– La vita di Paulo Freire, di Gabriele Colleoni
– Vivere la nonviolenza
– Gli aforismi sullo yoga, di Claudio Cardelli
– Ancora a rischio la riforma della 772, di Stefano Guffanti

 

RIFORMA DELLA LEGGE 772
La nonviolenza di Montecitorio

di Mao Valpiana

Il movimento degli obiettori attende la riforma della legge 772 da almeno 25 anni. Dal giorno stesso in cui fu approvata nel dicembre del 1972. Azione nonviolenta (nov-dic. 1972) diede la notizia del voto parlamentare con il titolo “Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza” ed illustrò nel dettaglio tecnico i limiti del testo legislativo da migliorare. Dopo un quarto di secolo, ed inenarrabili vicende parlamentari, il nuovo testo è approdato alla Camera per l’approvazione definitiva. Il dibattito è iniziato il 24 marzo: mentre in Piazza gli obiettori innalzavano striscioni e cartelli, in Aula i deputati discutevano articoli ed emendamenti.

Ci piace riportare qui gli stralci salienti del dibattito sul subemendamento numero 0.8.500.59 (presentato da mia sorella Tiziana, deputata ed iscritta al M.N.) tendente a sostituire le parole “non violenta” con la parola “nonviolenta” (all’art. 8, punto 2, comma e dove si dice che, tra gli altri compiti, l’Agenzia per il servizio civile deve predisporre forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e non violenta).

Lasciamo la parola agli onorevoli.

Maurizio GASPARRI (Alleanza nazionale): “Vorrei capire, tra di noi ci sono molti docenti e professori universitari, da dove nasce la parola nonviolenta…E’ arrivato anche il Ministro Andreatta, che è un docente qualificato e stimato: vorrei capire le ragioni non solo della presentatrice del subemendamento, ma anche del governo che mi pare su di esso abbia espresso un parere favorevole. Io sono contrario non solo al subemendamento, ma anche alla violenza nei confronti della grammatica, dell’italiano, dei dizionari”.

Tiziana VALPIANA (Rifondazione comunista): “Il collega Gasparri, pur se ignora che la parola nonviolenza nella prassi della lingua italiana si scrive attaccata, non ignorerà senz’altro che questo termine è la traduzione del satyagraha gandhiano…Da quando questa parola è stata tradotta in italiano da Aldo Capitini, colui che ha introdotto il concetto in Italia, e quindi da circa cinquant’anni, si è sempre scritto nonviolenza…In questo senso la nonviolenza non è la negazione della violenza, ma è un concetto più alto che si rifà ad un’idea nonviolenta della difesa e quindi della ricerca della pace”.

Furio COLOMBO (L’Ulivo): “E’ negli anni sessanta che si è diffuso attraverso la predicazione di Martin Luther King l’uso del termine nonviolenza senza separazione tra le due parole. Credo di essere stato tra i primi ad usare questa espressione nel giornalismo ed un po’ me ne vanto”.

Roberto LAVAGNINI (Forza Italia): “Non sono giornalista, filologo o filosofo, ma credo che in Italia le leggi si debbano fare in lingua italiana. Sullo Zingarelli o sul dizionario enciclopedico Treccani la parola nonviolenza non esiste”.

Marco BOATO (Verdi): “Ho chiesto agli Ufficio un volume del Grande Dizionario Garzanti: è riportata la parola nonviolenza scritto tutto attaccato”

Fortunato ALOI (Alleanza nazionale): “A me sembra che il Parlamento italiano nel legiferare non debba mutuare parole da altre lingue. Si tratta di esprimere un concetto che consta di due elementi, uno dei quali serve a dare significato negativo…Il parlamento italiano non dovrebbe ricorrere ad un termine che secondo noi è estraneo alla nostra sfera culturale…Dobbiamo rivendicare la nostra autonomia anche in Parlamento, dove vivaddio la lingua italiana va difesa”.

Enzo TRANTINO (Alleanza nazionale): “Il nonviolento non appartiene né ad una nazione né ad un regime né ad un dato momento storico. Nonviolento vuole significare un tutt’uno che serve ad annullare il senso negativo nel termine principale…Certamente per la civiltà di Gandhi il nonviolento è tutt’uno e un tutt’uno deve restare per la civiltà di tutti noi”.

Ennio PARRELLI (PDS): “Vorrei sapere se posso fregiarmi, assieme a tutti gli altri, del titolo di appartenente all’Accademia della Crusca bis, visto che la discussione ha riguardato elementi di filologia estremamente interessanti…”.

Segue la votazione: presenti 347; votanti 323; astenuti 24; hanno votato sì 315; hanno votato no 8; la Camera approva!

 

UNA RIFLESSIONE PROFONDA
L’Islam, noi e la violenza

di Enrico Peyretti

“Quando vuoi riconoscere gli “eredi di Gesù”, tra i loro segni distintivi osserva ogni persona nella quale vi è misericordia e compassione per tutti gli uomini, chiunque essi siano, a qualsiasi religione appartengano e di qualsiasi confessione risultino essere… Essi guardano di ogni cosa la sua parte migliore, e sulla loro lingua scorre solamente il bene”. (Ibn al-°Arabi, mistico musulmano andaluso, 1165-1240, Le illuminazioni della Mecca, cap. 36, citato in Lettera agli Amici, Camaldoli, settembre 1997).

Questo atteggiamento ammirato da Ibn al-°Arabi è l’atteggiamento positivo e cristiano più bello anche di fronte all’Islam oggi: guardare di ogni cosa la sua parte migliore, affinchè ogni cosa possa essere il meglio di sé.

In questo spirito segnalo due libri. Il primo di Chaiwat Satha-Anand (studioso thailandese, musulmano), Islam e nonviolenza, (ed. Gruppo Abele, 1997, pp.86, L. 12.000). Lo citavo con altri autori e testimoni in tre miei articoli su Islam e Pace (in Rocca n.12, 14, 15/1996). Satha-Anand riconosce il problema dell’islamismo violento (pp. 17, 56), dell’integralismo (p. 6); tuttavia afferma e documenta una particolare attitudine dell’Islam all’azione nonviolenta (pp. 24, 29-33, 56); offre importanti analisi sulla “politica del perdono” (pp. 34-63), come integrazione necessaria della lotta nonviolenta nei conflitti culturali, dove gli avversari sono prigionieri della “trappola” delle memorie dolorose, e come atto laico di “giustizia trasformativa”.

L’altro libro è di uno studioso francese dell’Islam, Olivier Carré, Islam laico (Il Mulino, 1997, pp. 135, L. 18.000). La tesi di Carrè è che la “grande tradizione” islamica non è quella dell’estremismo, il quale è piuttosto una “ortodossia deviante”. Egli vede una “laicità islamica possibile”, purchè non si pretenda di assumere la laicizzazione alla francese (già diversa dagli altri paesi europei) come modello universale (p. 125). Carrè vede “come un tutt’uno il cristianesimo e l’Islam, coinvolti nella stessa avventura, con le stesse o quasi risorse e inquietudini” (p. 27). L’autore affronta anche i punti più delicati, come la condizione della donna, con dovizia di documentazione, che indica un Islam non immobile, ma in movimento.

Tradizione e Corano

Le fonti dell’integralismo violento si possono trovare nella tradizione più che nel Corano. Si veda lo hadith n. 10, nel cap. 2 sulla fede, della raccolta Detti e fatti del profeta dell’Islam raccolti da al-Buhari, Utet 1982 (riportato in Bori-Marchignoli, Per un percorso etico tra culture, La Nuova Italia Scientifica 1996, p. 164). C’è uno scarto tra una certa tradizione e il Corano. È perciò errato identificare Islam e violenza. L’Islam è molto più esteso geograficamente e molto più vario (culturalmente, religiosamente, politicamente) rispetto ai fenomeni mediterranei che oggi ci turbano e offendono.

C’è il problema dei diritti umani, del modo di intenderli, dell’interpretazione della Dichiarazione Universale del 1948, delle Dichiarazioni islamiche. Borrmans (Islam e Cristianesimo, Ed. Paoline 1993) è critico molto severo. Ho raccolto anche altre valutazioni, più positive. È da vedere l’articolo di P.C. Bori, Fondamento universale o culturale dei diritti dell’uomo?, in Democrazia e diritto, n.4/1993.

In particolare c’è il reale problema della considerazione della donna. Noi occidentali e cristiani, noi uomini, dobbiamo acquistare una maggiore sensibilità su questo punto essenziale alla difesa e compimento dell’umanità delle nostre, di noi tutti, persone. Dobbiamo toglierci dalla posizione di giudici senza colpa. Allora potremo vedere più onestamente il problema nella sua intera gravità. Ma nell’Islam non c’è solo il negativo. È un vero e serio problema di discriminazione, che però è stato – ed è! – anche problema occidentale e cristiano. Se abbiamo qualche anno di vantaggio, badiamo a non giudicare l’Islam dall’alto; e poi non abbiamo solo dei vantaggi, abbiamo anche degradato la donna in altri modi. Non possiamo sottovalutare (né utilizzare paternalisticamente) alcuni segni positivi nel mondo islamico: sentenza civile al Cairo contro l’infibulazione (orrenda pratica, ma non fondata nell’Islam); piccoli passi in Iran; alcune donne in ruoli politici di rilievo in paesi musulmani; presenza importante delle donne, seppure contrastata dal maschilismo tradizionale, nel movimento palestinese; “donne in nero” musulmane in ex-Jugoslavia, in Palestina; coraggiose donne algerine: Khalida Messoudi, premio Langer 1997 a Bolzano, parlamentare, condannata a morte dagli integralisti; e tante altre sconosciute. Non facciamoci deviare il giudizio dall’informazione occidentale stupida, malevola, supponente, antifemminile persino nel denunciare l’antifemminismo.

