• 20 Aprile 2024 14:09

Azione nonviolenta – Maggio 2006

DiFabio

Feb 2, 2006

Azione nonviolenta maggio 2006

– Questa è la guerra, signori (di Gianfranco Formenton)
– Verso il Referendum costituzionale. Salvare la Costituzione di Calamandrei e bocciare la riforma di Calderoli (di Andrea Pugiotto)
– Obiezione di coscienza dei ragazzi e delle ragazze e delle persone richiamabili (a cura del Gavci)
– Ricettario per una salvezza possibile. Fermarsi e un passo indietro.Fare una scelta unilaterale: dimissionare! Poi si vedrà…. (di Christoph Baker)
– Una forza più potente: scheda 4: “Cile 1983-88: Sconfitta di un dittatore” (a cura di Luca Giusti)
– Campi estivi nonviolenti 2006 (a cura del MIR-MN Piemonte e Valle d’Aosta)

LE RUBRICHE

– Giovani. Campo estivo nonviolento, un’esperienza da rifare (a cura di Laura Corradini)
– Educazione. Educare alla nonviolenza con l’arte del teatro (a cura di Pasquale Pugliese)
– Disarmo. Un giorno gli uomini si vergogneranno di aver costruito le armi (a cura di Massimiliano Pilati)
– Economia. Ma cos’è ‘sto partito umanista? (a cura di Paolo Macina)
– Per esempio. Il giorno in cui le donne scioperarono (a cura di Maria G. Di Rienzo)
– Musica. Una musica pacifica aperta alla democrazia estrema (a cura di Paolo Predieri)
– Cinema. Democrazia senza legge, tra orrore e folclore (a cura di Flavia Rizzi)

QUESTA È LA GUERRA, SIGNORI

di Gianfranco Formenton *

Primo comandamento
di tutti gli eserciti:
tu non avrai altra ragione
all’infuori della ragione
(impazzita)
di colui che ti manda.
I soldati devono solo uccidere
ed essere uccisi.
(David Maria Turoldo)

Questa è la guerra, signori, che ora è il dolore della nostra Italia ma che è la quotidiana tragedia di gran parte dell’umanità.
Ora siamo noi a piangere perché a morire sono stati i nostri figli ma questa è la guerra, signori. I soldati fanno questo di mestiere: “uccidere ed essere uccisi”.
Il dramma è l’ipocrisia degli uomini di Stato che prima li mandano ad “uccidere e ad essere uccisi” e poi ostentano un dolore attonito ed ufficiale che non ha nessuna forza morale su di noi che conosciamo i meccanismi di questa come di tutte le altre guerre.

Questa è la guerra, signori, che obbedisce solo alla “ragione (impazzita) di colui che ti manda”. Sono i “mandanti” i responsabili di questi morti come di tutti gli altri morti senza onori. Delle migliaia di morti civili che nessuno aveva mandato, senza patrie e senza politici e presentatori televisivi ad ostentare dolori ufficiali.
Il “valore aggiunto” di essere italiani (o americani) non toglie alla morte la sua tragicità e il suo carico di dolore. Le madri, i figli, le fidanzate, non hanno patria, non hanno nazionalità.
Soffrono tutte allo stesso modo, indicibilmente allo stesso modo, anche le madri, i figli, le fidanzate dei “nemici”.

Questa è la guerra, signori, che sovverte i comandamenti della vita, che tutto distrugge davanti a se, che non sopporta eccezioni “umanitarie”. Perché tutti i soldati sono uguali e tutti i soldati per le proprie patrie sono i migliori ma tutti uccidono e sono uccisi. E tutti sono uomini ingannati dalle bandiere e dalle ideologie e dal fanatismo o dalle necessità economiche che li convincono a buttare la vita per qualche migliaia di dollari al mese.

Questa è la guerra, signori. Ma non raccontate ai nostri ragazzi che questo è un bel morire, che questa è la patria, che questo è un ideale. Il petrolio, il “posto al sole”, i “sacri confini”, la “guerra al terrorismo” non sono ideali. Sono sempre e solo “pretesti” dei furbi governanti di questo mondo per convincere tanti piccoli uomini a morire per loro.
Sì, è triste e drammatico dirlo, ma questi poveri ragazzi non sono morti per nessuna patria che non siano le menzogne di qualche petroliere americano e le ambizioni di qualche piccolo politico italiano.

Questa è la guerra, signori.
E se anche l’ipocrisia del teatrino della politica italiana ha stabilito che ora è il momento del dolore, è un dovere civile gridare l’assurdità di questo dolore e del dolore degli altri, dei troppi, dimenticati, e rifiutarsi di ingrossare le fila delle retoriche e vuote “liturgie” patriottiche che da sempre preparano altre guerre ed altri morti.

Questa è la guerra, signori. e noi ci rifiutiamo di servire queste meschine “patrie mercantili”.

“Deus non vult!”

E poi sulla terra intera a innalzare
monumenti “Ai Caduti”!
così felici di essere caduti!
Ma provate a fissare quei corpi squarciati,
a fissare la loro smorfia ultima
sulle facce frantumate,
e quegli occhi che vi guardano.
Provate a udire nella notte
l’infinito e silenzioso urlo degli ossari:
“Uccideteci ancora e sia finita”!
(David Maria Turoldo)

* parroco di S. Angelo in Mercole e
S. Martino in Frignano (Spoleto)

Condividiamo questo bell’articolo di don Gianfranco. E perciò lo pubblichiamo come “nostro” editoriale, dopo l’attentato di Nassiriya del 27 aprile, che ha provocato tre morti fra i soldati italiani, con tanto dolore e tanta ipocrisia conseguenti

Verso il Referendum costituzionale
Salvare la Costituzione di Calamandrei e bocciare la riforma di Calderoli

Di Andrea Pugiotto *

1 La posta in palio nel referendum costituzionale del giugno prossimo è decisiva. Le modalità di approvazione di quella che è a tutti gli effetti una nuova Costituzione (e non una sua semplice revisione), i suoi contenuti e la sua logica di fondo segnano infatti il passaggio dalla Costituzione come regola e limite al potere alla Costituzione come strumento di potere. Votare contro la sua approvazione referendaria significa, dunque, fare argine a tale deriva.
Questa la tesi che – con accenti preoccupati – vorrei dimostrare, ricorrendo a quattro argomenti.

2. Il primo fa leva sulla durata nel tempo come vocazione di ogni Carta costituzionale, quale atto fondamentale dell’ordinamento. Ciò non significa pietrificarne i contenuti, suscettibili di puntuali rinnovazioni ma secondo una logica di manutenzione del testo costituzionale implicita nelle sue apposite procedure di revisione.
In Italia, dalla metà degli anni ‘80, si assiste invece ad un uso congiunturale della Costituzione, attraverso sue radicali riscritture, testimoniato da tre Commissioni bicamerali (Bozzi 1985; De Mita-Iotti 1993; D’Alema 1997) e dalla modifica dell’intero Titolo V (l. cost. n. 3 del 2001).
Il testo su cui voteremo dà un colpo alla stabilità della Carta costituzionale, ancora più grave. Perché – contrariamente alle Bicamerali, fermatesi alla fase istruttoria – è approdato alla sua approvazione parlamentare definitiva. Perché – diversamente dalla revisione del 2001 fatta dal centrosinistra – non riguarda un solo titolo, ma metà della Costituzione. Perché per effetto di faticosissime norme transitorie, l’entrata in vigore delle sue disposizioni avverrebbe a scaglioni: alcune subito, altre nel 2011, altre ancora nel 2016, aprendo così un lungo periodo di transizione che minaccia di rendere inservibile la Costituzione (vecchia e nuova).
L’idea della stabilità costituzionale così è colpita al cuore, delegittimando – con la sua vocazione alla durata – l’attualità e l’utilità della Costituzione ancora vigente.

3. Il secondo argomento fa leva sull’assenza di coerenza interna alla Costituzione riformata. Le operazioni di scambio avvenute tra le tante anime del centro destra ha, infatti, prodotto un testo normativo di complessa interpretazione, aperto ad esiti applicativi mutevoli e largamente imprevedibili. Qualche esemplificazione può darne prova.
a) La cd. devolution, che allarga le materie di potestà esclusiva regionale sazia l’orgia di federalismo verbale della Lega. Ma entra in rotta di collisione con l’ampliamento delle competenze esclusive statali, con la resurrezione del sindacato parlamentare sulle leggi regionali contrarie all’interesse nazionale, con l’estensione del potere sostitutivo (legislativo e amministrativo) dello Stato nei confronti delle Regioni: tutti contrappesi voluti dalle altre componenti del centrodestra.
Ognuno ha così innalzato il proprio vessillo. Ma le ragioni che conducono ad una conflittualità, già elevatissima, tra centro e periferia sono in tal modo accresciute.
b) Non c’è coerenza sostanziale tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale. L’una figlia della seconda Repubblica, orientata verso un modello di democrazia maggioritaria. L’altra figlia della prima Repubblica, di cui il proporzionale è stato il cemento. In questo quadro alcune regole costituzionali introdotte dalla riforma finiranno per piegarsi ad esiti diversi da quelli attesi.
Il potere di scioglimento della Camera, formalmente attribuito al Primo Ministro, in un assetto neoproprozionalista scivola nella disponibilità dei leaders dei partiti della sua coalizione, tradendo così la finalità di stabilizzazione del premier e della sua maggioranza. Accadrà lo stesso per la cd. norma antiribaltone, secondo cui «il Primo Ministro si dimette altresì qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni»: se anche 1 solo voto dell’opposizione (purché determinante) decide della sorte del premier, ad uscirne amplificato è il potere di ricatto dei partiti più piccoli (ma numericamente decisivi) della maggioranza espressa dalle elezioni.
c) Infine, tra le nuove e le vigenti norme costituzionali non interessate dalla revisione ci sono gravi contraddizioni (volute?).
Quando, ad esempio, il nuovo art. 67 stabilisce che «Ogni deputato e ogni senatore rappresenta la Nazione e la Repubblica ed esercita le proprie funzioni senza vincolo di mandato», introduce un’inedita distinzione territoriale, prefigurando uno Stato etnicamente eterogeneo. Il che contraddice il principio dell’unità nazionale, sancito dall’art. 5 della Costituzione, solo formalmente non modificato.
Analogamente, la XIX disposizione transitoria finale della nuova Costituzione – nei suoi commi 14 e 15 – introduce una deroga all’attuale procedimento deliberativo per la costituzione di nuove Regioni. E’ una norma filo-secessionista che contraddice ancora il principio dell’unità nazionale, inteso come divieto di modifiche territoriali non partecipate e condivise da tutte le popolazioni coinvolte.
Lo slogan consueto secondo il quale si è inteso modificare solo la Parte II della Carta fondamentale (la Costituzione dei poteri) senza affatto rivederne la Parte I (la Costituzione dei diritti) è falso. Vero è anzi il contrario: i principi fondamentali ed i diritti riconosciuti dalla Costituzione sono inevitabilmente incisi dalla modifica dell’organizzazione costituzionale.

4. Il terzo argomento richiama la fedeltà alla tradizione del costituzionalismo moderno, che imporrebbe soluzioni conformi ai modelli delle altre democrazie pluraliste. Viceversa, la revisione costituzionale introduce meccanismi inediti nel panorama comparato.
a) Così è per la nuova forma di governo che, per larga parte, traspone a livello nazionale il modello istituzionale introdotto – dal 1993 – per Comuni, Province e – dal 2001 – per le Regioni. Segnando così il passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura di un unico organo – il Primo Ministro – senza darsi cura di introdurre adeguati contrappesi. La sede principale della rappresentanza politica (la Camera) si trasforma in un elemento secondario, pensata come interprete sollecita e fedele delle decisioni del Premier. L’investitura popolare diventa il vero perno del sistema, facendo aggio su tutto: diritti dell’opposizione, ruolo della maggioranza, dialettica parlamentare, prerogative del Capo dello Stato. Gli stessi meccanismi di razionalizzazione del sistema (sfiducia costruttiva, norma antiribaltone, potere di scioglimento della Camera) sono congegnati al solo fine di cristallizzare per l’intera legislatura quanto deciso nell’election day, accada ciò che accada nei successivi cinque anni.
b) Estraneo alle tradizioni costituzionali è anche il Senato federale, che tale non è malgrado il nome. La sua composizione e modalità di formazione non configurano un organo di rappresentanza territoriale. Il legame con la Regione dei senatori può essere evanescente: basta essere stati eletti una volta parlamentari nella Regione, oppure risiedere nella Regione alla data di indizione delle elezioni. La stessa norma – molto sbandierata – che ne riduce i componenti entrerà in vigore nel 2016. In compenso il Senato, coinvolto nel procedimento legislativo ma escluso dal circuito fiduciario, viene fornito di un sostanziale potere di veto che rischia di farne una sorta di variabile indipendente, capace di rendere ingovernabile l’intero sistema.
c) Assolutamente inedito è il procedimento legislativo che la revisione costituzionale si è inventata, con i suoi tre tipi di leggi (a prevalenza camerale, a prevalenza senatoriale, bicamerale) distinte in base all’incerto criterio della materia, e con i suoi complicati meccanismi di soluzione degli inevitabili conflitti di competenza. Un dedalo procedurale che segnerà il passaggio dall’inefficiente bicameralismo paritario ad un bicameralismo impossibile.
d) Infine, la discontinuità con le tradizioni costituzionali comuni si riscontra anche rispetto al principio dell’equilibrio tra i poteri.
Il Capo dello Stato non partecipa più alla nomina del Primo ministro né allo scioglimento anticipato della Camera, potere ora nella disponibilità del premier da usare per imporre decisioni in aula, a scapito di quella dialettica tra maggioranza e opposizione che dà senso e garanzia procedurale alla deliberazione parlamentare. La Corte costituzionale viene politicizzata per effetto della quota di giudici costituzionali eletti dal Parlamento (7 su 15) ed esposta a rischio di paralisi per il previsto ricorso diretto dei circa 8.100 Comuni.

