• 19 Aprile 2024 16:11

Azione nonviolenta – Marzo 2002

DiFabio

Feb 4, 2002

Azione nonviolenta marzo 2002

– Da Ferrara, città delle bici, nasca la rivolta contro l’auto
– Verso il XX congresso nazionale del movimento nonviolento
– Le mille idee di porto alegre per opporsi alla guerra e costruire insieme l’unico mondo possibile Vai
– L’Europa della difesa comune e dei mercanti d’armi non vuole far nascere il corpo di pace Vai
– I guai d’America di oggi nelle parole di un pacifista di un secolo fa: Jane Addams, premio Nobel per la pace 1931 Vai
– La provocazione verbale incoraggia la violenza: la polizia e i No Global, Bush e Bin Laden
– L’obiezione di coscienza in Bosnia Herzegovina
– Azioni nonviolente: il fuorigioco del Chievo

Rubriche

– Educazione
– Cinema
– Musica
– Economia
– Alternative
– Storia
– Lilliput
– Libri
– Lettere

Da Ferrara, città delle bici, nasca la rivolta contro l’auto

di Mao Valpiana

La nonviolenza, varco attuale della storia, è il messaggio che ci ha lasciato Aldo Capitini. Ma a quale storia stava pensando? Alla storia del mondo, credo, ma anche alla nostra storia personale. Così questo Congresso ci costringere a guardare lontano, verso l’orizzonte, ma anche dentro ognuno di noi. La nonviolenza che interpella il mondo, e insieme ogni persona. Ma non è una nonviolenza astratta, quella che stiamo cercando, è una nonviolenza che ci unisce in un movimento concreto.

Un “movimento”, per definizione, deve muoversi. Muoversi, non agitarsi. Chi si agita fa gesti scomposti, improvvisi, esagerati, scoordinati, incontrollati e reagisce a sollecitazioni esterne. Chi si muove, invece, ha una direzione precisa da seguire; cammina da un luogo ad un altro, ha un programma, una strategia, segue una disciplina, ha un obiettivo da raggiungere.
Ma per quale cammino deve organizzarsi il MN di oggi?

L’obiettivo non può essere, realisticamente, quello di trasformare da subito la realtà che avvertiamo come fortemente inadeguata; così come siamo coscienti che non possiamo noi, oggi, fermare la guerra. Troppe le forze in campo, gli interessi, troppo diffuso il consenso sostanziale ai meccanismi che rendono possibili i conflitti armati, frutto diretto di questo sviluppo.
Dunque il MN non ha, e non potrebbe avere, l’obiettivo politico di diretta trasformazione sociale. Porselo sarebbe un’illusione. Anche perché sappiamo che la novità non verrà da un semplice cambio di potere, ma solo da una radicale trasformazione delle coscienze e del modo di vivere di tanta gente. Per questo il Movimento Nonviolento fa politica, ma non è un partito.

Penso che lo scopo principale del MN del 2002 sia quello di agire per offrire indicazioni preziose a chi (gruppi, movimenti, partiti, singole persone) desidera intraprendere il difficile cammino sulla strada della nonviolenza. Intuizioni, dunque. Stelle polari. Utopie concrete.

Opporsi alla preparazione della prossima guerra (e non fermare la guerra in corso, impresa mai avvenuta nella storia) oggi significa opporsi anche a questo tipo di sviluppo che per mantenersi ha bisogno della guerra come l’erba dell’acqua.
Il modo più efficace per opporsi a questa società non è scontrarsi direttamente con essa (troppo forti le sue potenze, che schiacciano subito chi non si adegua), ma far percepire alle persone insoddisfatte (e quante ce ne sono che si lamentano e ripetono che così non si può andare avanti, salvo poi perpetuare quotidianamente la loro soddisfatta insoddisfazione) l’idea che può esistere una società diversa e più desiderabile. Una società non della materia e delle cose, ma dello spirito e delle idee. Non delle contrapposizioni e della concorrenza, ma della convivialità e della collaborazione.

Ma ci vuole un’idea forte, una visione, un miraggio con la forza di muovere le carovane.

Cos’è che oggi, più di ogni altra cosa, rende invivibili le nostre città, ammorba l’aria, sporca l’acqua, sovrasta le voci e i colori della natura? E’ l’automobile. Il traffico è il primo problema del cittadino urbanizzato. Gli ingorghi nei quali restiamo imbottigliati ci fanno imprecare, ci fanno “perdere tempo prezioso”, riempiono di smog il cielo e i polmoni. Eppure continuiamo ad accettare di vivere nella civiltà dell’automobile. Per estrarre il petrolio necessario alla sua cronica dipendenza da benzina, si saccheggiano le viscere della terra; per difendere i pozzi lordi di “oro nero”, si fanno guerre miliardarie. Per ogni nato registrato all’anagrafe, ci sono quattro nuove immatricolazioni alla motorizzazione. Per ogni poppata di latte materno, ci sono quattro pieni di benzina verde.