Uno scontro di civiltà

Noi cristiani e occidentali facilmente condanniamo la violenza islamica, e ben a ragione. Ma non basta condannare. Facciamo un paragone con l’anticomunismo occidentale e cristiano di ieri: condannare dittatura e violenza impediva di (o serviva a non) capire le ragioni dell’adesione al comunismo delle classi povere. Primo Mazzolari sapeva bene distinguere la speranza mal riposta, ma in sé giusta, della “povera gente”, dal comunismo di tipo stalinista. Oggi l’islam è la punta forte (o così è sentito) del Terzo Mondo (vedi il forte simbolismo della Guerra del Golfo), nel principale conflitto reale attuale Nord-Sud.

Propongo questa tesi: l’islamismo violento e integralista (A) sta all’Islam (B) come lo stalinismo sta al comunismo (in quanto ideale perenne), e come il totalitarismo cristiano sta al cristianesimo evangelico. È vero che oggi storicamente c’è A, ma c’è anche B diverso da A. Questa distinzione è necessaria (oltre che vera storicamente, culturalmente, religiosamente, politicamente) per difenderci da A, per aiutare l’Islam a superare e liberarsi da A, per non precipitare in uno scontro di civiltà come quello che prospetta S. Huntington (The Clash of Civilisation?, in Foreign Affairs, LXXII, estate 1993, 2, pp.22-49). Noi sappiamo bene distinguere il cristianesimo autentico dalla sovrabbondante violenza cristiana storica, mentre altri (non stupidi né malintenzionati) non li distinguono.

Imparare a convivere

È interessante un’intervista di Gilles Kepel, dell’Institut d’Etudes Politiques de Paris (La Stampa, 17.1.1998): al contrario dello sciocco titolo dato dal giornale (Il crepuscolo di Allah), Kepel prevede il rifiuto popolare e il declino dell’islamismo violento e la nascita della democrazia musulmana, cioè uno sviluppo dell’Islam.

L’Islam è una civiltà-religione in ascesa, in riscatto, dopo i secoli umilianti della decadenza e del colonialismo. O ne facciamo il “nemico” culturale e politico (v. i “nuovi modelli di difesa” statunitense ed europei, compreso quello italiano), e prepariamo ulteriori tragedie mondiali, oppure facciamo paziente e serio lavoro ecumenico nei suoi confronti. Da oggi in poi, con l’Islam bisogna con-vivere, perciò dialogare (con tutte le condizioni ascetiche, psicologiche, morali, intellettuali del dialogo). Non solo per l’emigrazione (che è una precisa forma di azione contro la violenza, di doverosa disobbedienza ad un governo iniquo, di autoesilio: v. Satha-Anand, op. cit., p. 24, che legge questo principio in Corano 4, 97), ma anche per ragioni culturali e religiose, l’Islam è in espansione: ha un futuro, in concorrenza critica con il cristianesimo (molto compromesso, specialmente agli occhi islamici, con la violenza e la corruzione occidentale), come denuncia dell’attuale politeismo (l’Islam è nato così, come superamento del politeismo) e come istanza di giustizia sociale (è la sua sostanza etica; sarà il nuovo comunismo?). La sua teologia semplificata ha probabilità di ascolto nel mondo postcristiano quando si interroghi su Dio, come il misticismo orientale ne ha in confronto con l’aridità dell’”homo oeconomicus”, prevalso sul cristiano in occidente.

È vero, ed è grave, che oggi mancano ancora sufficienti autorevoli voci islamiche contro la violenza esercitata in nome dell’Islam. Ne conosco troppo poche: il Gran Muftì d’Algeria nel 1995 (l’ho già citato su Rocca 1.8.96 da La Stampa 13.11.95); espressioni recentissime (da notizie radio) degli algerini residenti in Francia, più dolenti e sconcertate che giudicanti: però anche almeno un documento ufficiale come la severissima Fatwa – giudizio religioso – emessa il 7.5.1996 dal consiglio nazionale degli imam in Francia durante il rapimento e prima dell’uccisione dei sette monaci, che condannava totalmente quella violenza sulla base del Corano, e varie espressioni personali di musulmani in Francia e in Algeria (nel libro Più forti dell’odio. Gli scritti dei monaci trappisti uccisi in Algeria, a cura della Comunità di Bose, Piemme 1997, pp. 197-207); per la Bosnia la Dichiarazione sull’impegno di una morale comune, emessa insieme dalle autorità islamiche, cristiane (ortodossa e cattolica), ebraica di Sarajevo, aprile 1997 (bollettino Religioni per la pace, sez. ital. della World Conference on Religion and Peace, 15.11.1997); la partecipazione islamica alla Dichiarazione per un’etica mondiale, del 1993 (libretto di Küng, Kuscel, Rizzoli), che condanna “in particolare l’aggressione e l’odio in nome della religione”.

La jihad e la guerra santa

È vero che l’Islam intero ancora non riesce a fare una lettura storico-critica di sé e dei suoi libri sacri, ma è anche vero che segni di ciò si vedono crescere in pochi anni, in voci pubbliche (in Francia, Egitto, Tunisia; si veda anche il libro di Carrè) che fino a pochi anni fa non osavano esprimersi o venivano soppresse: molto più importante dell’arcinoto caso Rushdie, è quello di Mohamoud Mouhammad Taha, condannato ed ucciso nel 1985 in Sudan (cfr. fonti indicate nel mio articolo in Rocca n. 15/1996).

Faccio una ipotesi: può darsi che la tragedia dell’integralismo violento possa operare sull’Islam come le guerre di religione del 1500 e 1600 (quest’anno è il 350° della Pace di Westfalia) operarono sul cristianesimo e sulla civiltà europea, con effetti (non soltanto, ma soprattutto) positivi.

In teoria e in prassi, la “jihad” (del Corano e della tradizione islamica) non è diversa dalla “guerra giusta” della tradizione cristiana, concetto aggiunto al Vangelo, che è invece nonviolento. Anzi, più di questa, la “jihad” ha una principale accezione di lotta interiore per la virtù (cfr. Satha-Anand, op. cit., p. 10 e ss.).

Bisogna considerare: 1) che l’Islam nasce in un contesto di formazione e di lotte di identità nazionali arabe contro un impero cristiano bizantino, in un’epoca in cui il cristianesimo si presenta come imperiale e ampiamente giustificatore della guerra; 2) che l’Islam conosce l’ebraismo molto più del cristianesimo (così mi risulta dalla lettura del Corano); 3) che Mohammed (profeta armato, come Giosuè, come David, e vincitore) non è precisamente Gesù (profeta disarmato, e vinto), cioè l’esperienza originaria dell’Islam non è spinta ad approfondire il mistero della vera vittoria del bene e della vita al di là della forza vincente: però il suo senso di Dio è un’opportunità in questa direzione, molto di più del culto della forza, sostanzialmente nazifascista (lo vedeva bene Gandhi, in Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. 140, giudizio del 1940, tuttora validissimo, ahimè) che impregna le democrazie occidentali, in tensione e contraddizione con un loro principio umanistico. Una simile critica radicale della violenza intrinseca al pensiero e alla politica occidentali è quella del grande filosofo ebreo Emmanuel Levinas (si vedano in particolare le pp. 291-300 e 301-309 di Giovanni Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosemberg & Sellier, Torino 1996).

La violenza

Certamente soffriamo “sulla pelle” le stragi “in nome di Allah” dei terroristi algerini. Ciò non può farci giudicare l’Islam in sé tutto violento, come le stragi oceaniche in Burundi e Ruanda non mi fanno giudicare in sé violento lo spirito africano, né i genocidi “cristiani” mi fanno giudicare violento tutto il cristianesimo nella storia. Inoltre, con tutta la pena e l’orrore per questi delitti e il bisogno di reagire come posso, ho imparato da Galtung che “la violenza diretta è del dilettante, quella strutturale è del professionista”: mi angosciano di più i dolori e le morti ancora più estesi ma assai meno visibili e urtanti, che provoca oggi ogni giorno l’impero ultraliberista del denaro, con gli sfruttamenti e affamamenti ancor più oceanici, cinici, calcolati a freddo nelle asettiche sale dei consigli di amministrazione e decisi coi tasti dei computers dei finanzieri globali. “Ne uccide più la lingua che la spada”: oggi ne uccide più il liberismo (che è anche produttore di armi, di morte diretta) che non la violenza armata.

Pur odiando la guerra e l’omicidio nel più profondo del cuore (anche per il vero trauma, emergente nel tempo, vissuto da chi, come me, all’età di 9 anni, ha visto uccidere per odio gratuito dei nemici inermi), tuttavia oggi sono convinto che la maggior violenza attuale da combattere è quella strutturale, non quella fisica diretta, che pure è di crescente gravità per la crescente insensibilità: si commissiona l’omicidio per soldi; si uccide di più. Nel periodo 85-95 rispetto al 75-85 gli omicidi sono +25%, i serial killers +400%, gli infanticidi +42% (dati forniti da Vittorino Andreoli, Primapagina, 11.1.98). Eppure, l’omicido-genocidio strutturale dell’impero del denaro è più grave, non solo in quantità (una 2a guerra mondiale ogni anno!), ma perché installato nella nostra “civiltà”, nel sistema di cui noi personalmente godiamo i vantaggi in quanto complici almeno passivi, e generalmente ammesso nella sua “invisibilità” procurata ad arte dalla cultura e dall’informazione ad esso funzionali; di più perché mascherato come “prezzo” fatale, inevitabile, ineliminabile del “progresso” nostro, e solo nostro, esclusivo.

Le analisi emergenti delle stragi algerine non permettono di collegarle direttamente e unicamente all’Islam (benchè così facciano le rivendicazioni del GIA: v. in Più forti dell’odio, citato, il comunicato del GIA n. 43 alle pp. 24, 108, 219-20, 222): emergono responsabilità politiche governative algerine ed europee. Le immense stragi africane recenti vengono sempre più chiaramente analizzate come effetti di violenti giochi economici e di influenze occidentali su quelle terre e popolazioni (evidentemente ciò non riduce la responsabilità di chi uccide).