5. Resta un ultimo argomento contro la riforma. Andando a segnare i confini e le regole del gioco, una Costituzione deve essere condivisa, non imposta da una maggioranza. Come invece è accaduto.
La proposta di revisione nasce dal Governo in conseguenza di un impegno elettorale. Non era mai accaduto prima. Questo peccato originale ha pervaso, poi, la fase di approvazione del nuovo testo costituzionale, attraverso un dibattito parlamentare strozzato nei tempi e nei modi. La via maestra per le modifiche costituzionali è l’approvazione a maggioranza dei 2/3, che garantisce un largo consenso tra le forze parlamentari di maggioranza e di opposizione. Si è invece scelta l’altra via – pure prevista – della approvazione a maggioranza assoluta, in un muro contro muro con l’opposizione. Si è forzata la ratio dell’art. 138 della Costituzione (e forse anche la sua lettera, che parla di «revisioni» e non di riforme), che consentirebbe solo modifiche puntuali ed omogenee, non riscritture complessive della Carta costituzionale.

6. La Costituzione non è una legge tra le leggi, ma la Legge delle leggi. Va dunque custodita gelosamente e difesa da sue modifiche strumentali, perché appartiene a tutti e non è nella disponibilità di una sola parte politica. Sarà bene ricordarlo, quando sceglieremo tra la Costituzione di Calamandrei e la Costituzione di Calderoli.

* Ordinario di Diritto costituzionale
Università di Ferrara

Il Movimento Nonviolento ha aderito a questa campagna di obiezione di coscienza promossa dal GAVCI di Bologna, e invita tutti i giovani obiettori e le giovani obiettrici a compilare ed inviare il modulo.
Obiezione di coscienza dei ragazzi e delle ragazze e delle persone richiamabili

L’ art. 52. della Costituzione stabilisce che il servizio militare è obbligatorio, nei limiti e nei modi previsti dalla legge.
La legge 331/2000, in un’ottica di trasformazione dello strumento militare in professionale, ha sospeso il servizio militare obbligatorio.

Perché diciamo sospeso, e non abolito?
In primo luogo perché – proprio in base all’art. 52 della Costituzione – è il legislatore a stabilire limiti e modalità del servizio militare obbligatorio, che potrebbe quindi essere ripristinato con una semplice legge dello Stato.
In secondo luogo, perché l’art. 2 della legge 331/2000 prevede che il personale militare impegnato nella difesa nazionale è formato da personale volontario ma anche da personale da reclutare su base obbligatoria (nel caso in cui il personale in servizio sia insufficiente e non sia non sia possibile colmare i vuoti di organico) in due ipotesi: quando sia deliberato lo stato di guerra o quando una grave crisi internazionale, nella quale l’Italia sia coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale (ad es. ONU, NATO), giustifichi un aumento della consistenza numerica delle forze armate.
Tanto è vero che, proprio ai fini del possibile ripristino del reclutamento obbligatorio, i comuni devono continuare a svolgere l’attività di formazione e di aggiornamento delle liste di leva anche per i nati dopo il 1985.

Quali sono, in concreto, le conseguenze di questa nuova disciplina?
In tempo di pace, nel caso in cui dovesse essere ripristinato il servizio di leva obbligatorio, verrebbe automaticamente ripristinato anche il servizio civile, dato che la legge 331/2000 fa salvo quanto previsto dalla legge sull’obiezione di coscienza: i cittadini che intendono prestare servizio civile potrebbero quindi presentare domanda al competente organo di leva entro quindici giorni dalla data di arruolamento.
Ma che cosa accadrebbe in caso di guerra o di “grave crisi internazionale”? La prima differenza è che, in questi casi, il servizio militare obbligatorio può essere ripristinato con decreto del Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, cioè con una procedura molto più rapida e molto meno “garantista” rispetto a quella di una legge ordinaria. La seconda differenza è che sarebbe molto difficile dichiararsi, in quel momento, obiettori di coscienza. La legge 230/1998 sull’obiezione di coscienza prevede infatti che in caso di guerra o di mobilitazione generale gli obiettori di coscienza che prestano il servizio civile o che, avendolo già svolto, sono richiamati, siano assegnati alla protezione civile ed alla Croce rossa. E che cosa succede per chi non ha svolto il servizio civile perché era sospeso? La nuova disciplina non lo prevede.
Per questo è importante che tu faccia la tua dichiarazione di obiezione di coscienza fin da ora.
Per questo è importante che – oltre all’Ufficio leva del Distretto militare di competenza e al tuo Comune di residenza – tu ne mandi una copia anche al Comitato consultivo per la Difesa Civile Non Armata e Non violenta (Ufficio Nazionale per il Servizio Civile – UNSC) e alla LOC, che saranno garanti della tua scelta.
Per questo è importante che tu faccia il piccolo investimento di inviare la tua dichiarazione all’Ufficio leva del Distretto Militare e al Comune di residenza con lettera raccomandata.
N.B.: la legge 331/2000 fa riferimento alla durata di 10 mesi prolungabili , ma non chiarisce per quale durata massima!

all’Ufficio Leva del Distretto Militare di …………………………
via …………………………………………….

al Comune di …………………………
via……………………………………………..

all’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (U.N.S.C.)
via San Martino della Battaglia 6- 00185 Roma

alla Lega Obiettori di Coscienza (L.O.C.)
via Mario Pichi 1- 20143 Milano

Oggetto: Dichiarazione di Obiezione di Coscienza al servizio militare

La recente legge di riforma della leva (n. 331/2000) ha dato avvio al servizio militare professionale, ora esteso anche alle donne in omaggio alla parità costituzionale dei sessi. Il servizio è volontario in tempo normale, ma obbligatorio in caso di guerra e di crisi internazionale, “salvo quanto previsto dalla legge in materia di obiezione di coscienza” (art.2, comma 1, lettera f). Intendendo avvalersi del diritto di opporsi all’uso delle armi,
il/la sottoscritto/a…………………………………………………………………………………….…,
nato/a a ………..……………(…….) , il ……/…./.…….. , codice fiscale ……………………………,
residente a …………………………………………….…(………..….) , c.a.p. ……..………….…….,
in via…………………………..………………….……………………. , n° ………………………….,
si dichiara obiettore/obiettrice di coscienza al servizio militare, ai sensi della legge n. 230/98, in quanto contrario/a all’uso delle armi e a qualsiasi guerra e, previa formazione, disponibile, in caso di necessità, ad attivarsi per la Difesa Popolare Nonviolenta e/o per la partecipazione ai Corpi Civili di Pace.
A tal fine, consapevole della responsabilità penale in cui potrà incorrere in caso di dichiarazione mendace, ai sensi dell’art. 4 della legge 04/01/1968 n. 25 e successive modifiche, dichiara:
1.di non essere titolare di licenze o autorizzazioni relative all’uso delle armi;
2.di non aver presentato domanda da meno di 2 anni per la prestazione del servizio militare nelle FF.AA., nell’Arma dei Carabinieri, nel Corpo della Guardia di Finanza, nella Polizia di Stato, nel Corpo della Polizia Penitenziaria e nel Corpo Forestale dello Stato, o per qualunque altro impiego che comporti l’uso delle armi;
3.di non essere stato/a condannato/a con sentenza di 1° grado per detenzione, uso, porto, trasporto, importazione o esportazione abusivi di armi e materiali esplodenti;
4.di non essere stato condannato con sentenza di 1° grado per delitti non colposi commessi mediante violenza contro persone o delitti riguardanti l’appartenenza a gruppi eversivi o di criminalità organizzata;
5.……………………………………………………………………………………………………..…………………………………………………………………………………………………………

Data ……./……/.……….. Il/La dichiarante ……..……..…….…………………

Ricettario per una salvezza possibile. Fermarsi e un passo indietro.
Fare una scelta unilaterale: dimissionare! Poi si vedrà….

Quando un uomo non si riconosce più nel proprio mondo, nel proprio quotidiano, nel proprio momento storico, cosa deve fare? Dimissionare, ovvio!

Di Christoph Baker

L’andazzo attuale è a dir poco terrificante. Guerre terrorismo atrocità crudeltà fondamentalismi religiosi ed economici crisi sociali e politiche apatie ed indifferenze di ferro muri eretti fossati scavati. C’è un indurimento in giro che fa paura. Facendo parlare i sui più biechi istinti, l’uomo si chiude in atteggiamenti auto-celebrativi e auto-consolatori della peggiore sorte. E’ tutta una gara ad eliminazione, come in tivù. Trionfa la volgarità. A rimpiangere il buon gusto si passa per dandy o rimbambito. A forza di riempire la nostra vita di gadget e tecnologie, non c’è più un millimetro libero per pensare. Fra poco neanche per respirare.

Poi se uno pensa alla distruzione della natura… Povera Madre Terra! Povere creature del cosmo e di ogni microcosmo! La parola catastrofe non rende più l’idea. Anzi, i catastrofisti oggi bevono il tè nei salotti buoni e più ne parlano più non ce ne frega niente. E così possiamo andare avanti con le solite. L’allarme è diventato un sonnifero. Infatti, l’umanità sembra proprio addormentata mentre gli sta per mancare la terra sotto i piedi.

Sorpresi? Ma se era già scritto sui muri da un pezzo. Se già da decenni menti visionari e coraggiose hanno evidenziato il fallimento della società umana incapace di mantenere un buon senso comune e un minimo di saggezza nel “progredire”, parola semi-religiosa ormai messa a nudo da quel che il famigerato progresso ha poi prodotto. Grande è la tentazione di dire semplicemente: ce lo siamo meritati. E chiudere la storia.

Ma con gli altri esseri viventi che non se lo sono meritati per niente, come la mettiamo? Ce ne frega niente un’altra volta? Mi vien da pensare che sarebbe solo giustizia naturale se ci prendessimo tutti la febbre aviaria. La rivincita delle galline, simbolo estremo dello sfruttamento (siete mai stati in un allevamento di polli industriali?). Eccolo il progresso, evviva!

Solo che poi fregarsene è un boomerang. Può dare l’impressione di avere lasciato i problemi alle spalle, ma prima o poi te li ritrovi davanti casa. Stare al passo con questa società dei consumi, con questa cultura materialista, diventa sempre più una corsa affannosa e senza tregua. Hai voglia di comprare, di accumulare, di rinnovare l’armamento elettrodomestico, di inseguire l’ultimo software, di riempirti le orecchie, le mani e gli occhi della generazione più avanzata di cyber-tecnologia, non ce la farai mai. C’è il trucco in quel girone dantesco. Si chiama dipendenza. Siamo tutti dei drogati, altro che 23 spinelli a casa (poi non ho capito, ma sono 23 spinelli al giorno…?). Non hai comprato l’ultimo modello di una qualsiasi cosa, che c’è già una novità in agguato…

Che noia poi. Che solitudine. E che tristezza. Mentre il mondo là fuori peggiora di giorno in giorno, ecco che sentiamo insinuarsi nelle nostre cellule ogni forma di cancro di malessere, di putrefazione. E non saranno le palestre a salvarci né le pillole integrative di vitamine. Vuoi un bell’esempio: fare jogging in città. Sarebbe salutare questo? Imporre uno sforzo fisico al tuo corpo e poi per aiutarlo, inalare interi polmoni di monossido di carbonio? Ma per favore. Intanto le città si popolano sempre di più e le campagne sono lasciate alla deriva. Diventeranno presto solo cartoline postali ingiallite in fondo a qualche cassetto. Nel giro di due generazioni, nessuno saprà più come profumava e cantava la campagna…

Che ce ne frega. Abbiamo il progresso tecnologico che ci riempirà i vuoti con qualcosa, fidati. Non ci sarà tempo per i rimpianti. Ci saranno meraviglie che gli anni cinquanta sembreranno l’età della pietra. Vedrai che roba, che fuochi d’artificio, che spettacolo. Saremo tutti più virtuali che reali. Tutti su un blog, su un forum, dentro alla rete in comunicazione permanente ed esponenziale che non si capirà più se stai chiedendo rispondendo avviando chiudendo navigando sprofondando inventando copiando ingurgitando o espellendo.

Sapete che vi dico: erano meglio gli anni cinquanta!

Ma è possibile che nessuno si ribelli? Va bene così e basta? Ma tutta questa miseria quotidiana? Le mamme che ammazzano i figli neonati. I padri che sterminano la famiglia, che filmano tutto il massacro con la videocamera e poi si sparano in diretta. I ragazzi che si suicidano senza lasciare neanche un biglietto. I morti sulle strade. I morti di cancro. I morti di noia. Tutto questo massacro e non c’è un minimo accenno di rivolta?

Eppure nella ribellione vi è sempre un filo di compassione, un tentativo di comunicazione primordiale, un appello alla fratellanza. Un uomo non si sbilancia verso gli altri se non sente una speranza, anche una residua speranza, di coinvolgere il prossimo nella sacrosanta ricerca di un domani migliore.

E’ con questo spirito che bisogna affermare che dimissionare è possibile.

Intanto peggio di così non può andare. Abbiamo veramente toccato il fondo e raschiare il barile diventa noioso (in questa affermazione, sono confortato dagli sguardi che incrocio in giro). Dovere convincersi ogni mattina al risveglio che vale ancora la pena correre per immettersi nel traffico, immischiarsi nell’impressionante folla degli alienati di cui facciamo parte, timbrare anche quando non è obbligatorio, obbedire ad ordini intrinseci, gesticolare a vanvera, riempirsi la bocca di ovvietà, leccare il culo a prescindere e così via, diventa sempre più pesante. O no?

In nome del diritto nobile alla pigrizia, si potrebbe intanto rimanere a letto una mattina e darsi per ammalati. Provare per credere. Grattarsi lentamente un po’ dappertutto per aiutare la circolazione. Poi a piedi nudi per casa con una nonchalance che manco Ava Gardner e con maestosa lentezza soffermarsi sulle abitudini domestiche, alzare le sopraciglia divertiti di fronte alle mosse apparentemente così fondamentali tipo lavarsi ogni mattina – ma chi l’ha detto che bisogna lavarsi ogni giorno? – o trangugiare un cornetto industriale con un caffè insipido o scegliere la giusta cravatta il giusto tailleur. Ah, il look.

Seduti con calma in salotto o tornati a riposare a letto, si può cominciare a intravedere una via di fuga dalla prigione della routine dal carcere dello status quo. Ma per questo bisogna avere un certa disciplina. Serve la capacità di inseguire un pensiero o un’idea fino in fondo. Roba che di questi tempi è un’impresa. Siamo talmente abituati ad essere interrotti da qualcuno o da qualcosa che quando non succede ci pensiamo da soli ad interromperci (tipo andare a controllare le e-mail in arrivo, dieci secondi dopo averlo appena già fatto).

Inseguire un pensiero vuol dire lasciarsi trasportare in un piccolo viaggio ozioso verso l’incognito. Non sai mai dove ti porterà il pensiero. Puoi illuderti di controllarlo, come fanno da millenni i filosofi, ma se provi a fermarlo, muore. O rimane in sospeso. Il pensiero è innanzitutto un grido di libertà. Non sopporta l’ingabbiatura razionale, al contrario di quanto si possa dedurre studiando i maîtres à penser di scolastica memoria. Ma se ti lasci abbindolare vedrai che spasso. Vedrai che stupore. Scoprirai che hai dentro cose inaudite, incredibili, impensate (è il caso di dirlo…). Ti lascerai incantare da ricchezze mai immaginate. Inseguendo un pensiero, hai voglia a riempire la giornata di significato. Hai voglia di avere una ragione di vivere. Finalmente.

Lasciamo che il nostro pensiero sgomberi il terreno da tutto l’inquinamento mentale che abbiamo accumulato in anni di scuola, di convenzioni, di luoghi comuni, di false certezze. Lasciamoci trasportare nelle praterie incontaminate dell’utopia. Sognare è un diritto, perbacco! E dobbiamo resistere. Sognare rimane una delle poche cose non completamente cooptate dalla società dei consumi. Sognare è una sana attività, un serio impegno, una grande opportunità. Solo dal sogno possono nascere idee veramente nuove e rivoluzionarie. In un sogno, ogni uomo può comporre la propria musica, miscelare i colori favoriti, scolpire la materia primordiale che sono i nostri desideri.

Il mio sogno più grande è vivere pienamente la vita. Per questo mi sono convinto che sono fondamentali le scelte unilaterali. Non si può stare alla finestra ad aspettare un mitico movimento di massa che come d’incanto ci proporrebbe un sistema perfetto di “gestione” del mondo. Ogni tentativo in questo senso nella storia dell’uomo ha lasciato dietro di sé una lunga scia di cadaveri. Vivere non si può delegare. Appena lo si fa, appare evidente la miseria del tentativo. In effetti, nelle società cosiddette ricche o avanzate (che arroganza!), basta guardarsi intorno: è un oceano di anime alla deriva. Ci si mette in coda per la grande gara al successo e all’affermazione sociale, convinti che questo sia lo scopo ultimo della propria esistenza. Poi ci si rende conto che alla fine solo un piccolissimo numero di “eletti” ce la fanno a vincere. Il resto, noi tutti, siamo perdenti in partenza.

Allora perché insistere? Perché non trarre le ovvie conseguenze? Perché non abdicare prima di correre il rischio di non sapere più come uscire dalla trappola? Dimissionare da questa società, da questo sistema di controllo/potere/alienazione, appare quindi come una saggia decisione. Si direbbe che è una scelta dettata semplicemente dal buon senso comune. Allora perché non succede? Come mai uno continua a farsi fregare la propria vita, offrendo non solo l’altra guancia ma tutta la mente il cuore e l’anima per andare a gonfiare i ranghi degli sconfitti a vita? Va bene che l’uomo è una creatura paurosa e che ha bisogno di un sacco di certezze e di sicurezze per tranquillizzarsi. Ma se alla fine il prezzo è la perdita totale della propria capacità di vivere, di godersi questa incredibile avventura che è la vita, allora non si capisce perché dobbiamo insistere.

Scrivere di queste cose è sempre una scommessa: si corre il rischio di parlare ai pochi perdenti già convinti perché non hanno più niente da… perdere. Per gli altri, questi pensieri sembrano provocatori sovversivi e soprattutto lasciano il tempo che trovano non riuscendo a scalfire il muro di roccia della razionalizzazione di tutto. Ed è proprio lì che vorrei tentare uno smantellamento mentale, pregando il lettore scettico dubbioso cinico o sarcastico di resistere alla prima reazione di stizza, alla prima voglia di dare un bel calcio a tutte queste fandonie!

Invoco un po’ di clemenza, anche perché parlarsi addosso non è una attività molto edificante. Il succo di un discorso sta nella condivisione con quelli che devi convincere o almeno stuzzicare; di notti in bianco a fissare il soffitto rimuginando pensieri cupi e sentimenti di disfatta, ne ho fatte anche troppe. Chiedo semplicemente al lettore di accompagnare una riflessione fino in fondo, prima di giudicare o di emettere fatwa definitive. In fondo, il punto di partenza di qualsiasi riflessione sui mali del mondo è la libertà. La libertà di pensare, la libertà di dubitare, la libertà di sognare, la libertà di creare. Chi non accetta di rimettersi in discussione (anche solo il tempo di una lettura), non sta anche rinunciando alla propria libertà? Libertà che non esiste perché è scritto in qualche costituzione o sui muri dei municipi, ma esiste in quanto la esercitiamo, in quanto la sentiamo, in quanto la difendiamo.

Parto quindi da un presupposto di libertà per avviare il discorso dello smantellamento delle convenzioni delle idee ricevute dei luoghi comuni accettati in blocco come sante verità. E si deve partire da ciascuno di noi, nell’accezione della persona individuale (non individualista) e dell’unicità di ogni uomo e donna. Perché è dentro ognuno di noi che si svolge la grande saga filosofica ed esistenziale dell’essere umani. E’ nel profondo di ogni persona che vibra l’energia che ci porta al positivo o al negativo. E’ quindi logico che un vero cambiamento non può che nascere dentro di noi. Non si può imporre nulla dal di fuori, ci si può al limite illudere di imporre un cambiamento. Ma la storia ci insegna che sono i convincimenti intimi a travolgere lo status quo, non gli slogan populisti.

Vediamo il discorso della libertà allora nel proprio quotidiano. Misuriamo l’abissale distanza fra quello che ci è dato e quel che ne facciamo. Qualche esempio? Il contatto umano con l’altro; il modo in cui ci muoviamo; il rapporto con il tempo; la cura dei beni comuni (quei pochi rimasti); l’arte del festeggiamento; il saper vivere; la curiosità, la meraviglia e lo stupore; la convivialità. Ecco tutte opportunità di “vivere la vita” che in fondo accogliamo poco o male. Eppure, in ognuna di queste circostanze, vi è un mondo da scoprire, emozioni da sentire, piaceri da godere, sentimenti da condividere. E libertà da praticare.

Si ritorna alle scelte unilaterali. Decidere di “prendere il proprio tempo” permette di aprire un capitolo sconosciuto della proprio vita. Praticare il passo tranquillo, fare le cose con calma, fermarsi per pensare, per ascoltare, per intuire, stare attenti alle sfumature, agli sguardi furtivi, alle frase dette a metà, contemplare quel che ci circonda, cercare la bellezza anche mezzo al brutto, coltivare la conoscenza. In tutto questo vi è la profondità dell’essere, la sostanza dell’esistenza. Essersi lasciati così massicciamente inquinare da una concezione del tempo colonizzatrice e impietosa, ha dato i risultati che abbiamo sotto gli occhi: una massa di morti di tempo. Sempre in affanno, sempre di corsa, sempre proiettati sul prossimo imprescindibile appuntamento per il quale siamo perennemente in ritardo. Lo stesso concetto di ritardo è sintomo di un modo sbagliato di vivere. Come si può essere in ritardo nella vita? Come se la vita fosse una specie di orario delle ferrovie implacabile. E’ semplicemente ridicolo. Se perdi un treno, fatti una passeggiata. Approfitta dell’imprevisto. Sganciati dai programmi preconfezionati. Di solito, l’appuntamento mancato si riesce a recuperare.

Impariamo a domare le nostre ansie che non servono a niente. Mai. Ridimensioniamo l’importanza delle scadenze. Controlliamo i nostri impulsi competitivi. Prendiamo grandi boccate d’ossigeno. Sediamoci in una terrazza e sorseggiamo un buon bicchiere di vino. Leggiamo un libro su una panchina nel parco. Giochiamo con i bambini. Annusiamo i profumi nell’aria. Cose normali, cose essenziali. Ma se si guarda alle spalle: quand’è l’ultima volta che si è fatta una sola di queste cose? Eppure non sono proibite dalla legge (almeno non ancora).

Anche il nostro rapporto con lo spazio è diventato folle. Intanto perché nel nostro immaginario lo spazio è solo una cosa da conquistare. Da riempire. Da ingabbiare. Le città moderne parlano per sé. Roba spaventosa. Bisogna essere proprio ciechi e ben indottrinati per non vedere l’essenza distruttiva dell’urbs odierna. Ad ogni passaggio a New York (ma potrebbe essere Tokyo, Sao Paulo, Berlino o Milano), mi convinco sempre di più che i grattacieli sono lì per obbligarci a fissare il marciapiede. Provate a guardare il cielo per più di cinque secondi a New York. Raggiungerete due soli risultati: torcicollo e investimento pedone. Per non parlare del concetto filosofico che sta a monte dell’idea brillante di mettere migliaia e migliaia di persone in gabbie di quaranta sessanta cento piani. Poi ci sono le strade delle città. La vittoria definitiva dell’automobile sull’uomo. Le zone pedonali sono riserve indiane, piccole isole in un mare di asfalto gomme e paraurti.