Le tre religioni

Il giudizio negativo su Islam e civiltà araba, facilmente confusi, dipende largamente:

dal nuovo (dopo il ’91) “bisogno di nemico” di USA e Occidente (l’Europa se ne distingue o niente o troppo blandamente), che preme con un terribile peso sull’immaginario collettivo creato dalla grossa informazione;
dalla nostra (occidentale e specialmente cristiana) “parentela” vera, importante, preziosa con l’ebraismo. Il quale oggi di fatto ed anche ad arte viene confuso con lo stato di Israele. Data la tensione lunga e profonda (e oggi approfondita dall’integralismo ebraico più che da parte araba) tra Israele e il mondo arabo, ne viene un riflesso genericamente anti-islamico. Ciò avviene non nei cristiani più profondamente attenti all’ebraismo, ma in alcuni che più superficialmente si sentono giudeo-cristiani. Personalmente, io, più che giudeo-cristiano, mi sento cristiano “dalle genti”, perciò (forse) più libero da un tale eventuale condizionamento e, invece, ecumenicamente (macro-ecumenismo, dice Casaldàliga) teso a cercare il meglio anche dalle altre tradizioni, tra cui l’Islam. La pace del mondo dipende dipende dalla pace tra le religioni, cioè dalla reciproca più benevola conoscenza e stima. Credo che questo atteggiamento possa portare ciascuno a vedere e rifiutare i propri mali: questo è avvenuto o sta avvenendo nell’ecumenismo intracristiano, mentre la polemica tra le confessioni cristiane rinchiudeva ciascuna in ostinata difesa del suo bene insieme al suo male. Oggi l’Islam si sente spinto in difesa dall’Occidente.

Con tutto ciò, è assolutamente vero che dobbiamo chiedere ai musulmani che conosciamo, ad ogni livello, amichevolmente ma con istanza e insistenza delicata e appassionata, di dire tutti insieme che non si può uccidere in nome di Dio, per nessuna ragione. Cominciando col chiedere di nuovo perdono di quando noi europei e cristiani abbiamo fatto questo a loro o ad altri, e lo abbiamo fatto molto!
AD UN ANNO DALLA MORTE DI PAOLO FREIRE
Restituire alla gente la coscientizzazione nella pratica della libertà

Intervista a cura di Paolo Macina

Per la vicinanza temporale degli avvenimenti e per il forte coinvolgimento emotivo delle persone di cui si parla, l’intervistato(un sacerdote italiano che ha applicato il metodo Freire) ha preferito che il suo nome non venga citato.

“Nessuno si libera da solo

Nessuno libera l’altro

Ci liberiamo insieme”

(Paolo Freire)

Come hai conosciuto Paulo Freire?

Prima ho letto due o tre volte il suo libro “La pedagogia degli oppressi” nel ’72, l’ho sintetizzato segnandomi tutte le cose che ritenevo interessanti come si fa quando trovi qualcosa che ti interessa, poi ho saputo che viveva in Svizzera e allora, nello stesso anno, abbiamo deciso di andarlo a trovare. Ma quando siamo andati da lui, io avevo già fatto un tentativo di applicazione del suo metodo in un paesino del Monferrato. Ricordo che di lì le autorità ci invitarono ad andarcene dopo quaranta giorni: eravamo già arrivati, al primo tentativo, a riscuotere una tale fiducia nella gente da poter essere accolti e cominciare con loro un cammino di coscientizzazione.

E lui come vi ha accolti?

Noi siamo saliti da lui con quaranta chili di carta e di appunti, avevamo fatto una ricerca secondo il suo metodo, ci chiedevamo come poter continuare ma lui ci sorprese con questa frase: “Ma voi, che cosa avete restituito alla gente?” Perché infatti, chi fa una ricerca tende ad usare i dati per i propri scopi, dimenticando le persone su cui ha condotto l’inchiesta.

Che tipo era?

Era un tipo che quando faceva una lezione a gente che lavorava in fornace, cominciava a parlare con loro del mattone, magari scomponendone la parola, fino ad arrivare alla coscientizzazione, ponendo domande del tipo: “Dove abiti tu, le case sono fatte di paglia. Come mai sono trent’anni che fabbrichi mattoni, ed hai la casa di paglia, mentre quel signore lì, che è il padrone, non ha mai fabbricato un solo mattone ed ha la casa di mattoni? Mi sai spiegare il perché?”. Poi, con altre persone, bastava magari sostituire la parola “mattone” con altri strumenti di lavoro ed il metodo funzionava lo stesso, e funzionava in modo tale da incantarti. Il metodo fu anche usato dal potere costituito, che usò i termini “pallone”, “bandiera”, “esercito”. Nel suo libro “L’educazione come pratica della libertà” è spiegata molto bene l’applicazione di questo sistema. Era un grand’uomo. Era un uomo che pensava, che non prevaricava, non proponeva niente senza di te. Se bisognava camminare, bisognava farlo insieme.

Cosa avete fatto al vostro ritorno in Italia?

Abbiamo cercato di applicare il suo metodo in cinque diverse località: ma anche da questi posti, prima o poi siamo stati cacciati dalle autorità. L’ultimo posto in particolare, che non nomino perché è ancora vivo il parroco di allora ed è ancora arrabbiato adesso, ha avuto un epilogo clamoroso: la gente, man mano che prese coscienza, arrivò a indire, dopo sei mesi di lavoro, un’assemblea pubblica in cui erano presenti il parroco, il preside della scuola ed il sindaco. Al primo si arrivò a chiedere conto dei terreni che amministrava, che erano moltissimi ed erano stati donati per la povera gente; al secondo domandarono perché a scuola venivano bocciati soprattutto i figli dei più disgraziati; e all’ultimo chiesero di presentare i conti del bilancio, perché non li aveva mai raccontati alla gente. Le cose più semplici del mondo, ma figuratevi…

Come reagirono queste persone?

Mi fecero convocare addirittura dal vescovo, per chiarire la mia posizione, ma quando mi presentai misi subito in chiaro che avrei accettato di essere giudicato solamente con un unico punto di riferimento: il Vangelo. Perché se mi avessero interrogato solo in base alle loro ideologie, io che avevo due baffi, me ne sarei fatti altri due. Dissi che se mi avessero provato che sbagliavo rispetto a ciò che diceva il Vangelo, sarei stato disposto ad andare scalzo per i paesi a chiedere scusa per aver fatto loro del male. Ma non mi fecero nessuna domanda se non quella del perché portassi i capelli tanto lunghi.

Da dove provenivano le persone che ti hanno seguito nel tuo lavoro?

C’erano due o tre gruppi della zona in particolare, ma in genere le persone ruotavano. La proposta interessava molto, anche a quelle persone con un basso livello di scolarizzazione, che mi sembravano più fresche, più incisive di quelle che avevano una laurea. Vivevano di più la vita, lavoravano manualmente, avevano più la percezione di ciò che era giusto. Soprattutto non erano stati condizionati troppo dai libri di scuola.

A proposito: Freire era convinto che ci fosse un nesso tra l’analfabetismo e la mancanza di coscienza dell’oppressione. Per questo il suo metodo è spesso paragonato a quello di Don Milani, suo contemporaneo, che a Barbiana coscientizzava a modo suo i figli dei contadini e degli operai dell’Appennino. Ne vedi i collegamenti? O vedi più collegamenti nel lavoro di Danilo Dolci in Sicilia?

Il Freire stesso un giorno mi disse: “che bisogno avete di venire fin qui da me, quando in Italia avete Don Milani?” Trovo molti nessi con lui, anche se sono molto più vicino al pensiero di Ivan Illich, il cui motto era “descolarizzare”, perché nessuno ha da insegnare niente a nessuno. La gente impara bene solo ciò di cui ha bisogno, e non c’è motivo di istituire gare per far primeggiare un alunno su un altro. Paolo Freire sosteneva che bastavano quaranta giorni di tempo per insegnare ad una persona adulta a leggere e scrivere, se solo lei lo vuole. Poi il suo metodo è più sistematico. Milani era fermo in un posto, e riguardava eminentemente la scuola; per noi l’impegno riguardava l’intera gente di un’area nel suo vissuto, occorreva allargare le vedute. Con Danilo Dolci il Freire aveva anche un’amicizia: un giorno li ho incontrati tutti e due ad un convegno, a Milano.

Cosa successe dopo il vostro primo incontro a Ginevra?

Dopo il primo incontro nel ’72, e i cinque esperimenti conclusi con la nostra cacciata dal territorio, tornammo da lui nel ’75, con il dubbio di aver messo in pratica un metodo che forse non era così infallibile, visto che ci cacciavano. Ma lui semplicemente ci rispose che, a parer suo, chi si metteva a vivere un tale metodo non poteva per forza essere accettato dal potere costituito. Ci rammentò la parabola evangelica del chicco di grano (era un convinto cristiano), secondo la quale se il seme non marcisce non è in grado di dare frutti. Non bisogna aspettare il plauso, la fanfara che suona. L’importante è che il metodo coscientizzi. Ci consigliò comunque di puntare un po’ più sulla mediazione.

Puoi illustrarci brevemente in cosa consiste il “metodo Freire”?

Detto in parole povere, il lavoro consiste in una ricerca, relativa a tutto il vissuto umano, dell’ambiente in cui si opera. Nella ricerca si tenta di far scaturire la coscienza critica degli interlocutori, ponendo loro delle domande o dicendogli che su alcuni temi la si pensa diversamente e perché. In questo modo si viene magari a conoscenza del fatto che la gente sta vivendo un particolare problema di cui non vede soluzioni o che gli sembra molto difficile da risolvere, e su questo canovaccio si cerca di far scaturire le contraddizioni.

Puoi farci un esempio?
Certo. In una certa provincia ci sono sedici paesini con un solo medico di base, che magari non lascia il suo numero di recapito perché non vuole essere sempre infastidito dai suoi assistiti. La contraddizione che scatta è che la popolazione paga le tasse come chi è in città, mentre riceve un servizio nettamente al disotto di quello che i cittadini ricevono. Allora si cerca di capire come mai non si possa dotare i paesini del medico di base, e magari si scopre che è molto difficile passare i concorsi perché la cosiddetta “Medicopoli” non lo permette, e così via…

Questo episodio mi ricorda la frase di una “semplice donna del popolo” che lui ha riportato in un suo libro: “Mi piace discutere di questo, perché è così che vivo. Mentre vivo, però non vedo. Adesso però, osservo come vivo”.