Eppure, basterebbe poco, tipo lasciare la macchina a casa. Sì, sì. Sfatare il tabù dell’automobile come necessità. Rovesciare l’equazione del movimento e del trasporto intorno ai quali bisogna organizzare tutto il resto. Ripartire dai luoghi per decidere se si può e cosa può circolare. La logica della città moderna imporrebbe per esempio lo sventramento di tutte le Medina del Maghreb. Vi rendete conto che perdita sarebbe? Già i centri storici medievali dell’Italia sono ridotti abbastanza male (ma perché bisogna per forza avere la propria macchina, magari un SUV, davanti alla porta di casa?). Bisogna ricordare che solo cent’anni fà l’uomo riusciva a sopravvivere senza macchine? E cosa sono cent’anni nella storia umana? Prendiamo un po’ di distacco, diamine!

Le città dovranno essere totalmente ripensate se non vogliamo che ci soffochino definitivamente. Si dovrà ripensare il mito degli spostamenti come espressione di libertà. E’ folle che ogni giorno da ogni parte delle città si mettano in movimento masse di gente per andare altrove a lavorare o consumare. Questa falsa concezione della libertà ha portato all’ingorgo permanente, all’aria inquinata, allo stress dominante che caratterizzano la vita urbana. Cominciamo dai mezzi. La scarpa al posto delle gomme. Anche perché camminare fa bene ed è un piacere (bello, una volta tanto!). Camminando ci ridimensioniamo come predatori dello spazio e dei luoghi. Immaginate un minuto una città senza automobili, e capirete in un lampo come immediatamente si ridurrebbe l’invivibilità attuale. E’ il caso di dirlo: facciamo qualche passo nella direzione saggia.

Non dobbiamo salvarci solo dalle realtà oggettive. Non si possono concentrare tutti gli sforzi solo nel raggiungere cambiamenti materiali. Anzi sono sforzi abbastanza inutili, se prima o contemporaneamente non ci sforziamo di cambiare dentro di noi. A cominciare dal linguaggio, dalla comunicazione. In genere, siamo ormai poco attento alle parole. Anzi, gli esperti dicono che il vocabolario va impoverendosi velocemente. Anche qui siamo vittime di un riduzionismo molto spiccio: usare frasi già fatte, limitarsi a poche centinaia di vocaboli, ripeterli spesso, ecc., è l’applicazione verbale del mito dell’utilitarismo. Un poema, si sa, non serve a niente.

Se a questo impoverimento si contrappone poi una proliferazione esponenziale dei mezzi di comunicazione, siamo freschi. Non conta più infatti il senso o il contenuto (neanche la forma!) di quello che diciamo, ma lo strumento per farlo, la velocità con cui farlo, e la scelta del modo di farlo. Confondiamo di nuovo il senso della libertà: anche se non abbiamo niente da dire, ci sembra chissà quale meraviglia potere scegliere fra tanti strumenti di comunicazione. Ma se non hai niente da dire, non puoi stare zitto almeno?!! L’inflazione del blablabla superficiale, insensato, ripetitivo sta ormai dominando fisicamente la vita quotidiana. Non c’è più situazione libera dal benedetto squillo di un cellulare. Neanche il teatro, neanche la messa, neanche a letto. Ma li vogliamo spegnere ‘sti cellulari? Guardate che non muore nessuno se per un giorno l’oggetto malefico se ne rimane silenzioso in fondo ad un cassetto. Anzi. Potrebbe segnare il risveglio del pensiero, la riscoperta del silenzio, la lenta sconfitta dell’ansia nevrotica di dovere sempre essere raggiungibile e di sempre potere raggiungere gli altri. Ma per che cosa? Per ripetere i soliti luoghi comuni, le solite scemenze vacue e omologate?

Il verbo è una ricchezza. E con esso l’ascolto, lo sguardo, il gesto. Tanti sono i linguaggi dell’uomo che sembra un vero suicidio quello a cui siamo ridotti nel nome della cosiddetta comunicazione. Eppure, basterebbe riprendersi il diritto alle parole giuste. Il diritto alla diversità dei linguaggi. La musica, la pittura, la scultura, il teatro, il ballo, la scrittura, il racconto, la poesia, c’è l’imbarazzo della scelta. Ognuno ha il diritto di provarci, di inventarsi artista. Chi l’ha detto che dobbiamo soccombere alla volgare comunicazione di massa, senza neanche provare, almeno provare, ad afferrare la musa e lanciarsi in un volo immaginario e creativo? Perché questo non viene insegnato a scuola? Perché impariamo a leggere e scrivere se il nostro destino sono gli SMS?

Qualcosa non quadra, o peggio ti fa venire il dubbio che è tutto programmato. L’educazione diventa indottrinamento, anche solo quando tarpa le ali e ammazza sul nascere qualsiasi aspirazione creativa. Non c’è bisogno di propaganda nazista o stalinista. Basta impedire ai bambini di pensare liberamente, basta privarli delle conoscenze, basta riempire le loro teste di nozioni inutili, di migliaia di informazioni senza importanza, ma che siano migliaia e migliaia, e il trucco è fatto. La macchina implacabile dell’omologazione e del conformismo tritura le anime vergini appena possibile e non le molla più. E’ un massacro quotidiano di cui siamo tutti spettatori passivi e colpevoli. E non si tratta solo della scuola. Qui c’è di mezzo anche il cinema, la televisione, internet, i videogiochi, la pubblicità, la moda, e tutti i messaggi subliminali dei genitori e della società circondante, per non parlare delle cosiddette classi dirigenti.

Allora si deve per forza parlare di sovversione. Del capovolgimento dello stato delle cose. La sfida è combattere l’alienazione e l’imbarbarimento quotidiano con la sete di conoscenza. E qui siamo chiamati ad uno sforzo filosofico molto concreto. Si tratta di privilegiare l’intuizione, lo stupore, la curiosità, il dubbio, l’ispirazione e il sogno. Ecco gli ingredienti di un approccio vitale all’esistenza. Questi sono i nostri strumenti per sconfiggere il grigiore dello status quo, per rifiutare di morire lentamente anzitempo incatenati ad una visione del mondo riduttiva, schiavizzante e indegna. Guardiamoci bene dalle convenzioni sociali, dai “compromessi ragionevoli”, che non fanno altro che renderci apatici partecipanti in una gara impietosa che non conosce vincitori.

Abbandoniamo questa gara, scendiamo dal treno impazzito della modernità, stacchiamo la spina che ci tiene legati alla folle corsa consumistica, seghiamo le catene della tirannia occupazionale. Mica possiamo perdere una vita per guadagnarla. Qui si tratta di fermare le bocce per un po’. Facciamo una bella moratoria sull’andazzo attuale. Ammettiamo che non abbiamo soluzioni miracolose da applicare immediatamente come un cerotto sulle ferite sanguinanti del nostro vivere quotidiano. Che non vi sono pacchetti preconfezionati di felicità pronti all’uso. Ma questo non deve significare che siamo obbligati ad andare avanti lungo binari che ci portano dritto al baratro. Fermarsi è possibile, anzi è salutare. La società attuale tradisce palesemente il fallimento del progetto di benessere materiale. Avremo anche più cose in casa, ma poi piangiamo a dirotto davanti al senso di vuoto che tutto questo ci dà.

Per questo bisogna rispolverare un po’ di coraggio. Osare. Rischiare. Sono verbi che sembravano deperire inesorabilmente nel dimenticatoio della storia, tanto imperversa la ricerca di sicurezza di protezione di rafforzamento di tutti i muri di difesa. No. Bisogna buttarsi. E ai timorosi dico: ma può andare peggio di così? Che volete che sia un piccolo atto di sana audacia. Mica sto dicendo che bisogna fare una scelta ascetica o monacale. Mica bisogna bruciare mobili libri e vestiti. Anzi, ecco un classico ricatto che ci fa la mente razionale. Non appena uno contesta un micro-millimetro dello status quo, si sente trattare di rivoluzionario impazzito, di guerriero dell’apocalisse, di terrorista iconoclasta. Oh! si può prendere un po’ di ferie? Si può in controtendenza non andare alle Maldive ma nell’Aspromonte? Si può smettere di comprare scarpe griffate? Si può andare in campagna a comprare le verdure anzichè al supermercato? Si può prendere un accelerato e scendere in una stazione dimenticata del tempo per vedere proprio come se la spassano i dimenticati del tempo (beati loro)? O non si può?

Io dico che si può. E che l’appetito vien mangiando. Provate una volta l’ebbrezza di sentirvi di nuovo liberi, di respirare senza affanno, di volare leggeri nell’aria. Dopo rimane il ricordo. E saranno i ricordi i più fidati compagni, quelli che ci danno la forza di tentare di nuovo l’ebbrezza. Di andare un po’ più lontano la prossima volta. Di sentirsi un po’ più vivi ad ogni tentativo. Non possiamo aspettare di avere risolto tutti i nodi della psiche dell’eros e del superego per partire. Non partiremo mai. L’appello del largo e dell’orizzonte è vecchio come il mondo. La nostra sfiga è stata quella di inventare macchine che hanno tentato di annientare quell’appello. Ma vedere le Alpi dall’oblò di un jumbo jet non sarà mai niente in paragone alla visuale dalla cima di un picco che uno ha scalato per un giorno intero, la testa leggera per l’ossigeno che comincia a mancare e il cuore colmo di tanta mozzafiato benedetta bellezza che ci regala la natura.

Credo che alla fine della giornata la partita si giochi sulla passione. Vibrare di emozioni, essere sconvolti, commuoversi, esagerare, estasiarsi, farsi prendere dall’esuberanza, impazzire di gioia, godere un infinito istante, ecco la vera ricetta di una possibile salvezza. Dobbiamo tornare ad essere passionali. Così sconfiggeremo una volta per tutte la dittatura del pensiero razionale e di suoi figli disgraziati, il riduzionismo e il materialismo. Con la passione, sapremo resistere alle delusioni, ai sentimenti di sconfitta, allo scoraggiamento, al richiamo della normalità. La passione ci porterà per mano a scoprire i tanti risvolti di ogni momento di vita. Ci aprirà gli occhi davanti all’incredibile spettacolo che in ogni istante va in scena intorno a noi. Ci farà sentire musiche mai immaginate che ci prenderanno l’anima e la faranno cantare dopo secoli di silenzio. Ci condurrà all’incontro con l’incognito e scopriremo allora tutto quello che ci stavamo perdendo, idioti come eravamo di rimanere chiusi nelle nostre gabbie dorate chiuse a chiave dall’interno.

E quando per passione sentiremo anche il mondo crollare, quando ci metteremo a piangere a dirotto per l’incapacità di non essere mai all’altezza dei nostri sogni, per l’incommensurabile fossato fra quello che volevamo essere e quello che siamo diventati, quando in una notte tempestosa non sarà l’esuberanza ma la malinconia a prenderci per mano e a guidarci tra le nostre angosce, le nostre fobie, i nostri demoni finché non saremo usciti dal bosco malefico, allora avremo compiuto l’apprendistato della vita. E saremo finalmente pronti a vivere pienamente e liberamente.

Il viaggio purificatore dentro di noi ci permetterà di sentirci meno importanti, meno insostituibili, meno violenti e meno dannatamente arroganti. Sarà finalmente possibile intuire qual è il nostro posto nell’universo, nella biosfera, nel nostro angolo di terra, nel nostro nido, nei nostri affetti, nella nostra solitudine. Scopriremo tutti i fili che ci legano a tutti gli altri esseri viventi, a tutti gli elementi, a tutto l’invisibile che riempie la vita. Ogni illusione di indipendenza, di libro arbitrio, di vana gloria, di auto-importanza sarà spazzata via. Tremeremo sicuro, ci sarà da avere parecchia paura, dovremo saltare nel buio. Ma poi toccheremo terra tranquillamente. E invece di cercare immediatamente un rifugio, un muro protettivo, uno scudo, una lancia, andremo a spasso per l’esistenza, meravigliandoci, stupendoci, commuovendoci.

L’uomo è arrivato sull’orlo del precipizio. Un passo in avanti e ciao belli! Un passo a lato o un passo indietro, e ci si salva.