Esatto. A forza di parlare con la gente, ti accorgi dei problemi che sono comuni a tutti, che premono, che non riescono ad essere risolti da uno o da alcuni di loro. Ma quando una persona vive una contraddizione e non riesce a risolverla, cosa fa? O impazzisce, o cerca le evasioni, servendosi dei miti, dei pregiudizi o delle trasgressioni; ma il problema è sempre li, se lo porta addosso. La restituzione del metodo Freire consiste proprio nel mettere in evidenza la contraddizione: non è semplicemente rendersi conto del problema esistente e ripeterlo a chi lo vive, ma di restituirlo con la contraddizione come base di discussione per risolverlo. Generalmente quando questo stato d’animo è vissuto da tutti, scatta la responsabilizzazione, cioè il “che fare?”.

Il metodo Freire è molto collegato alla pratica: lui sosteneva infatti che le parole chiave che consentono alla gente di imparare a leggere e a scrivere devono essere legate alla loro esperienza quotidiana.

No, non è del tutto vero. La prassi serve a verificare la teoria, poi però si deve nuovamente tornare alla prassi.

Negli anni in cui hai applicato il metodo Freire, usavi fare una proposta che consisteva in tre fasi: presa di coscienza, assunzione di responsabilità, liberazione.

Già la presa di coscienza ti avvia alla liberazione. Il Freire dice che se conduci bene la ricerca, questa comporta già degli atti liberatori. Per esempio, se parlando con te riesco a farti raccontare te stesso, e man mano che parli prendi fiducia su ciò che dici, e non hai paura di essere giudicati, questa è già una liberazione. Non hai più paura dei giudizi degli altri.

E’ un percorso davvero simile a quello di ricerca-educazione-azione che la teoria della nonviolenza indica per applicare i suoi metodi.

Sì. E anche quando si perviene all’azione, bisogna stare vicino a chi cerca la liberazione, cercando di discutere se la soluzione che essi prospettano serve a qualcosa. E soprattutto se la soluzione gode del consenso di chi vive il problema. Il nostro compito non è quello di suggerire la soluzione o di metterla in bocca agli altri, ma è semmai quello di arrivare insieme alla soluzione.

Tu hai applicato il metodo anche tra i terremotati dell’Irpinia, nel 1980. Racconta come è andata.

Ci siamo costruiti due baracche a Recigliano, e a turno chi veniva giù stava un mese a lavorare gratis come muratore, otto ore al giorno, per la gente colpita dal terremoto. Dopo sette mesi di permanenza, abbiamo fatto la prima assemblea pubblica. Eravamo già conosciuti, capivamo abbastanza il dialetto del posto, e anche se la gente non capiva bene come potessimo mantenerci e lavorare gratis, ci aveva accettato. Abbiamo presentato i risultati della nostra ricerca, e durante l’incontro un signore del pubblico ha accusato il sindaco di non avere mai inoltrato le firme raccolte per protestare contro la mancata costruzione dell’acquedotto comunale. Eravamo andati assieme a Salerno in Prefettura a verificare, e ricordo ancora che quel signore lanciò la sua accusa in dialetto, con una forza che nessuno avrebbe immaginato. Quest’uomo aveva preso coscienza del problema, e maturato la libertà di parlare.

Il metodo educativo di Freire è finalizzato alla formazione della persona come soggetto, in senso non solo psicologico ma anche politico. Cosa è per te fare politica? E cosa è fare politica per un prete?

Io sono un prete che nel ’68 era in fabbrica. Per me politica è il bene della comunità, della polis. E l’uomo eletto, delegato dagli altri per fare il bene comune deve sapere esattamente dalla gente cos’è il bene comune per gli altri.

Un’ultima domanda. Avresti ancora voglia di partire ad applicare il metodo?

Perbacco: mille volte, sì.

La vita di Paulo Freire

“L’aver vissuto durante l’adolescenza con bambini delle campagne e con bambini della città, figli di operai, mi ha abituato ad un modo diverso di pensare e di esprimersi, che era esattamente quello della sintassi popolare, del linguaggio popolare alla cui comprensione mi dedico tutt’oggi come educatore popolare”. Così raccontava di sé Paulo Freire, ricevendo nel 1989 a Bologna una delle 28 lauree honoris causa che gli sono state conferite nel corso della sua vita, spentasi repentinamente il 2 maggio del 1997.

Il padre della “pedagogia degli oppressi” era nato a Recife, capitale del Pernambuco e di tutto il Nordest brasiliano, nel 1921. Cittadino di nascita, nel 1929, a seguito della grande crisi, emigra con la famiglia a Jaboatao nelle campagne circostanti. Nella metropoli nordestina tornerà solo nel 1946 per lavorare nel servizio educativo del Sesi (il Servizio sociale dell’industria). Intanto è diventato militante dell’Azione Cattolica e approfondisce il pensiero delle grandi figure del cattolicesimo francese dell’epoca: Jacques Maritain, Georges Bernanos, Emmanuel Mounier.

Abbandonato il Sesi nel 1954, fonda e anima i “circoli” e i “centri” promossi dal Movimento di Cultura popolare. Nel 1958, in un congresso sull’educazione degli adulti a Rio de Janeiro, presenta una prima sistematizzazione del suo lavoro, basato sull’integrazione tra apprendimento della lettura e della scrittura, e formazione della coscienza politica.

Mentre il Brasile vive sullo scorcio dei primi anni Sessanta la controversa ma al tempo stesso esaltante fase del “populismo progressista” sotto la presidenza di Joao Goulart, Freire segue un’esperienza educativa ad Angicos, nel vicino Rio Grande do Norte, dove mette a fuoco la metodologia dell’alfabetizzazione fondata sulle “parole generatrici”. Il valore innovativo del suo metodo gli procura la chiamata alla direzione del programma di alfabetizzazione per adulti del Ministero dell’Educazione federale.

Il golpe del 31 marzo 1964 interrompe drammaticamente, con il carcere prima (75 giorni) e con sedici anni di esilio poi, il suo lavoro in Brasile.

Saranno tuttavia tre lustri – quelli dell’assenza dal suo Paese – proficui. Insegnerà anche un anno ad Harvard, prima di far base dal 1971 al 1979 a Ginevra. Ma è in Cile, Messico, Guinea Bissau, Tanzania che svilupperà sul campo il “metodo Freire”, mentre i militari brasiliani fanno bandire l’espressione “educazione popolare” perché “sovversiva”. In Cile – tra il 1964 e il 1968 – si dedica all’alfabetizzazione dei contadini conseguendo risultati che gli valgono la menzione dell’Unesco e una fama internazionale sempre più estesa. Nel frattempo viene pubblicato il suo primo libro “Educazione come pratica della libertà”, nel quale vengono anticipati molti dei temi al centro della cruciale Conferenza dei vescovi latinoamericani convocata a Medellín, in Colombia, nel 1968.

L’esperienza cilena confluisce, in modo più sistematizzato, nel suo testo più noto “Pedagogia degli oppressi” del 1969, che sarà tradotto in 25 lingue. Intanto, Freire è in stretto contatto con centri educativi di tutto il mondo, tra questi quello di Ivan Illich a Cuernavaca in Messico.

Dall’inizio degli anni ’70 lavorerà poi presso il Consiglio Mondiale delle Chiese a Ginevra, ma quello sarà per Freire soprattutto il decennio del lavoro in Africa: in Tanzania e con i popoli appena sottrattisi al colonialismo portoghese, in particolare nella Guinea Bissau, dove stringe una profonda amicizia con il leader Amilcar Cabral.

Nel 1980, con l’amnistia, rientra in Brasile, dove l’Università Cattolica di San Paolo gli affida la cattedra di filosofia e storia dell’educazione.

Per Freire sono anni ancora di intenso impegno in appoggio alle iniziative formative promosse dai movimenti popolari di tutto il Brasile. Il suo impegno in particolare si riverserà sul Centro di formazione della Cut, la Centrale unica dei lavoratori, il sindacato indipendente nato nelle grandi lotte sindacali sotto il regime militare, e in anni più recenti nell’amministrazione municipale di San Paolo, come assessore all’Educazione del sindaco Luiza Erundina, tra il 1989 e il 1991. Nel 1986, l’Unesco ha conferito a Freire il Premio per l’educazione alla pace.

Nel pensiero di Freire sono confluiti – come riconosceva egli stesso – elementi culturali diversi: lo slancio pedagogico dei primi anni della rivoluzione russa e Gramsci, le esperienze di autoeducazione degli anarchici e il cristianesimo radicale, che si ispirava ai fermenti della rivista “Esprit” di Mounier. Ma tutto questo eclettismo trovava il suo baricentro e la sua sintesi intorno al problema di fondo che ha assorbito l’intera opera di Freire: il superamento della disumanizzazione insita nella condizione di oppresso, ma anche in quella di oppressore. Superamento che comincia “con il riconoscimento critico della causa di questa situazione perché attraverso una azione trasformatrice, se ne instauri un’altra che renda possibile la ricerca dell’essere di più”.

Gabriele Colleoni

Vivere la nonviolenza

Il MIR-MOVIMENTO NONVIOLENTO di Piemonte e Valle d’Aosta, in collaborazione con altri gruppi e comunità, ha organizzato dei campi per l’estate 1998 con lo scopo di diffondere la nonviolenza praticandola. I campi estivi sono occasione di formazione, approfondimento e solidarietà. I momenti formativi, del dibattito e della solidarietà, hanno ruoli diversi nei diversi campi. Tutti hanno l’intento di stimolare la curiosità per la nonviolenza e sono rivolti a coloro che hanno già maturato un primo orientamento e intendono confrontarlo con altri, ponendosi nella disposizione di servire e di imparare da comunità, famiglie o singoli che, avendo già operato risoluti tagli con la società della dissipazione e l’economia dello spreco, vivono prevalentemente in un contesto rurale e di povertà volontaria.