Una forza più potente
Cile 1983-88: Sconfitta di un dittatore

A cura di Luca Giusti

Proseguono le schede sui casi di resistenza nonviolenta nel XX secolo presentati dalla serie “Una forza più potente”, prodotta negli Stati Uniti dalla York Zimmerman e diffusa in versione italiana DVD dal Movimento Nonviolento. Pubblichiamo una scheda al mese: dopo Danimarca, India, Polonia, Cile, seguiranno Sudafrica e Usa.

La situazione: E’ passato ormai un decennio da quell’11 settembre 1973 in cui i generali, col pretesto di salvare il paese dal caos, avevano deposto il legittimo governo, ucciso il Presidente Allende, recluso oltre 40.000 prigionieri politici e giustiziato o fatto sparire per sempre 3.000 persone. La promessa di un rapido ritorno a un governo civile non si era naturalmente avverata e si era invece provveduto a distruggere progressivamente lungo un decennio la speranza stessa di un’opposizione, diffondendo paura in ogni angolo del paese e in ogni aspetto della vita.
Ma nell’83 la grave crisi economica ha portato la disoccupazione al 30%. Resta ben poco da perdere e un’opposizione aperta al regime diventa per la prima volta concepibile.
Le prime fasi della campagna
?primavera: L’idea di uno sciopero generale nazionale nasce delle miniere di rame delle Ande; l’industria più importante e redditizia del paese, grazie alle massicce esportazioni.
Rodolfo Seguel: 29enne estrattore minerario, appena eletto presidente del Consiglio Nazionale dei Lavoratori.
“Per 10 anni nessuno era sceso in piazza. Dovevamo valutare la reazione del paese: avrebbe osato fare tanto? Dovevamo convincere la gente che potevamo farlo, che era possibile”
?una settimana prima della data fissata per lo sciopero, le truppe di Pinochet circondano la miniera. Per evitare spargimenti di sangue i piani vengono cambiati: si opta per una giornata di protesta nazionale, diffusa sul territorio e articolata in due momenti, secondo modalità di manifestazione decisamente insolite:
in mattinata: muoversi piano in auto e a piedi, non mandare i bambini a scuola, non comprare nulla
in serata, alle 20: ritrovarsi con i vicini davanti a casa per manifestare il proprio dissenso.
Patrizia Verdugo, figlia del leader sindacale Sergio Verdugo, rapito e ucciso nel ’76; è tra le protagoniste di quei quattro giorni in cui le nuove modalità della protesta furono definite e divulgate: “Mi ricordo quella mattina. All’inizio non era chiaro se la gente camminava piano e guidava lentamente perché era insonnolita o se stava protestando. Ma a mezzogiorno divenne chiaro che tutto era rallentato intenzionalmente. Divenne così evidente che in centro città tutto iniziò a chiudere anzitempo”.
Un altro testimone: “Ero in strada a far chiasso con le pentole insieme ai miei vicini. C’era un senso di complicità del tutto nuovo, in una società dove ogni individuo era diventato davvero un’isola”.
?ogni mese per dieci mesi la protesta viene ripetuta. Le modalità pacifiche disorientano il regime e danno più forza e ottimismo alla gente e ai partiti politici che si riaffacciano sulla scena, assumendo la guida del nuovo movimento: la maggiore corrente di opposizione è rigorosamente fedele alla nonviolenza.
Repressione e reazioni
Non di meno le proteste mensili sono represse con brutalità. Ma non riescono a intimidire e fermare il movimento
?inizio di agosto: alla vigilia della manifestazione mensile Pinochet attua nello stesso giorno due misure contraddittorie:
nomina un nuovo ministro dell’interno, Sergio Jarpa, con l’incarico di aprire un dialogo con l’opposizione
manda per le strade di Santiago sedicimila soldati in assetto anti-sommossa che attaccano i manifestanti con inaudita violenza: 80 morti.
Il nuovo cardinale della chiesa cattolica si offre come intermediario nel dialogo che Pinochet ha promesso. Ma presto lo stesso Jarpa viene esautorato e le redini del governo passano in mani più risolute.
?1985, fine novembre: mezzo milione di Cileni si radunano nella manifestazione più imponente della loro storia. Gli 11 partiti d’opposizione e la chiesa cattolica fondano un Accordo Nazionale.
La popolazione comincia a ribellarsi. Nelle poblaciones, i quartieri poveri del Cile, è già in corso una guerra a bassa intensità. Pochi hanno effettivamente imbracciato le armi, ma l’idea di una rivoluzione armata è accettata.
?ore 4 del mattino: gli elicotteri volano a bassa quota e con gli altoparlanti intimano di uscire in strada a tutti gli uomini di età superiore ai 14 anni; vengono rastrellati, interrogati nei campi o nello stadio, messi in prigione senza processo e torturati; parecchie centinaia non saranno più visti
Alla luce della violazione dei diritti umani, il clero protesta apertamente contro le uccisioni, le torture e le sparizioni e predica metodi nonviolenti.
La sinistra rivoluzionaria dichiara che il 1986 sarà l’anno decisivo della lotta contro la dittatura. Le proteste mensili degenerano in scontri con la polizia, fornendo a Pinochet il pretesto per reprimere ogni sorta d’opposizione. Il movimento non violento è criticato dalle fazioni rivoluzionarie che non credono alla protesta pacifica.
?1986, tarda estate: la prospettiva di una guerra civile totale diventa concreta. Il controspionaggio militare scopre un deposito di armi da guerra nella zona desertica del nord e risale a responsabilità di gruppi collegati con il partito comunista cileno. Sono armi cubane, che Pinochet esibisce come prova che i suoi avversari stanno preparando una rivoluzione.
?Poche settimane dopo un corteo presidenziale viene attaccato in montagna. Quattro ore dopo il dittatore appare in televisione, apparentemente illeso. L’episodio rafforza la sua immagine d’invincibilità e spinge alla polarizzazione fra due opposte possibilità
Verso il plebiscito
La campagna sembra affossata ma rimane uno spiraglio: la costituzione introdotta da Pinochet prevede che nel 1988 il paese sia chiamato alle urne per votare sì o no ad altri 8 anni di regime militare.
Migliaia di volontari dell’opposizione, rafforzata dalla precedente campagna, battono il territorio casa per casa per convincere una popolazione sospettosa e scettica che non ci saranno brogli elettorali né rappresaglie.
Pinochet è convinto di vincere questo plebiscito; per rendere credibile il voto, permette ai partiti di avere propri scrutatori presso i seggi e 15 minuti di trasmissione televisiva serale ogni giorno per le quattro settimane precedenti il voto.
Il primo ad apparire in televisione per l’opposizione è Ricardo Lagos, membro del governo Allende, esiliato dopo il colpo di stato. Lagos esordisce mostrando il filmato di una solenne dichiarazione del 1980 in cui Pinochet prometteva di non ricandidarsi e commenta: “mentre ora lei promette al paese altri 8 anni di dittatura, con torture, assassini, e violazioni dei diritti umani”.
Gli spot TV guadagnano la fiducia degli spettatori; anche i più scettici corrono a casa per vedere queste finestre di 15 minuti di vita vera, che affermano cose vere sulla tortura e la povertà; come lo spot dell’anziana signora che apre il portamonete e non ha i soldi per comprarsi una bustina di tè. Ma non ci si fermano alla denuncia: propongono messaggi di sviluppo e ottimismo per il futuro.
Genaro Arriagada: “E l’alegria già llene significa ‘la gioia è dietro l’angolo’; era un invito ad un paese che appartenesse a tutti, all’idea che avremmo sconfitto la dittatura non con il fucile, ma con una matita e che questa strada sarebbe stata percorsa senza odio, senza rancore, né sete di vendetta”.

?5 ottobre 1988: giorno del voto. Gli scrutatori dell’opposizione procedono alla conta con tecniche semplici, e comunicano i parziali per telefono alla sede di Santiago, che elabora i dati al computer.
?a sera una piccola radio indipendente annuncia le proiezioni del voto realizzate dall’opposizione, da cui risulta una netta prevalenza del NO. Chiuso nel suo palazzo Pinochet non rilascia dichiarazioni. Con il passare delle ore aumentano i sospetti che stia macchinando per imbrogliare il risultato. A mezzanotte arrivano al palazzo i comandanti di esercito, marina, aviazione e polizia, che comunicano ufficialmente alla radio che hanno prevalso i NO, invitando Pinochet ad accettare la sconfitta.
Durante la notte si celebra la vittoria, in privato, e alla sede del movimento per il NO, ma le strade sono vuote sotto un rigoroso coprifuoco che nessuno vuole sfidare offrendo a Pinochet pretesti per mobilitare le truppe.

Riferimenti bibliografici
Arriagada, Gennaro. Pinochet: The Politics of Power. Boston: Unwin Hyman, 1988.
Constable, Pamela, and Arturo Valenzuela. A Nation of Enemies: Chile under Pinochet. New York: Norton, 1991.
Drake, Paul, and Ivan Jaksic, eds. The Struggle for Democracy in Chile, 1982-1990. Lincoln: University of Nebraska Press, 1991.
Oppenheim, Lois Hecht. Politics in Chile: Democracy, Authoritarianism and the Search for Development. Boulder: Westview Press, 1993.
Spooner, Mary Helen. Soldiers in a Narrow Land: The Pinochet Regime in Chile. Berkeley: University of California Press, 1994

Campi estivi nonviolenti 2006

Vivere la nonviolenza una settimana di condivisione e formazione

Un’occasione di condivisione e di formazione, con l’intento di stimolare la curiosità per la nonviolenza di chi ha già maturato un primo orientamento in tal senso e intende confrontarsi con altri.
Lavoro manuale. È un aiuto concreto alle realtà che ci ospitano e al tempo stesso è scoperta della bellezza del lavoro condiviso.
Formazione. Culturale attraverso letture, scambi di opinione e relazioni. Spirituale attraverso la riflessione personale, la meditazione, il silenzio.
Convivialità. I campi sono autogestiti nelle loro esigenze primarie: pulizia e cucina. Poi c’è il momento della festa per celebrare la nostra unità attraverso canti, musiche e danze.
In ogni campo verso metà settimana ci sarà una gita per visitare i luoghi che ci ospitano. All’interno della giornata è previsto un momento di vita interiore, definito con i partecipanti, che potrà assumere varie forme: letture, silenzio e preghiere. L’alimentazione è vegetariana.

SE DECIDI DI PARTECIPARE

1 – Mettiti in contatto con chi coordina il campo che hai scelto, poi invia una lettera di presentazione con: nome e cognome, indirizzo, recapito telefonico, indirizzo di posta elettronica, età, campo a cui desideri partecipare, motivo per cui ti interessa, che cosa ti aspetti, quali sono i tuoi interessi.
2 – Invia una quota di iscrizione di Euro 35,00, comprensivi della quota associativa e assicurazione, utilizzando il ccp n° 20192100 intestato a: Movimento Nonviolento, Via Venaria 85/8, 10148 Torino, specificando nella causale del bollettino “Iscrizione al campo di…”. Fotocopia del bollettino di versamento va inviata al coordinatore che ricevuta la tua iscrizione con il versamento ti invierà le informazioni utili per raggiungere e partecipare al campo.
3 – Durante il campo ti sarà chiesta una quota di Euro 85 per il vitto, l’alloggio e il rimborso spese per i relatori che interverranno. Poiché la quota indicata non deve essere motivo di esclusione per nessuno, che avesse difficoltà economiche di qualunque tipo è pregato di parlarne con i coordinatori al momento dell’iscrizione.
4 – I campi “Pellegrinaggio alle sorgenti” e “Turismo ecologicamente compatibile” prevedono una quota di partecipazione più elevata.

Nota:
Il campo “Aiuto!…Ho una mamma marziana” è rivolto a ragazze/ragazzi di 11-14 anni e genitori / accompagnatori.
Il campo “Stili di vita a confronto” è rivolto a ragazze/ragazzi di 13-19 anni e alle loro famiglie.
Il campo “Turismo ecologicamente compatibile” è rivolto a persone con un buon allenamento ciclistico.