Componenti fondamentali dei campi sono:

LAVORO MANUALE: come aiuto concreto alle realtà che ci ospitano e come scoperta della bellezza del lavoro condiviso. Pur vivendo nel privilegio siamo consapevoli dello sfruttamento a cui è sottoposta tanta parte dell’umanità e dell’ambiente naturale. La produzione totalmente esente da apporto di energia da parte dell’uomo è ingannatrice. Nei campi non proponiamo perciò alcuno sport, perché chiediamo a tutti di utilizzare la propria energia fisica in un’attività produttiva orientata a praticare margini quanto più larghi possibile di autosufficienza.

FORMAZIONE: spirituale attraverso riflessione personale, meditazione, silenzio, contemplazione… Culturale attraverso letture, scambi di opinione, relazioni, eventualmente con l’utilizzo del metodo training.

CONVIVIALITA'< e festa per celebrare la nostra unità attraverso canti, musiche e danze, per ringraziare chi in tempi lontani o vicini di quei canti, danze e musiche ci ha fatto dono, per dire la nostra appartenenza ad una cultura (condizione per essere aperti e curiosi verso le altre), per dire grazie a Dio del dono della vita, per stare insieme in letizia. “Lavorare insieme, questo vi unisce certamente, ma festeggiare insieme vi unisce di più” (Lanza del Vasto – L’Arca aveva una vigna per vela – Jaca Book).

I campi iniziano con la sera della domenica (è bene esserci tutti per la cena), e ogni giornata verrà indicativamente così strutturata:

– Mattino: lavoro manuale;
– Pomeriggio: relazioni e riflessioni inerenti il tema del campo;
– Sera: giochi, canti, danze e chiacchiere insieme.

Sabato sera: festa di fine campo: non partite prima della festa!

Per ogni campo sono previste relazioni, e a metà settimana una gita per visitare, con una bella camminata, luoghi, santuari, monumenti della zona. All’interno della giornata è previsto un momento di vita interiore, che verrà definito con i partecipanti e che potrà assumere varie forme: letture, silenzio, preghiere…

L’età minima per i partecipanti ai campi è di 18 anni

Se vuoi partecipare ai campi:

1- Mettiti in contatto con il coordinatore del campo che hai prescelto, per essere certo che vi siano ancora posti disponibili, poi invia la scheda di iscrizione riportata qua sotto. Se proprio non riesci a parlare con il coordinatore, contatta l’obiettore incaricato dei campi presso il Mir di Torino.

2- Invia una quota di iscrizione di £. 50.000 utilizzando il ccp n° 20192100 intestato a: Movimento Nonviolento, via Venaria 85/8, 10148 Torino, specificando sul retro del bollettino “Iscrizione al campo estivo di…”. Appena avremo ricevuto la tua iscrizione, te la confermeremo inviandoti ulteriori notizie.

3- Durante il campo ti sarà chiesta poi una quota di £ 150.000 per il vitto, l’alloggio e il rimborso spese per i relatori che interverranno al campo, e, dove previsto, £ 5.000 per l’assicurazione infortuni.

Per ulteriori informazioni, rivolgiti ai coordinatori dei campi.

Le iscrizioni verranno chiuse 15 giorni prima dell’inizio di ogni campo.

Movimento Internazionale della Riconciliazione

Movimento Nonviolento c/o Centro Studi Sereno Regis

via Garibaldi 13, 10122 Torino – tel. 011/532824

fax 011/5158000 e-mail REGIS @ ARPNET.IT
MAESTRI DEL PENSIERO INDIANO (4)
Gli aforismi sullo yoga

Lo yoga ha una grande importanza nella cultura indiana: lo troviamo, come teoria e come pratica che libera dai moti vorticosi del pensiero, sia nell’induismo che nel buddhismo. La dottrina dello yoga è stata esposta, in forma concisa, negli Yoga Sutra (Aforismi sullo Yoga) di Patanjali (circa V secolo d.C.), integrati dal successivo commento di Vyàsa.

Yoga è termine di origine sanscrita (da yuj = aggiogare) e vuol dire “unione”: nel senso più elevato, unione dell’anima del praticante (yogin) con l’Assoluto (Brahman) o con una divinità personale (Vishnu, Krishna), come è teorizzato nella Bhagavad Gita. Tuttavia, per noi occidentali, l’unione può essere assai più modesta. In molti nostri comportamenti, noi siamo “disuniti”, ossia discontinui, frammentari, incoerenti. Lo yoga, praticato con gradualità e costanza, ci aiuta ad uniformare e armonizzare i nostri ritmi vitali, dopo aver adottato uno stile di vita sobrio e fraterno.

Gli otto gradi dello yoga

È noto che la pratica dello yoga comporta una serie graduale di esercizi psico-fisici da attuare in particolari posizioni (àsana), ma allo yogin sono richiesti anzitutto il rispetto di fondamentali norme etiche (nonviolenza, veracità) e un modo di vivere frugale, lontano dagli eccessi (fumo, alcool, droghe, disordini sessuali).

Patanjali negli Yoga Sutra (II, 29) elenca otto gradi, che possono essere considerati come un complesso di tecniche e come tappe dell’itinerario ascetico e spirituale tendente alla liberazione. Essi sono: 1) i raffrenamenti (yama); 2) le discipline (niyama); 3) le attitudini e le posizioni del corpo (àsana); 4) il ritmo della respirazione (pranayama); 5) l’emancipazione dell’attività sensoriale dal gorgo degli oggetti esterni (pratyahara); 6) la concentrazione (dharana); 7) la meditazione yogica (dhyana); sàmadhi, la totale e finale identificazione con l’Assoluto: il vero Sé è liberato dai veli dell’illusione.

I raffrenamenti e le discipline

Dal punto di vista del pensiero nonviolento, meritano particolare interesse i primi due gradi dello yoga, che possono dare un orientamento alla vita di ogni giorno. I raffrenamenti (yama) sono cinque: 1) ahimsa (nonviolenza); 2) satya (veracità); 3) asteya (non rubare); 4) brahmacarya (astinenza sessuale); 5) aparigraha (non essere avaro).

Ascoltiamo ora il commento di Vyàsa:

Ahimsa vuol dire non recare dolore ad alcuna creatura, in nessun modo e mai. I raffrenamenti e le discipline che tengon dietro, hanno radici nell’ahimsa e tendono a perfezionare l’ahimsa… La verità (satya) consiste nel concordare parola e pensieri agli atti. La parola e i pensieri corrispondono a ciò che si è visto, inteso o dedotto. Si pronunzia la parola allo scopo di comunicar la conoscenza. È lecito affermare che se ne è fatto uso per il bene altrui e non a suo danno, soltanto se essa non fu ingannatrice, confusa o sterile.

Il furto consiste nell’impadronirsi illegalmente delle cose che appartengono ad altri. L’astensione dal furto (asteya) consiste nel distruggere il desiderio di rubare. Il brahmacarya è il raffrenamento delle forze segrete (cioè la forza generatrice). L’assenza di avarizia consiste nel non appropriarsi delle cose altrui ed è la conseguenza del comprendere che si commette peccato attaccandosi ai beni e che l’accumulare, il conservare o il distruggere beni reca pregiudizio.

(da Yoga Sutra, II, 30 – da M. Eliade, Tecniche dello Yoga, Boringhieri, Torino, 1996, pp.68-69)

Parallelamente a questi raffrenamenti, chi si dedica allo yoga deve praticare una serie di discipline corporali e psichiche: “La nettezza, la serenità, l’ascesi, lo studio della metafisica dello Yoga e lo sforzo di fare di Dio il motivo di tutte le proprie azioni costituiscono le discipline” (Yoga Sutra, II, 32).

Gli altri gradi dello yoga

Dopo aver esaminato i raffrenamenti e le discipline, vediamo ora le posizioni e gli esercizi (àsana e mudra). Sono moltissimi, anche se lo yogin esercita al riguardo un’accurata selezione, in conformità a ciò che si propone di ottenere. Hanno nomi pittoreschi, come “posizione del loto, della felicità, del leone, della locusta”, e via dicendo. I fini degli esercizi sono la disciplina e il controllo dei muscoli, delle articolazioni, del sistema nervoso, dell’apparato digerente e in genere di tutta la funzionalità somatica. Alcune posizioni assicurano al praticante una massima “distensione” psichica, altre procurano tensioni controllate, per il superamento di certi ostacoli e il raggiungimento di risultati ulteriori.

Pranayama è la disciplina del respiro ma, più ancora, quella delll’energia vitale o prana, che secondo tradizioni indiane penetra nel corpo specialmente attraverso la respirazione. Viene praticata una respirazione controllata nei suoi tre momenti essenziali: inspirazione, arresto respiratorio ed espirazione.

Pratyahara è il ritiro dei sensi dagli oggetti percepibili: una sospensione volontaria delle funzioni sensoriali, in modo che i sensi collaborino all’investigazione della mente.

Dharana può essere definita come una “ginnastica controllata” del pensiero. I pensieri vengono fermati, spostati, concentrati, dissolti, come se si trattasse di esercitare l’apparato muscolare nei confronti di oggetti concreti.

Dhyana è il preludio al grado più alto dello yoga e consiste nella possibilità di meditazione costante verso uno stesso punto, finchè si raggiunga l’intuizione dell’unione mistica col Tutto.

Samadhi è il momento di estasi suprema, nel quale lo yogin ritrova l’Unità, abolisce il Tempo e la Creazione (cioè la molteplicità e l’eterogeneità cosmica) e si fonde in un unico respiro col Brahman.