È disponibile un libretto con ulteriori indicazioni e spiegazioni, richiederlo a:
M.I.R. M.N. e Centro Studi Sereno Regis – Via Garibaldi 13 – 10122 Torino – tel. 011/532824
Il libretto completo dei campi è scaricabile dal sito WWW.CSSR-PAS.ORG

GIOVANI
A cura di Laura Corradini
Campo estivo nonviolento: un’esperienza da rifare

Siamo Agnese ed Elisabetta, due ragazze di Torino che la scorsa estate hanno partecipato al primo campo del Movimento Nonviolento dedicato ai ragazzi minorenni e alle loro famiglie. Il primo a parlarcene è stato Sergio Albesano, il coordinatore del progetto. Siamo state spinte a prendere parte a questa esperienza principalmente dalla curiosità di provare una vacanza diversa dalle solite, in cui il divertimento si combinava con riflessioni serie; anche il pensiero di conoscere altri ragazzi è stato un fattore determinante. Noi avevamo già tentato di avvicinarci al Movimento Nonviolento, ma l’esperienza di un campo è certamente più interessante, per persone della nostra età, rispetto a una serie di conferenze.
Il campo, che si teneva nella provincia di Salerno, ben combinava discorsi e riflessioni impegnativi con momenti dedicati al divertimento.
I momenti giornalieri di riflessione si sono incentrati principalmente sull’analisi di un mondo utopico in cui non esistono conflitti, disuguaglianze e soprusi. Il compito di tutti i partecipanti è stato arrivare a ideare una società libera e pacifica, pensando ai modi concreti per realizzarla. In questo difficile compito tutti, sia adulti sia ragazzi, hanno contribuito attivamente con le proprie esperienze e idee. Le riflessioni e la convivenza di una settimana intera hanno permesso uno scambio di opinioni costruttivo e un confronto generazionale che ha reso possibile a due generazioni di comprendere gli uni le opinioni degli altri. Ciò è stato possibile grazie a vari fattori. In primo luogo perché la presenza di genitori e figli non ha influito sullo svolgimento delle attività, in quanto i ragazzi non si sono trattenuti dall’esprimere le proprie opinioni nonostante la presenza dei genitori. Inoltre la divisione dei lavori manuali all’interno della casa tra adulti e ragazzi ci ha permesso di entrare in contatto con una realtà dalla quale la città e la nostra vita quotidiana ci estraniano. Infine durante una delle riflessioni abbiamo provato a invertirci i ruoli: gli adulti hanno tentato di calarsi nei nostri panni, mentre noi abbiamo provato a vedere le cose dal loro punto di vista. Tale esperienza ha aiutato entrambe le generazioni a comprendersi a vicenda.
Questa vacanza ci ha insegnato a confrontarci con tutti, non solo con i nostri coetanei, con i quali siamo abituati a conversare, ma anche con i nostri genitori o altri adulti, con cui spesso ci risulta difficile affrontare argomenti di tale portata. Il campo è stato un’esperienza anche dal punto di vista pratico, in quanto la casa era priva di tutte quelle comodità a cui siamo abituati come la televisione o più banalmente l’acqua calda per la doccia di tutti. Ci siamo divertiti convivendo tutti insieme pur senza la presenza di quei luoghi che nella vita quotidiana ci sembrano così importanti, come il cinema o la discoteca. Anche l’alimentazione vegetariana, diversa da quella a cui siamo solitamente abituati, ci ha permesso di venire a conoscenza di una realtà un po’ diversa dalla nostra. Abbiamo capito che si può vivere bene, divertendosi anche senza troppe pretese, cooperando ed entrando in contatto con modi di pensare e di rapportarsi al mondo differenti. Tutto ciò ci ha insegnato molte più cose di quante si possa immaginare.
In conclusione vogliamo consigliare quest’esperienza a tutti quei ragazzi che credono sia possibile costruire un mondo diverso da quello che ci circonda ora; invitiamo a partecipare anche tutti coloro che non ci hanno mai pensato, perché il futuro è nelle mani di noi giovani e, se vogliamo migliorarlo, il compito spetta a noi. Quindi riteniamo possa essere necessario interessarsi fin da ora.
Cogliamo l’occasione per salutare tutti coloro che hanno partecipato al campo con noi e che hanno reso possibile quest’esperienza rendendola divertente e difficile da dimenticare; ci auguriamo di rincontrarli quest’estate con un gruppo, se possibile più numeroso.

Quest’anno vengono proposti due campi estivi per giovani, distinti per fasce di età.
Giovani tra gli 11/14 anni – “Aiuto! …Ho una mamma marziana!” – Vigna di Pesio (CN) presso la cascina di Donato Bergese – periodo: 16/23 luglio – Per info contattare le coordinatrici Elena Zanolli tel. 0321-623191; 347-7595589 e-mail: elena.zeta@libero.it ; Laura Corradini 0321/640080; cell. 340-2338205 e-mail lauracorradini@tin.it ;
Giovani 13/19 anni – “Stili di vita a confronto” – Cavandone (VB) presso la casa parrocchiale – periodo: 30 luglio/ 6 agosto – Per info contattare il coordinatore Sergio Albesano (tel. 349-4031378; e-mail: sergioalbesano@tiscali.it) (vedi pag. XX).

Elisabetta Albesano e Agnese Manera

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Educare alla nonviolenza con l’arte del teatro

L’arte e la letteratura sono reali strumenti di pace
perché il sapere e l’esperienza acquisiti per tramite loro
sviluppano la nonviolenza, la compassione, la fiducia,
la solidarietà, la bellezza e l’ampiezza di vedute,
intensificando la consapevolezza della natura e dei bisogni dell’umanità

Il progetto “Teatro e Conflitti” nasce nel 2001 dall’idea di utilizzare le tecniche dell’arte teatrale per avvicinare e sensibilizzare i bambini e i giovani alla nonviolenza, scoprendo e approfondendo i meccanismi che generano un conflitto e quali possono essere le alternative di trasformazione nonviolenta. Si è trattato dunque di tracciare un percorso operativo pratico ed esperienziale, che ha tratto ispirazione e incoraggiamento dalle opere di J.Galtung, in modo particolare quando afferma: “Il teatro serve a rispecchiare situazioni di vita reale o immaginata, con il dramma scritto e recitato dai partecipanti. Un team che discute come scrivere su un conflitto, si trova esso stesso in qualche genere di conflitto, il che rende più profonda l’esperienza.
L’idea si è trasformata in attività concreta trovando luoghi e allievi presso alcune scuole elementari, medie e superiori della provincia di Como in collaborazione con due strutture: il Cimas (Centro Interdisciplinare Musica Arte e Spettacolo) con sede a Saronno e il C. Studi Sereno Regis di Torino.
L’attività ha prodotto documenti e valutazioni molto ricchi e interessanti seguendo un percorso che si è sviluppato in alcune fasi diversificate rispetto al livello scolastico: l’ascolto di un racconto d’autore, l’esplicazione teorica sul tema dei conflitti, la creazione e la scrittura dei racconti, la drammatizzazione. La caratteristica tipica dell’arte teatrale di rendere vivo e vissuto in prima persona qualunque racconto o tema, fa in modo che l’approccio al conflitto sia creativo e giocoso e nello stesso tempo crea basi di comprensione e consapevolezza che superano i limiti dell’apprendimento teorico, per spostarsi sul piano della memoria fisica dell’esperienza diretta.
Ascoltare l’interpretazione di una voce recitante di un racconto d’autore, accompagna gli allievi in una zona libera che li predispone ad attingere immagini e situazioni dalla propria fantasia. I personaggi del racconto diventano buoni amici che li guidano, in modo leggero, a riconoscere un certo tipo di conflitto contenuto nel racconto e a comprenderne i meccanismi, e inoltre, tramite la drammatizzazione, mettersi nei panni di quegli stessi personaggi che hanno litigato e poi fatto pace, sviluppa nei ragazzi una naturale empatia e solidarietà. Individuato e studiato, attraverso l’esplicazione teorica, qual è il tipo di conflitto interno al racconto, quali i mediatori e la mediazione e come si sviluppa la trasformazione nonviolenta, la proposta ad ognuno dei partecipanti di scrivere un piccolo racconto in ambiente familiare, scolastico o ricreativo, di solito ha una buona risposta in quanto i lavori prodotti delineano in modo chiaro gli elementi portanti del conflitto preso in esame. E’ capitato che alcuni gruppi di studenti delle scuole superiori, proponessero racconti in cui fossero evidenti tracce di “bullismo” e che, confermato dalle insegnanti, i ragazzi stessero raccontando i meccanismi di violenza interni alla loro classe e che quindi i personaggi inventati fossero loro stessi. In questo caso il lavoro ha viaggiato sempre secondo le regole teatrali della finzione che hanno permesso di mantenere il giusto distacco nell’affrontare emozioni e situazioni che creavano disagio e sofferenza all’interno del gruppo classe. Successivamente in sede di valutazione le insegnanti hanno osservato che le relazioni in classe si sono in parte risanate e comunque i ragazzi con questa esperienza, hanno potuto esprimere in modo libero e diretto, anche se con nomi diversi, un proprio vissuto e ascoltare e rispettare quello degli altri.
La fase finale del progetto permette di comporre alcuni testi teatrali creati dai racconti proposti dai ragazzi, seguendo un percorso interattivo in cui i componenti del gruppo diventano a fasi alterne a volte pubblico, a volte attori, a volte autori proponendo, discutendo e scegliendo quali parole, e quali azioni i personaggi dicono e fanno per meglio raccontare quel tipo di conflitto e la sua trasformazione nonviolenta.

Jole Tramacere
iolet@interfree.it

DISARMO
A cura di Massimiliano Pilati
Un giorno gli uomini si vergogneranno di aver costruito le armi e fatto la guerra

Viviamo un incubo, ma vogliamo tenere gli occhi aperti e lo sguardo teso. Le armi regnano e governano. Non ripeto qui le cifre della follia: la quantità degli armamenti, i loro costi in fame di moltitudini e in degrado umano incalcolabile dei profittatori e degli indifferenti, pandemia globale disumanizzante. La morte come logica risolutiva dei conflitti per il dominio, e a volte ancora con tragica illusione, persino come mezzo per la giustizia. E sempre nuove tecniche per uccidere; oppure – che è lo stesso – per distruggere obiettivi strategici anche se lì qualcuno muore, o se domani molti continueranno a morirne, come già ora avviene con le armi di ieri. E questo «vale la pena» (Madeleine Albright lo disse per gli effetti dell’embargo all’Iraq): le sofferenze imposte (ad altri) sono un prezzo degno dei progetti di dominio (nostro), cioè ci sono vite che non contano.
Uccidere, le armi sanno solo uccidere. Lo sappiamo, ma non lo pensiamo fino in fondo. Il male è banale, come scrisse Hannah Arendt a proposito di Eichmann e dei diligenti collaboratori del nazismo sterminatore. Si fa una vita “normale”, si fa qualunque lavoro, si guardano i fatti del mondo, si progetta per la famiglia, ci si riposa, e un sistema sovrano si serve anche di noi, se non spalanchiamo gli occhi, per uccidere quelli che tratta come ingombro da spazzar via dalle strade del dominio. Se fermiamo l’attenzione su tutto ciò, l’incubo sembra farci impazzire. Nei momenti più terribili, quando scoppia l’orgia delle armi, ci chiediamo se sia possibile vivere, accettare ancora di vivere, in un mondo che uccide. È peggio della paura: è la vergogna, un senso di indegnità.
Poi incontriamo chi pensa a ridurre la minaccia delle armi, a controllarne produzione e diffusione: sappiamo di qualche accordo di disarmo, qualche debole legge, ma di più vediamo movimenti sociali, educativi, obiezioni organizzate, campagne contro i finanziamenti e i consumi connessi agli armamenti, contro spese e bilanci statali armisti. Ci conforta sapere che altri soffrono come noi lo scandalo, la vergogna, l’incubo, e reagiscono, agiscono. Ci sono volontà e azioni per il disarmo, a vari livelli e ampiezze. Ci uniamo a questa cultura e movimenti, ciascuno come può. Poi ci raggela la paura che questi sforzi siano impotenti, che non possano prevenire la catastrofe possibile, lì dietro l’angolo, preparata dai pazzi potenti.
Giustificano le armi: ci difendono da altre armi! È l’antica prigionia mentale. Gandhi diceva agli Inglesi, nel 1940: se vi difenderete dai nazisti con la guerra «diventerete come loro». Ci si può chiedere se, pur in migliori sistemi politici, i vincitori, creando il ricatto atomico, non abbiano ereditato lo sterminismo vinto in Hitler. Conosciamo esperienze storiche di difesa popolare nonviolenta, che gli storici per lo più non vedono perché non le cercano, abbacinati dalle imprese dei potenti distruttori. Abbiamo scelto la nonviolenza positiva e attiva, come filosofia di vita, volontà di in-nocuità e di lotta giusta, di testimonianza per chi la porterà più avanti. Sappiamo bene che le armi non cadranno presto dalle mani degli uomini, ma che è possibile la saggezza del ridurre il pericolo passando per il transarmo (da armi offensive ad armi puramente difensive) verso la civiltà del disarmo. Sappiamo che disarmo non è non-difesa dei diritti umani, ma nuova difesa, con la forza umana costruttiva, antitetica alla violenza distruttiva. Sappiamo che uccidere non fa vivere.
Ci dicono ancora: la resistenza nonviolenta può frustrare un’invasione territoriale, ma come vi difendete dall’atomica e dal terrorismo? E, su base di sospetti e menzogne, celebrano la guerra preventiva, pazzia e crimine che subito dimostra – ma era già evidente – di estendere la morte, rompere fragili equilibri, moltiplicare le vittime e il pericolo, consacrare il terrorismo ribelle col terrorismo di stato, invece di ridurre per tempo le tante cause di violenza. La nonviolenza è una concezione coraggiosa della vita, è amore dei viventi, è intelligenza del dolore e passione per l’esistenza, è scienza del conflitto vitale, è ingegneria della vita insieme. Sappiamo di essere su un cammino «antico come le montagne», ma pur sempre iniziale, su cui potranno procedere generazioni dopo di noi, se noi avremo fatto la nostra parte.
Ernesto Balducci, un’eco di Isaia, disse: «Verrà il giorno che gli uomini si vergogneranno di avere costruito le armi». Noi soffriamo e elaboriamo questa vergogna.