Una buona traduzione degli Aforismi sullo Yoga (con il commento di Vyasa) è stata pubblicata da Boringhieri (Torino, 1978).
FINALMENTE VOTATA LA NUOVA LEGGE SULL’OBIEZIONE
La Camera approva la riforma della 772

di Stefano Guffanti

ULTIMA ORA: Con l’approvazione della maggioranza, il 14 aprile si è conclusa alla Camera dei Deputati la discussione del testo di legge che sostituirà la Legge 772 in materia di obiezione di coscienza e servizio civile. Ora il provvedimento deve tornare al Senato per approvare le nuove modifiche. Poi, l’iter sarà concluso. Collegate alla Legge sono state approvate anche tre Raccomandazioni per noi molto importanti: – sull’utilizzo degli obiettori nei Caschi Bianchi da mettere a disposizione dell’ONU; – sulla ricerca e la sperimentazione della difesa civile nonviolenta; – sulla possibilità dell’opzione fiscale per gli obiettori alle spese militari.

Ne riparleremo ampiamente sul prossimo numero di Azione nonviolenta.

Siamo dunque soddisfatti che dopo tanti anni e tante battaglie sia giunta in porto la nuova legge sull’obiezione.

Durante la discussione sono stati approvati, però, alcuni emendamenti governativi che, di fatto, hanno peggiorato il testo di legge iniziale:

i tempi per la presentazione della dichiarazione di obiezione di coscienza sono stati ridotti da 60 a 15 gg., dopo l’arruolamento (a partire dal 1° gennaio 2.000);
è stata abolita la sospensione della chiamata alle armi per chi presenta dichiarazione di obiezione di coscienza, prefigurando così la possibilità che l’obiettore, in attesa di riconoscimento, venga chiamato al servizio militare;
è stato abolito il silenzio-assenso per l’accoglimento della dichiarazione di obiezione di coscienza dopo 6 mesi dalla presentazione e, pertanto, saranno ancora possibili lungaggini burocratiche.
l’Ufficio per il Servizio Civile Nazionale è stato sostituito da una Agenzia Nazionale per il servizio civile, il cui funzionamento verrà assicurato, principalmente, da personale militare in posizione di ausiliaria, almeno per il primi 18 mesi, vanificando, in questo modo, la sottrazione della gestione del servizio civile al Ministero della Difesa;
si prevede l’inserimento degli obiettori nei ministeri (sostituzione di mano d’opera?);
con gli emendamenti all’art. 9 si è aperta la strada ad eventuali riallungamenti della durata del servizio civile rispetto al servizio militare.

Il testo di legge si basa su principi che, sul piano teorico, sono validi ed avanzati (diritto all’obiezione di coscienza, informazione per i giovani, formazione alla nonviolenza, sperimentazione di tecniche difensive non armate, missioni umanitarie e di pace, etc.), ma che rischiano di essere solo dei buoni propositi.

Non possiamo infatti dimenticare che la loro realizzazione pratica è affidata a due strumenti:

i regolamenti per il servizio civile, che verranno stabiliti dall’Agenzia;
la volontà di collaborazione (o l’ostilità) del personale dell’Agenzia (composta principalmente da militari in ausiliaria) che avrà il compito di gestire il servizio civile.

Viste queste premesse dobbiamo essere coscienti che la strada per un vero cambiamento è ancora lunga e tortuosa. Non è infatti una Legge dello Stato che modifica la realtà, se non è accompagnata dalla crescita di coscienza e di impegno del movimento degli obiettori.

La rivista degli obiettori

Azione Nonviolenta, a partire da questo numero, apre un nuovo rapporto con la Lega Obiettori di Coscienza; l’intenzione è quella di superare la collaborazione saltuaria, avuta fino ad oggi, ed istituire una relazione organica con questa storica associazione.

Inizia così una rubrica fissa mensile, “LOC Notizie”, gestita autonomamente dalla LOC.

I perché di questa apertura sono molteplici:

Da qualche tempo i momenti di collaborazione tra Movimento Nonviolento e la Lega Obiettori di Coscienza, sono andati intensificandosi, aprendo nuovi spazi e possibilità di collaborazioni politiche e culturali;
Viste la parcellizzazione e la debolezza organizzativa dei gruppi nonviolenti ed antimilitaristi, emerge l’esigenza di mettere in comune competenze, esperienze e risorse, per dotarsi di strumenti più efficienti ed incisivi;
Gli spazi di mercato, nell’editoria pacifista, sono oggi molto ristretti e si ritiene che sia più opportuno collaborare a migliorare le testate esistenti, piuttosto che puntare a moltiplicarne il numero, percorso questo costoso, dispersivo e dall’esito incerto.

Questa rubrica si propone di riportare notizie e commenti provenienti dal mondo dell’obiezione e del servizio civile; un’occasione per dare voce ad obiettori, responsabili degli enti, formatori, militanti dei gruppi dell’area nonviolenta ed antimilitarista.

Oltre agli argomenti che potremmo definire “classici” (riforma della Legge 772, gestione del servizio civile, istituzione del Servizio Civile Nazionale, situazioni di conflitto legate al cattivo impiego d’obiettori di coscienza, esperienze di caschi bianchi), è nostro interesse aprire anche il confronto su altre tematiche, quali: impiego degli obiettori nei centri sociali autogestiti e nuove prospettive di servizio civile, proposte concrete per facilitare l’aggregazione e l’organizzazione degli obiettori, coinvolgere i responsabili degli enti per aprire spazi di pace nel servizio civile.

Intendendo così avvicinare nuovi soggetti, come gli obiettori in servizio, alla riflessione nonviolenta; speriamo di riuscirci proponendo loro una rivista che sappia coniugare interessantissime riflessioni teoriche ed esperienze concrete; partire dalla vita quotidiana di chi è chiamato ad assolvere agli obblighi di leva per ridare un respiro ideale all’esperienza del servizio civile, troppo spesso ridotta a mero lavoro coatto.

Nuova visibilità per le tematiche trattate dalla LOC e possibilità d’espansione per la rivista sono, in ultima analisi, gli obiettivi cui intendiamo concorrere con questa nuova rubrica e che hanno portato a far sì che, da questo numero, Azione Nonviolenta sia anche rivista della Lega Obiettori di Coscienza.

Concludiamo con un appello ai nostri lettori: per dare maggiore vivacità e freschezza alla rubrica “LOC Notizie” è indispensabile conoscere situazioni concrete di servizio civile (sia in positivo, sia in negativo), ricevere commenti, notizie, esperienze.

Chiunque volesse contribuire mediante un proprio intervento scritto, di poche righe, potrà inviarlo via posta, e-mail o fax alla redazione della rivista “Azione Nonviolenta, rubrica “LOC Notizie”.

L.O.C.
Lega Obiettori di Coscienza
Via Mario Pichi, 1 – 20143 Milano
Tel: 02/58101226-8378817;Fax: 02/58101220

Servizi offerti:

Consulenza informativa;
Assistenza tecnico-legale;
Organizzazione e/o partecipazione a dibattiti e assemblee.

Materiali disponibili:

Guida all’obiezione di coscienza al servizio militare;
Elenco degli enti di servizio civile;
Guida per gli obiettori fuori termine;
Manuale sui diritti/doveri degli obiettori in servizio civile;
Guida all’obiezione totale;
Leggi, Circolari, Interrogazioni parlamentari;
Libri, riviste e audiovisivi dell’area pacifista;
Guida all’obiezione alle spese militari.

La sede è aperta nei seguenti orari:

dal lunedì al venerdì, dalle 14.30 alle 18.30;
il sabato dalle 10.00 alle 12.00.

Le consulenze sono gratuite

Cresce ancora l’obiezione di coscienza!

Finalmente, dopo i consueti ritardi, il Ministero della Difesa ha reso noti i dati relativi all’obiezione di coscienza per il 1997

Apprendiamo così che, nel 1997:

sono state presentate 54.867 dichiarazioni di obiezione di coscienza, contro le 47.842 del 1996; l’incremento è di 7.043 dichiarazioni, pari ad un + 14,87 %;<<<
sono stati avviati al servizio civile 51.467 obiettori.<<<

Interessante è lo studio della tabella I, riportante i dati suddivisi per Regioni Militari, da cui risulta che:

la Regione Militare con l’incremento percentualmente più elevato è la Sicilia ( + 52,84%);
anche le Regioni Centrale e Sardegna hanno un buon incremento percentuale (circa il 30%);
l’incremento numerico più consistente è rappresentato dalla Regione Nord-Ovest + 3.226 dichiarazioni;
il Distretto Militare dove sono state presentate il maggior numero di dichiarazioni è quello di Bologna (7.368), seguito da Milano (6.945) e Torino (4.771).

Purtroppo il Ministero non rende noti i raffronti numerici con i giovani di leva; sarebbe infatti interessante sapere con precisione sia la percentuale, sia l’incremento di obiettori in rapporto al numero totale dei chiamati alla leva.<<<

In epoca di calo demografico la percentuale di obiettori, confrontata con i giovani di leva, aumenti ancor più rapidamente del 14,87%.

Il rapporto tra obiettori e giovani di leva, suddiviso per regioni militari, inoltre, ci direbbe anche quali sono le aree dove l’obiezione risulta maggiormente diffusa tra i giovani; si potrebbe in tal modo verificare se l’identikit dell’obiettore tipo corrisponde a quello di un giovane, con istruzione medio alta, abitante in città del Nord oppure se è in corso un’inversione di tendenza con forte espansione dell’obiezione al sud e nelle aree rurali o di provincia.

Tabella I – Dati ripartiti per Regione Militare

Regione

1996

1997

differenza

%

Nord-Ovest

16.772

19.948

+ 3.226

+ 19,29

Nord-Est

5.466

7.085

+ 1.619

+ 29.61

Tosc.Emil.

10.026

11.368

+ 1.342

+ 13.38

Centrale

5.086

6.795

+ 1.709

+ 33.60

Meridionale

5.391

6.473

+ 1.082

+ 20.07

Sicilia

1.667

2.548

+ 881

+ 52.84

Sardegna

490

650

+ 160

+ 32.65

Capitanerie di Porto

2.976

*

Totale

47.824

54.867

+ 7.043

+ 14.87

* Per il 1997, i dati relativi alle Capitanerie di Porto sono stati assorbiti da quelli delle altre Regioni Militari.