Enrico Peyretti

Vedi http://italy.peacelink.org/disarmo.
Vedi l’articolo “Disarmo: storia del concetto” e la bibliografia “Difesa senza guerra” nel sito:http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Ma cos’è ‘sto partito umanista?
E’ buono o cattivo?

Il 22 marzo scorso ha fatto visita a Torino Tomas Hirsch, candidato alle presidenziali in Cile (poi vinte da Michelle Bachelet) della coalizione “Juntos podemos mas” che riunisce il partito umanista, quello comunista e numerose associazioni di base. Tomas Hirsch, 48 anni, fondatore e dirigente del Partito Umanista cileno, è solo l’ultimo esponente politico di una lunga serie, che ai quattro angoli del mondo rappresenta gli ideali del globalizzatissimo Movimento Umanista. Ma per parlare di questo movimento è indispensabile partire da uno pseudonimo: Silo.
Silo è il nome d’arte di Mario Luis Rodríguez Cobos, scrittore e pensatore argentino nato a Mendoza, Argentina, il 6 gennaio 1938, nonchè ideologo del Nuovo Umanesimo a cui si ispirano le attività del Movimento Umanista. Vive tuttora a Mendoza, sua città natale, con la moglie e i due figli, ed ha un sito frequentatissimo (www.silo.net) contenente tutte le informazioni relative al suo pensiero. Le sue opere complete sono riassunte in due volumi, usciti nel 1993 e nel 2002 per le edizioni Multimage e recentemente è stato insignito della laurea honoris causa dell’Accademia delle Scienze della Russia.
Il Movimento Umanista è un’organizzazione internazionale fondata nel 1969 in Argentina dallo stesso Silo, formata da persone diverse per età, provenienza, cultura e religione unite dal progetto di costruire una società veramente umana. Attualmente è presente in 110 paesi del mondo e conta più di un milione di seguaci. Dal sito di Wikipedia si apprende che aspira a creare una società in cui l’essere umano sia il valore centrale, crede nella possibilità di una rivoluzione nonviolenta, portata avanti dalla base sociale e nella necessità di una trasformazione personale che accompagni i cambiamenti sociali. Per questo motivo, sono state elaborate tecniche psicologiche e spirituali di autoconoscenza e di lavoro personale, che secondo i pareri critici mostrano però il fianco ad una deriva settaria del movimento.
Per il Movimento Umanista i responsabili della situazione attuale sono le banche internazionali, i governi e le compagnie multinazionali. Per questo il Movimento organizza molte attività per combattere queste ingiustizie e cercare quindi di eliminare ogni forma di dolore.
Tutte le attività del Movimento Umanista sono basate sul lavoro volontario e sono autofinanziate. All’attività politica tramite il Partito Umanista, che in Italia è nato nel 1986, vengono affiancate campagne di appoggio a progetti internazionali e centri di incontro per facilitare l’organizzazione della gente nei quartieri. Proprio in questi centri, una volta l’anno, i simpatizzanti si ritrovano per leggere e commentare la lettera che Cobos/Silo invia in tutto il mondo per diffondere il verbo.
I membri del Movimento Umanista formano gruppi che si moltiplicano quando ogni membro forma il suo gruppo e lo orienta nelle riunioni settimanali e nelle attività. Il primo livello di partecipazione è quello di delegato di gruppo; quando un delegato di gruppo ha formato il suo gruppo (minimo 12 persone), diventa delegato d’equipe; e diventa delegato generale quando tutti i suoi delegati di gruppo sono diventati delegati d’equipe. E così via fino al livello di coordinatore generale. Per adesso nel Movimento Umanista i coordinatori generali sono 2: Silo, e Luis Milani che orienta la grande struttura a livello internazionale.
Nonostante le dichiarate preferenze per la nonviolenza, in Italia non si ricorda un tentativo del movimento di concertare la propria azione con gli altri movimenti nonviolenti presenti, né, va detto, il viceversa. Neanche con il mondo della politica i contatti sono frequenti, al contrario di quanto avviene in alcune altre parti del mondo. Oltre all’America Latina, dove la presenza degli Umanisti è più forte, per esempio in California il partito dei Verdi è stato più volte oggetto di interesse da parte dei “Siloisti” (v. http://cagreens.org/history/history1992.html).
Ultimamente il movimento italiano si è dotato di una web tv (www.delta208.org) per meglio presidiare i nuovi media, che non sempre li trattano bene. Per chi sa lo spagnolo, un sito che getta ombre settarie sul movimento è: www.secta-humanista.com, mentre chi preferisce l’inglese o il francese può curiosare su: www.geocities.com/silowatch. D’altronde, il movimento è molto più sviluppato all’estero, e suscita quindi soprattutto oltralpe sentimenti di stima o repulsione.

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Il giorno in cui le donne scioperarono fu un bellissimo lungo venerdì di pausa

Il 24 ottobre 1975, il 90% delle donne islandesi si rifiutò di lavorare, cucinare o badare ai bambini. Il 1975 era stato proclamato “Anno delle Donne” dalle Nazioni Unite, ed un comitato formato da rappresentanti delle più grandi organizzazioni femminili islandesi era incaricato di organizzare eventi celebrativi. Durante una riunione del comitato, una donna chiese: “Perché non scioperiamo, semplicemente?” L’azione sarebbe stata un modo forte di ricordare alla società il ruolo che le donne giocano nel sostenerla con il lavoro in casa e fuori casa. L’idea fu dibattuta, ed alla fine l’intero comitato acconsentì: solo, la parola “sciopero” venne sostituita con “giorno di pausa”. Le donne pensarono che messa così la questione sarebbe risultata meno disturbante per l’opinione pubblica e che i datori di lavoro, che avrebbero potuto licenziare le donne per aver scioperato, avrebbero avuto più problemi nel negare loro un giorno di pausa. Nei giorni precedenti lo sciopero erano visibili ovunque gruppetti o capannelli di donne, al caffè o per la strada, che discutevano animatamente.
A Reykjavik, il 24 ottobre, si radunarono più di 25.000 donne: un numero notevole, se si pensa che l’intera popolazione islandese ammontava allora a circa 220.000 persone. Ad ascoltare gli interventi, dibattere istanze e cantare c’erano donne di tutte le età, di ogni professione, di ogni classe sociale. Alcune vennero indossando i loro abiti da lavoro, altre si vestirono a festa per l’occasione. Scuole, negozi, fattorie, pescherie e asili dovettero chiudere, o cercare di provvedere i consueti servizi con metà del personale.
Coloro che parteciparono a questo giorno speciale oggi ricordano soprattutto il senso di appartenenza e comunità, la tranquilla determinazione che pervadeva le partecipanti. Gerdur Steinthorsdottir, allora 31enne e fra le organizzatrici dell’evento dice che la risposta delle donne fu così alta perché durante la preparazione esse erano state capaci di lavorare insieme, a qualsiasi partito politico, organizzazione o sindacato aderissero. Leggere oggi l’intervento di Adalheidur Bjarnfredsdottir, delegata del Sokn (il sindacato che riuniva le donne dal reddito più basso) alla riunione del 1975, manda un brivido nella schiena: “Gli uomini hanno governato questo mondo da tempi immemorabili, e che cos’è oggi questo mondo?” Rispondendo alla propria domanda, la sindacalista descrive un pianeta annegato nel sangue, una terra inquinata e sfruttata sino a livelli irreparabili. Una descrizione che sembra più vera che mai.
Nel frattempo gli uomini cercavano di venire a capo dalla confusa situazione in cui si erano trovati: non più di tanto preoccupati per la sparizione delle colleghe o delle mogli, dovevano però provvedere a bambini scatenati che volevano accompagnare i padri al lavoro, ai più piccoli che non si poteva lasciare da soli, e così via. Ci fu un acquisto massiccio di matite colorate, caramelle e salsicce già cotte dagli esercizi che erano ancora aperti, e molti padri pagarono i figli più grandi perché badassero ai fratelli minori. Anche gli uomini islandesi ricordano benissimo quel giorno che li lasciò esausti per carico di lavoro: fra di loro, lo chiamano ancora “Il lungo venerdì” o “Il venerdì che non finiva mai”.
L’azione, costruendo solidarietà e consapevolezza fra le donne, aprì la via cinque anni più tardi all’elezione della prima Presidente eletta in uno stato democratico, Vigdis Finnbogadottir: “Dopo il 24 ottobre,” ricorda oggi Vigdis, “le donne pensarono che era venuto il momento di una Presidente donna. Mi offrirono questa opportunità, ed io accettai di impegnarmi.”
30 anni dopo lo storico sciopero, le donne islandesi riconoscono i risultati raggiunti, ma provano anche un senso di amarezza per le troppe cose che non sono cambiate. I loro salari, ad esempio, ammontano mediamente solo al 64,15% di quelle degli uomini, a parità di orario e qualifica. Ma dall’esperienza precedente hanno imparato molto: il 24 ottobre 2005, un gran numero di esse ha ripetuto lo sciopero, lasciando il lavoro alle ore 2.08 del pomeriggio, ovvero al momento in cui guadagnerebbero il 64,15% della paga se avessero gli stessi stipendi degli uomini. Dalle cucine si sono portate dietro padelle e pentole e per farsi ascoltare dalle autorità hanno prodotto con esse un cacofonico e allegro concerto per le strade d’Islanda.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Una musica pacifica aperta alla democrazia estrema
Diversità musicale per vedere le cose da diversi punti di vista

Igor Stravinski ha definito Webern “l’eroe che ha tagliato il diamante della solitudine”. Prima di cominciare a scrivere musica seriale, nel 1944 Stravinski ha scritto un’opera per due voci soliste, coro e orchestra. Mezzi tutti tradizionali, lo stesso organico di un’opera di J.S.Bach. Stravinski ha una grande venerazione per Bach e a lui si è riferito certamente, ma ha eliminato tutto quello che ci poteva essere di egocentrico nella musica di Bach, in particolare la polifonia allo stato puro. E’ una musica pacifica, non ha niente di aggressivo, ma usa sonorità molto forti, scostanti, spigolose e richiede una cultura uditiva che permetta di comprenderla. Non per niente è stata subito paragonata alla pittura taoista cinese e giapponese o ai poemi zen. E’ una sensibilità molto vicina al buddismo, mentre Webern è più tomista e nei suoi testi parla spesso del “Verbo”.
Se uno degli ostacoli maggiori alla pace è l’ipertrofia egocentrica (non solo l’egocentrismo individuale, ma anche quello di gruppo), allora una musica come questa può rappresentare un esercizio di apertura non egocentrica e dunque un esercizio di democrazia estrema. Ecco dunque un modello a partire dal quale tutto il nuovo movimento musicale poteva e può svilupparsi. In effetti, questo linguaggio musicale è stato subito imitato e, dopo la seconda guerra mondiale, si è caduti in un nuovo accademismo, rischiando di riprodurre le qualità esteriori senza aver compreso il principio e senza applicarlo veramente. Non si tratta per un musicista di riprodurre le settime maggiori ma l’organizzazione di tutto quello che Webern ha applicato. Agli inizi degli anni cinquanta, la nostra generazione di musicisti era molto severa verso i compositori pre-weberniani, c’era tra noi un anatema crudele e molto ingiusto verso di loro. Questo impediva di comprendere meglio l’essenza della musica moderna e il fatto che ogni compositore, a suo modo, aveva realizzato alcuni aspetti di questo principio nuovo. Questo principio nuovo lo definisco in generale come tensione mantenuta. In effetti, per realizzare l’organizzazione concentrica della musica classica umanistica, bisognava basarsi continuamente sul principio della risoluzione delle tensioni, della risoluzione delle crisi, delle difficoltà, in una pseudo-armonia in cui io sono il centro.