 

Enrico Peyretti, Dall’albero dei giorni. Storie quotidiane su fatti e segni.< Introduzione di Goffredo Fofi, coll. Quaderni di Ricerca n. 58, pp. 180, L. 18.000.

Il volume raccoglie una parte degli articoli apparsi sulla rivista Rocca nella rubrica Fatti e segni tra il 1989 e il 1995. La scelta degli articoli, compiuta dall’editore fra quasi centottanta e raccolti sotto tematiche orientative (Ascolti; Misteri; Pasque; Coscienze; Orizzonti; Età; Ricchezze; Giorni; Vite), ha privilegiato testi che hanno un legame intimo con i fatti della quotidianità.

Le prospettive che l’autore offre nelle sue “soste quotidiane” costituiscono l’originalità del volume. Goffredo Fofi, infatti, nell’Introduzione, scrive: “La differenza di questo libro sta, mi pare, nella pacatezza con cui una storia di pratica quotidiana della riflessione religiosa o spirituale si esprima legando tra loro i temi più intimi e umili con i grandi temi dell’etica, della nostra volontà di risposta ai mali del mondo e dell’uomo. Su questo albero dei giorni fioriscono pensieri che non sono ovvi, che hanno solide radici, che si protendono in molte direzioni. Si tratta di “problemi di etica” affrontati dal punto di vista di “una pratica spirituale”. Questi problemi sono indiscutibilmente anche nostri, nascono da necessità di investigare che non è solo dell’autore”.

Dal 1986 gestisco una piccola libreria a Faenza e in questi 12 anni ho visto decine di operazioni promozionali di questa o quella casa editrice, ma mai mi era capitato di vedere una iniziativa come quella architettata quest’anno dalle Edizioni Piemme. Di cosa si tratta è presto detto.

La casa editrice di Casale Monferrato ha concluso un accordo con la multinazionale Nestlè per “vendere subito molti libri e conquistare nuovi clienti”, come candidamente si dichiara nella circolare che ho ricevuto in questi giorni. Dal 15 aprile al 15 maggio, in tutta Italia, le librerie che aderiranno alla iniziativa offriranno gratuitamente centinaia di merendine Nestlè alle scolaresche che si recheranno nei negozi, oltre che proporre, ovviamente, i libri per ragazzi della Piemme, superscontati per l’occasione.

Per questa campagna, la casa editrice non ha badato a spese: sempre secondo quella circolare, saranno spediti in tutta Italia oltre 13 milioni di inviti ai ragazzi e alle scuole elementari e medie.

Ai distratti dirigenti della Piemme (casa editrice di origini cattoliche…) vorrei ricordare che in Italia è attiva da diversi anni una campagna di boicottaggio contro la Nestlè per le sue tecniche di marketing del latte in polvere nei paesi del Terzo Mondo. Tra le popolazioni povere l’allattamento artificiale, quando non sia strettamente necessario, è pericoloso per i bambini a causa delle scarse o nulle condizioni igieniche. Secondo l’Unicef, 1.500.000 bambini muoiono ogni anno nel mondo a causa dell’allattamento artificiale. Per questo motivo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha emesso un codice che regolamenta la promozione del latte in polvere; alla Nestlè in particolare (questo il motivo del boicottaggio) è stata più volte contestata la violazione di queste norme in diversi paesi.

Visto che certi signori sentono solo la voce del denaro, farò obiezione di coscienza: non solo non aderirò alla nuova campagna Piemme-Nestlè giocata sulla pelle dei bambini, ma per un mese rimuoverò dagli scaffali tutti i libri di quella casa editrice. Sarà come una goccia nel mare, lo so, ma almeno quella goccia non l’avranno.

Faccio appello agli insegnanti e alle scuole perché parimenti non aderiscano a questa campagna immorale e consumistica e affinchè spendano un po’ di tempo, se lo vorranno, per spiegare ai loro scolari che mentre nel Nord ricco del pianeta si sgranocchiano le merendine della Nestlè, migliaia di bambini al Sud muoiono di fame, di condizioni igieniche inesistenti, di sottosviluppo.

Renzo Bertaccini
Faenza

Il Movimento Nonviolento lavora per l’esclusione della violenza in ogni settore della vita sociale (…). Le fondamentali direttrici di azione sono: 1. l’opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro ogni forma di sfruttamento, oppressione, privilegio, discriminazione; 3. la creazione di organismi di democrazia dal basso (…); 4. la salvaguardia dei valori di ogni singola cultura e dell’ambiente naturale (…). L’azione nonviolenta implica il rifiuto dell’uccisione, dell’odio e della menzogna, dell’impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di critica. Essenziali strumenti sono: l’esempio, l’educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile”.

Del lavoro realizzato dal Movimento in ciascuno degli aspetti cui lo impegnava la sua Carta ideologico-programmatica sopraesposta, dà conto il volume testé edito “Nonviolenza in cammino<“, che documenta sulle vicende salienti dei suoi primi trent’anni di vita (iniziata nel 1962). Una fede ed un’opera messi a prova tra misconoscimenti ed avversioni pervicaci, lungo decenni dominati dall’esaltazione della violenza sia dei movimenti rivoluzionari, sia del potere di vertice predisposto alla violenza bellica fino allo scatenamento di una guerra atomica planetaria. Contro siffatti processi devastanti, intesi all’affermazione esclusiva e con qualunque mezzo dei propri interessi di parte, il pensiero e l’agire nonviolenti si volgono a indirizzare ad un diverso orientamento la coscienza e l’operare umani, per una realtà radicalmente mutata in cui viga il preminente rispetto della vita, della libertà e del miglioramento di tutti.

Il germe di questo nuovo orientamento e prassi si appalesa vivo e vigoroso nella documentazione offerta da “Nonviolenza in cammino”; un germe nutrito da un’ampia e perspicua elaborazione delle idee e sostanziato dall’originalità, varietà e concretezza dell’azione pratica, che fanno del Movimento Nonviolento, oltre che il realizzatore di precise campagne, l’anticipatore altresì di tante istanze ora affluenti nel più largo ambito socio-politico – sì da risultarne pienamente convalidato il giudizio espresso nei riguardi del Movimento Nonviolento quale “il centro più attivo e più autorevole della nonviolenza in Italia”.

Il volume è corredato da decine di fotografie, vivida testimonianza della verità delle vicende raccontate.

Pietro Pinna

Troppa ideologia

Cara Redazione di AN,

sul numero di Novembre ho letto l’articolo “Allarme in cucina: manipolazioni genetiche nel piatto” nel quale compaiono alcune affermazioni che mi hanno lasciato alquanto perplesso. Non vorrei affrontare il problema in un’ottica troppo vasta e generale, mi limiterò quindi ad osservare che l’agricoltura produce solo prodotti animali e vegetali selezionati dalla mano dell’uomo. Se ci pensiamo bene e ricordiamo semplicemente anche solo il contenuto delle nostre tavole di 20 o 30 anni fa, ci accorgiamo che i cibi che abbiamo a disposizione sono tanto cambiati dal punto di vista genetico, senza che nessuno, come è naturale, se ne sia preoccupato; questo, infatti, è un fenomeno che dura da millenni.

L’uomo da sempre ha scelto e selezionato specie animali e vegetali portatrici di geni con caratteristiche a noi più favorevoli, scartando specie simili con caratteristiche peggiori, magari utilizzate fino a quel momento. Lo spostamento dei geni delle piante è sempre avvenuto per via naturale attraverso la diffusione dei pollini, e l’uomo ha scelto di coltivare le piante con le combinazioni migliori per l’agricoltura ed a lui più

Detto questo veniamo ai vari punti toccati dall’articolo:

1 – circa quanto si dice sul comportamento delle multinazionali della chimica mi pare che non si sia obiettivi (non sono interessato direttamente, né indirettamente; sono in pensione e lavoravo in un settore completamente diverso : i prodotti per ufficio); direi che oltre allo sviluppo futuro del mercato delle biotecnologie, bisognerebbe onestamente contrapporre la drastica caduta delle vendite dei pesticidi, insetticidi ecc. resi inutili dalle varietà selezionate ed autoresistenti. All’aumento di fatturato per Monsanto, Novartis ecc. occorre contrapporre la diminuzione per Bayer, Du Pont, Schering ecc. ed i tanti vantaggi per la nostra salute. Non so da quali fonti Paolo Macina abbia tratto i dati che prevedono che il mercato mondiale delle biotecnologie passerà dagli attuali 5,1 miliardi di Ecu agli 83,3 del 2000.

Io sono a conoscenza di dati che riguardano un settore particolare, che, almeno in apparenza, contraddicono quelle affermazioni. Si tratta delle barbabietole da zucchero. Il seme attualmente costa 190.000 lire per “unità” da 100.000 semi; per 1,7 unità, cioè circa 323.000 lire, cui si deve aggiungere il costo dei vari trattamenti di diserbo con prdotti di sintesi che varia dalle 300.000 alle 500.000 lire per ettaro. In un prossimo futuro, il seme della bietola “BRR”, cioè selezionato con un gene resistente al disseccante ROUNDUP Ready costerà circa il 30% in più di quello attuale: è cioè prevedibile che per seminare un ettaro si spenderanno circa 420.000 lire per il seme “BRR”. Per diserbare usando il Roundup Ready occorreranno

2 – paragonare poi la manipolazione genetica e l’industria delle biotecnologie e gli eventuali possibili rischi ai problemi ed agli effetti causati da atrazina, DDT, e pesticidi mi sembra inaccettabile. Caso mai è vero il contrario, perché questo è proprio quello che si potrà evitare con le biotecnologie. Non potendo pensare a malafede, debbo constatare in proposito una certa superficialità.