pace come equilibrio di forze

Wagner ha cominciato a sollevare il problema restando prigioniero della risoluzione e Stravinski non parla più di risoluzione ma di nostalgia della risoluzione. Ma sia in Berg che Schoenberg e ancor più in Stravinski e Debussy, si introducono altre novità. In Stravinski ci sono certamente tensioni che restano non risolte, sia nell’armonia, sia nella sovrapposizione di note, ci sono componenti relativamente classiche, ma ci sono anche componenti che le contraddicono e le relativizzano. Le strutture sono spesso composte da opposizioni senza mediazioni. Dunque compare l’idea della costellazione e il principio della tensione mantenuta e della necessità di mantenere la tensione, cioè la necessità di mantenere una certa situazione di guerra che, se volete, ci porta un’altra idea della pace, non più centrata su di me tutto solo, ma che è nell’equilibrio di forze. Non c’è più una visione unica della verità giusta, bisogna considerarne la complessità. La musica parla anche della verità e dunque occorrono musiche che facciano vedere le cose da diversi punti di vista. Nell’ultimo periodo della sua opera, Stravinski è stato molto colpito dall’opera di Webern. Dagli anni cinquanta in poi, le sue opere, pur restando molto personali, si sono messe a dialogare in particolare con Webern. La sua prima opera di questo periodo “Agon”(= lotta) è un’opera in cui racconta una lotta amorosa col modello di Webern. Stravinski aveva basato tutta la sua arte sul ricordo non solo della musica classica, ma anche di musiche più antiche, esterne all’Europa e alla civiltà europea, musiche popolari, primitive come in “La sagra della primavera”. Con “Agon” mette tutto questo in rapporto con Webern e fa una specie di grande confronto storico fra tutto quello che noi conosciamo e Webern. In questa musica si può trovare una mediazione col passato e una volontà di lavorare per costruire uno spazio popolare contemporaneo molto meno selettivo rispetto a quello della musica contemporanea che fu il contrario della selezione antica. Nelle opere più tardive dei compositori della mia generazione si trovano lavori che vanno in quel senso e per i quali Stravinki è servito certamente da modello. Potrei citarvi la mia opera “Votre Faust”, che non solo è un’opera variabile,”aperta”, ma anche un’opera dove ci sono quasi esclusivamente citazioni di musica classica, mescolate con altri elementi in una specie di grande insalata tutta in dialogo con la storia. Un’altra è “Sinfonia” di Berio, in cui il terzo movimento è uno scherzo tratto da una sinfonia di Mahler sul quale Berio ha graffettato citazioni di Bach, Debussy, Beethoven, Ravel, Shoemberg, Webern. C’è un opera di musica elettronica degli anni sessanta, “Hymnen” di K.H. Stockhausen, un grosso affresco di due ore che contiene gli inni nazionali di quasi tutto il mondo. Un’opera internazionalista che racconta tutti i tipi di storia e comprende, alla fine, la risoluzione delle difficoltà attraversate, di tutte le guerre mostrate e raccontate, in un’armonia che non è soltanto egocentrica, ma stockhausencentrica…

musiche politiche ed esercizi di democrazia

Parlando di musiche politiche abbiamo due grandi correnti. Da una parte le musiche descrittive che presentano una situazione, con tre possibilità: 1: parla il testo e il sostegno musicale è quasi indifferente; 2: non c’è rapporto tra musica e testo; 3: la descrizione serve a sollecitare un cambiamento:“Guardate: non dobbiamo continuare così!”.
Poi ci sono le opere politiche basate su un tipo di struttura musicale che possiamo definire “opere aperte” (vedi Umberto Eco), una corrente nata per sperimentare altre relazioni nella pratica musicale. Nella pratica musicale classica, l’orchestra che esegue un concerto riproduce forme di repressione, di separazione del lavoro, di sfruttamento, con la partitura che ognuno dei musicisti deve eseguire, col direttore d’orchestra che dà il tempo e tutti i musicisti che sono completamente sottomessi. Con l’opera aperta si sperimenta un altro rapporto. Per esempio, il compositore non impone completamente il suo pensiero o immagine musicale ma, al contrario, fornisce agli esecutori un materiale anche molto elaborato, con strutture anche complesse, ma non completamente fissate, per potersi prestare a tutti i tipi di varianti. All’interno di questo paesaggio che il compositore propone, resta una vera e considerevole libertà e capacità d’iniziativa, una sperimentazione di democrazia, di vera pratica democratica per alcune persone nel piccolo ambito musicale. Con un’opera aperta, se l’interprete è un singolo musicista, è evidente che l’esecutore può organizzare quello che il compositore propone con totale padronanza sul risultato. Se abbiamo due, cinque, dodici o venti musicisti, il pericolo aumenta notevolmente perché si possono disturbare reciprocamente, possono entrare in contrasto, il risultato può diventare stocastico, un imbrogliaccio e, senza certe disposizioni, ci saranno momenti di crisi perché mentre uno fa una cosa l’altro può fare il contrario, neutralizzandosi a vicenda.. Dunque è proprio il problema della società, il problema di come essere liberi senza creare entropia o massa o livellamento senza significato. Ho lavorato su opere aperte per due o sette musicisti e poi nel 1970 sono arrivato a un’opera per venti musicisti. Si chiama “Icaro 2” e prevede un solista principale, tre altri solisti, poi quattro gruppi di quattro, tutti solisti con ogni possibile iniziativa ma un po’ differenziati nell’importanza dei ruoli.
C’è un’opera che fa tesoro dell’incontro tra Webern e Stravinski, con la coabitazione del vecchio e del nuovo, del conservatore e del progressista. Un’opera ammirevole per piano di Frederic Rzewski, “36 variazioni su El pueblo unido jamas sera vencido”. Partendo dal tema della canzone politica sviluppa trentasei variazioni per piano costruendo una specie di confluenza di tutte le musiche possibili e immaginabili. In questo modo produce un grande accumulo di energia davvero galvanizzante ed è una meravigliosa illustrazione del tema della canzone (1).
La mia opera “La rose des voix” (2) è l’idea di un sistema di sistemi, di una grammatica generalizzata che permetta non di appropriarsi di tutte le musiche, ma di tentare di metterle in rapporto, di farle dialogare nel modo più rispettoso possibile. Ho tentato di rappresentare la confluenza dei popoli provenienti dai quattro punti cardinali con la loro musica, la loro lingua, la loro cultura. La realizzazione concreta è molto lontana dalla grammatica di Webern, però nello spirito e nella proposta generale credo di essere rimasto vicino al modello da cui sono partito.
Michel Butor, autore dei libretti di mie opere, ha scritto un libro su Fourier, grande utopista contemporaneo di Beethoven, dove parla del clima “fourierista”, un clima di gioia collettia, di pace, ma non di una pace addormentata, di una pace ludica e gioiosa, molto variabile da un giorno all’altro, secondo gli elementi del gioco che sono proposti. La musica in un modo o nell’altro ha proposto elementi di riflessione per una situazione migliore tra le genti: può essere musica politica, ma anche musica descrittiva e si può trovare musica che propone modelli di comportamento. Si può parlare di pedagogia musicale.

Henry Pousseur
(3 – fine)

Le precedenti puntate sono state pubblicate su AN 3/06 e AN 4/06

Note:
1 – vedi AN 8-9/05 pag. 26
2 – vedi AN 11/05 pag. 24, 25.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Democrazia senza leggetra orrore e folclore

Il caimano
Regia: Nanni Moretti
Italia, 2006
Con Silvio Orlando, Margherita Buy, Michele Placido.
14 candidature al David di Donatello 2006.

Bruno, un produttore in difficoltà, con diversi problemi familiari ed economici, rinuncia all’ennesimo film sul ritorno di Cristoforo Colombo dalle Americhe, per realizzare un progetto rischioso, un film, Il Caimano, tratto dalla sceneggiatura di Teresa, una giovane regista con pochissima esperienza, che racconta le vicende umane e politiche del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Le insidie al progetto sono moltissime: finanziatori e attori rinunciano al film, considerandolo troppo rischioso, vista la tematica. La determinazione di Bruno però è tale che alla fine decide di girare comunque…

Ho voluto vedere “Il caimano” di Nanni Moretti, senza aver letto alcun commento, per reagire in modo personale, non influenzato da alcun giudizio. Ne scrivo un commento politico-civile, più che artistico. Mi pare che il film di Nanni Moretti dica e mostri quello che già sappiamo. Ma la politica consiste precisamente nel dire le cose, nel non tacere, nel liberare la parola, nel far circolare e confrontare opinioni e giudizi, liberamente e seriamente, per poter decidere. La cultura e l’arte consistono nel trasformare l’esperienza in coscienza.
In questo film sull’Italia, la politica non c’è, è scomparsa: non compare mai l’opposizione parlamentare, non ci sono politici che intervengano a denunciare le mene e le male arti del caimano. Questa critica, forse eccessiva, è simbolicamente terribile. Solo i giudici resistono al caimano, e un solo giornalista, che fa pensare a Indro Montanelli, «dice la verità al potente» (Gandhi), unico in un consesso di alti vassalli.
Il senso della denuncia di Moretti mi sembra essere questo: la folla ipnotizzata è contro la legge. Il popolo è sedotto e addormentato con le favole, come i due bambini nel film – la favola del popolo è la televisione, arma principale del caimano, da alcuni decenni la sua via al potere – e la più bella di tutte le favole è quella dell’uomo che si fa da sé, ricco e vincente, scavalcando tutte le difficoltà, e tutte le regole, oggetto di invidia e ammirazione. Il caimano ha creato e utilizzato per sé una democrazia senza legge. È la classica degenerazione plebiscitaria che Norberto Bobbio bollava, già riguardo a Bettino Craxi, come “democrazia dell’applauso”: la democrazia, invece, è dibattito e pluralismo, confronto nonviolento di ragioni, nella ricerca del massimo consenso possibile col massimo ascolto di tutti i differenti contributi, per il maggiore possibile bene comune. Se viene assorbita nella pubblica consegna entusiasta ad un capo, le democrazia si disintegra in una apparenza vacua di trionfo e di festa, come i fuochi d’artificio e le majorettes dell’inaugurazione di Milano 2, che si vede all’inizio della storia.
A questa falsa democrazia servono i partiti personali, nati fuori dalla sofferta storia popolare e dalla cultura costituzionale italiana, senza programma sociale, per ridurre la legge (meno stato) e dare mano libera ai forti (più mercato). Nella democrazia senza legge il consenso popolare annulla il reato, pone l’eletto sopra la legge, sopra il resto dell’umanità. La qualità della democrazia dipende dalla qualità di chi ha potere, ma, più ancora, dipende sempre dalla qualità del popolo: se i cittadini pensano principalmente agli Affari Propri, non c’è più popolo, non c’è più democrazia.
Nel finale del film, la folla fedele al caimano applaude il condannato e condanna i custodi della legge. L’Italia si avvolge «tra orrore e folclore». Questa denuncia – per poterla gridare al pubblico, il piccolo produttore scalcagnato inventato da Moretti vende tutto quello che ha – è la vera opposizione della cultura, della politica, della coscienza. Allora c’è, un’opposizione, c’è una resistenza, che va all’essenza del problema meglio dell’opposizione istituzionale.
Il film è stato variamente interpretato. A me sembra che ponga, nel modo dell’invenzione filmica, in specie con l’artificio del film dentro il film, il problema realissimo italiano, che neppure la sgangherata campagna elettorale ha saputo porre: il problema costituzionale, la Costituzione, minacciata nel costume pubblico prima ancora che nella sciagurata riforma che dovremo bocciare nel referendum di giugno. Costituzionalismo significa regole che limitano il potere, che prevengono le possibilità di abuso e di violenza. Se gli italiani, in troppo grande parte, si occupano delle tasse più che della Costituzione, l’Italia sta molto male, chiunque vinca. Se i politici non pongono in primo piano questo aspetto, forse è perché conoscono i loro polli, ma sbagliano e lasciano che si abbassi il livello civile.

Enrico Peyretti

Di Fabio