3 – circa la possibilità che il gene che resiste all’erbicida del patrimonio della soia (SRR), delle barbabietole (BRR) e simili si trasferisca su altre piante, osservo che:

– la soia, le barbabietole ecc. resistenti al Roundup R. possono essere distrutte completamente da qualsiasi altro prodotto diserbante o disseccante

– è vero che il polline può passare da pianta a pianta; ma solo della stessa specie (il polline di un melo non può fecondare una melanzana ecc., la natura ha creato delle barriere naturali insormontabili). Il caso riferito dell’Australia è solo una conferma di questo. Cosa è stato segnalato? Coltivando della colza (Brassica oleacea) resistente al Roundup R., si è visto che piante selvatiche di Brassica si sono ibridate, cioè il gene resistente è passato, attraverso il polline, ad alcune piante selvatiche fino alla 4a generazione. Questo fenomeno avviene sempre anche quando si coltiva colza normale vicini a della Brassica selvatica, è cioè possibile l’ibridazione di piante della stessa specie. Quindi sotto questo aspetto non c’è proprio da temere nulla, a mio parere.

4 – per quanto riguarda poi il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, credo che in agricoltura questa divisione sia in parte forzata perchè non c’è un vero e proprio divario; pensiamo per esempio che il paese più avanzato in questo settore sembra proprio la Cina.

Per concludere, credo che dovremmo essere assai meno prevenuti in generale, ma soprattutto su quello che si tenta di fare nel settore dell’agricoltura; in questo senso infatti dovremmo essere molto più preoccupati dei tantissimi prodotti di sintesi chimica che si continuano ad utilizzare.

Da sempre la mano dell’uomo scegliendo specie animali e vegetali più produttivi, ha selezionato individui con geni aggiunti o modificati dalla natura stessa; la ricerca genetica non fa che tentare di accelerare a nostro vantaggio questa selezione.

Pietro Poggi
Banchette – TO

Boicottaggio anche dalla parrucchiera

È da tanto che se ne sente parlare: prima solo tra gruppi di amici che coltivano interessi un po’ fuori dalla norma, poi sono comparsi i primi articoli sui giornali più sensibili a certe tematiche, infine anche sulle riviste che si sfogliano svogliatamente dalla parrucchiera mentre si aspetta, in mezzo a vapori di shampoo e nuvole inebrianti di lacca, il proprio turno.

Se quindi, prima, interessarsi ai problemi del terzo mondo e alla salvaguardia della natura e impegnarsi per una vita migliore per tutti era considerato un impegno per sognatori ottimisti, ora la gente comincia ad uscire da quel torpore inerte e inizia a guardarsi in giro, armata della più sincera buona volontà.

Il problema che si presenta più facilmente consiste nel mettersi realmente in contatto con quelle associazioni, gruppi volontari, cooperative, che realmente organizzano e svolgono le attività “etiche” di cui si sente più spesso parlare.

Per caso ho comprato il libro “Boycott!” del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e devo confessarvi di averlo praticamente divorato. Di Commercio Equo e Solidale a casa mia se ne parla spesso, dato che entrambi i miei genitori vi collaborano da anni, di boicottaggio ne avevo sentito parlare, ma sempre in termini sommari e superficiali. Questo libro invece mi è stato di grande aiuto, poiché finalmente mi ha schiarito quelli che erano per me ideali importanti, ma sfumati dalla mancanza di una adeguata informazione.

Solo se cambiamo i nostri orizzonti, se apriamo gli occhi su quella verità “vera”, allora, forse, potremo sentirci veri cittadini del mondo. Una goccia nell’oceano, innocua, ma che può anche bucare la roccia, se persevera. L’importante è crederci, ma ancora più importante è agire.

Forte di quella consapevolezza, vorrei quindi conoscere maggiormente i vostri programmi, le vostre campagne, per potervi partecipare in maniera attiva e impegnata.

Maria Chiara Antonini

Varese

Dominique Mèda, Società senza lavoro. Per una nuova filosofia dell’occupazione,

La Filosofa Dominique Mèda, che in questo ricchissimo libro affronta il tema del lavoro, sviluppa la sua “filosofia dell’occupazione” all’interno di una riflessione complessiva sui fini della società e soprattutto su chi, all’interno di essa, decide di tali fini. Ossia inquadra la partita del lavoro all’interno della più ampia partita tra economia e politica. “Si tratta di sapere se il percorso delle nostre società sia completamente determinato dall’esterno, come qualcuno vorrebbe farci credere – dalla mondializzazione degli scambi, dall’internazionalizzazione dei rapporti e delle comunicazioni, dall’evoluzione economica – e se dobbiamo quindi adottare passivamente i criteri economici e tecnocratici oggi in vigore, condivisi da tutti i paesi e considerati gli unici capaci di “tenerci a galla”, oppure se non disponiamo invece di una capacità di decidere in parte dell’evoluzione delle nostre società, e in particolare di quella in cui viviamo. C’è ancora un posto per la scelta dei fini – per quella che un tempo si chiamava la “politica”? Rimane ancora uno spazio politico, uno spazio per discutere e decidere collettivamente di tali fini?”. La capacità di ricostruire lo spazio della politica nella scelta dei fini della società è la condizione per rompere la tenaglia occupazione-disoccupazione.

Attraverso una sorta di storia del lavoro la Mèda mostra come la disoccupazione sia una condizione artificialmente introdotta nella società moderna, grazie al primato assunto dall’economia sulla politica, ed alla centralità da quella assegnata al lavoro nella vita sociale.

Nelle società non industrializzate del passato e del presente, nella civiltà classica e nel medioevo il lavoro è un’attività marginale o considerata indegna di un cittadino o svolto in quanto punizione divina e non a fini di guadagno. Solo nell’età moderna, da Smith e dai suoi successori, Malthus, Say, ecc., il lavoro viene connesso alla “ricchezza delle nazioni”, anzi diventa proprio “ciò che produce ricchezza”. La sua natura è dedotta dalla natura stessa della ricchezza. Scrive Malthus nei “Principi di economia politica”: “Un paese sarà pertanto ricco o povero a seconda dell’abbondanza o scarsità degli oggetti materiali di cui è fornito il territorio”. “Questa scelta è decisiva” incalza la Mèda, “non soltanto perché attribuisce all’insieme della società il perseguimento di un obiettivo singolarmente ridotto, ma soprattutto perché comporta enormi conseguenze per la definizione del lavoro. (…) Lavoro significa adesso lavoro produttivo, in altre parole esercitato su oggetti materiali e scambiabili, a partire dai quali il valore aggiunto è sempre visibile e misurabile”. È in questa fase che il lavoro diventa oggetto di scambio, ad esso viene attribuito un prezzo e può essere venduto e comprato come qualsiasi altra merce.

Il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che in occidente ha retto l’equilibrio sociale di questo secolo, non ha avuto come obiettivo la liberazione dal lavoro, o dalla sua mercificazione, ma il “renderne sopportabile la realtà”. Non ha rimesso in causa il rapporto salariale ma ha cercato di renderlo accettabile migliorando le condizioni dei lavoratori, aumentandone il reddito, i beni di consumo, i servizi e le protezioni. Il lavoro-merce pertanto ha da un lato consentito lo sviluppo del capitalismo e dall’altro garantito i consumi ai lavoratori, necessari al funzionamento ed all’espansione dello stesso sistema capitalista.

Conseguenza di ciò è che siamo diventati una società di lavoratori e consumatori. “Non immaginiamo più un rapporto con il mondo e con l’azione diverso da quello della produzione e del consumo: possiamo esprimerci solo attraverso la mediazione di oggetti o di prestazioni e di produzioni, non possiamo agire se non consumando”. Chi non ha lavoro, chi è “disoccupato”, si trova perciò in una situazione di marginalità relazionale, privato della possibilità stessa di intrattenere rapporti con il mondo. Ed oggi – che lo sviluppo capitalista “ha esteso il mercato alle dimensioni del mondo, ha diviso il lavoro fino ad un punto che non era mai stato raggiunto prima e ha fatto dell’uomo una semplice appendice, peraltro a volte superflua, del capitale” – la mancanza di lavoro diventa sempre più diffusa nonostante lo smisurato aumento della ricchezza complessiva.

Che fare? Dopo un capitolo centrale dal titolo “Critica dell’economia” in cui analizza le modalità attraverso le quali l’ideologia economica si è affermata come unica “scienza” in grado di indicare le finalità della vita in società, riducendo la politica ad un proprio “sottoprodotto” che “deve limitarsi a garantire il buon funzionamento dell’ordine naturale, le cui leggi sono determinate dall’economia”, la Mèda sostiene che la possibilità di rispondere ai problemi della scarsità di lavoro è legata alla capacità di ripresa dell’azione collettiva, ossia proprio della politica. Sul fronte del lavoro si gioca l’idea stessa di società, la capacità di immaginare un legame sociale diverso da quello stabilito dall’economia sull’unica dimensione produttivo-consumistica.

Se la politica riprendesse il ruolo di guida, riportando l’economia agli scopi da essa indicati sarebbero, a giudizio della Mèda, due le strade da percorrere contemporaneamente: la riduzione del tempo di lavoro e l’invenzione di uno strumento di distribuzione del reddito diverso dal lavoro. “Il vero problema delle nostre società” spiega “non è affatto la scarsità di lavoro ma la mancanza di un modo convincente di ripartizione (…). La nostra distribuzione avviene per riversamento nella categoria della disoccupazione”. E poiché il lavoro continua ad essere un bene che permette l’accesso ad altri beni, esso “deve assolutamente essere distribuito (…) per permettere contemporaneamente una riduzione dei tempi individuali di lavoro e un accesso di tutti ad esso”. “Ma” si chiede la filosofa “è forse legittimo che il lavoro continui a esercitare questa funzione di distribuzione delle ricchezze quando di fatto esso si riduce, quando ne auspichiamo la riduzione, quando il progresso tecnico continua a ridurne il volume?” Non è necessario cercare altri strumenti di ripartizione del reddito sganciati dal lavoro?

Pasquale Pugliese

Di Fabio