Lasciatemi sognare. Immagino che da un’idea nonviolenta nasca una rivoluzione contro l’automobile. Facciamo un movimento mondiale delle bici e dei pedoni, con un solo punto programmatico: abolire l’automobile! Chiudendo i pozzi di petrolio, si rivedrebbero i bambini per strada; con nuova energia pulita ci sarebbe beneficio per l’aria e per l’acqua, si trasformerebbero le città. Senza il barile di greggio da quotare in borsa, si crollerebbero perfino i fatturati delle industrie belliche.
L’idea guida che nessun partito metterà mai nel suo programma è proprio questa: buttare via i quattro pneumatici e rimettere al centro delle città i due piedi. Dopo la rivoluzione industriale sarebbe la volta della rivoluzione umana.

Questo numero precongressuale di Azione nonviolenta rilancia le tante idee-forza che vengono da Porto Alegre, dalla rete Lilliput, dai Corpi Civili, dal pacifismo di ieri e di oggi; idee che discuteremo insieme a Ferrara (capitale italiana delle biciclette) e dalle quali nasceranno gli impegni per il Movimento Nonviolento dei prossimi anni.

Verso il ventesimo Congresso Nazionale del Movimento Nonviolento
“La nonviolenza è il varco attuale della storia” (Aldo Capitini)
Ferrara, 12 – 14 aprile 2002
Un Movimento inattuale

di Pasquale Pugliese (Reggio Emilia)

Quando svolgemmo il XIX Congresso del Movimento Nonviolento ( Pisa , 29 ottobre – 1 novembre 1999) sul tema Nonviolenza in movimento non ci rendevamo forse pienamente conto del valore profetico di quel titolo – non c’era ancora stata Seattle, ne Genova, ne Porto Alegre: il “movimento dei movimenti”, con la sua voglia di nonviolenza, non si era ancora manifestato sulle strade e sulle piazze delle nostre città.
E’ questo solo l’ultimo esempio di una capacità propria della cultura nonviolenta di essere spesso in anticipo sui tempi e sugli eventi della storia. Il suo essere inattuale perché volta a delineare e costruire oggi quello che non c’è ancora, ma che, proprio grazie a quel paziente lavoro di costruzione, ci sarà domani. Non è stato forse così per molti dei temi in agenda nel movimento di costruzione dell’altro mondo possibile?
Non fanno parte del bagaglio della cultura e della prassi della nonviolenza, e a volte proprio della storia del Movimento Nonviolento, molte delle idee, delle proposte e delle pratiche che si vanno diffondendo a macchia d’olio in questa stagione di lotte e mobilitazioni?
L’economia sobria e solidale, locale e autosufficiente, non monetaria ed a basso consumo energetico, rispettosa della natura ed al servizio degli uomini non deriva dalle riflessioni e dalle sperimentazioni gandhiane sullo swadeshi (ossia il contare sulle proprie forze) ed il sarvodaya (ossia il benessere di tutti)?
L’opposizione integrale alla guerra – a tutte le guerre – e l’impegno per il disarmo fino alle conseguenze estreme dell’abolizione degli eserciti e della costruzione di forme di difesa non armata e nonviolenta non sono i progetti per i quali gli amici della nonviolenza da sempre hanno lottato e pagato di persona anche con la galera?
La democrazia partecipativa, la lotta dal basso non per conquistare il potere ma per trasformarlo, la sua distribuzione tra tutti, non sono i contenuti delle profonde analisi capitiniane sul necessario passaggio dalla democrazia all’omnicrazia e il segno che
volle dare con la promozione del Centri di Orientamento Sociale nell’Italia del primissimo dopoguerra?
E la nonviolenza come prassi di azione politica, alternativa tanto alla rivoluzione armata che al parlamentarismo, capace di attivare già nel mezzo un pezzo del fine che intende raggiungere, volta ad interloquire tanto con gli avversari che con le terze parti, dolce nelle tecniche ma ferma nella lotta – che tanta parte del “movimento dei movimenti” comincia a studiare, a praticare o, almeno, a proclamare – non è la ragione stessa di esistenza del Movimento Nonviolento? Non è un caso che una parte del “movimento” faccia propria una delle pratiche che furono all’origine del MN dandosi come impegno la ricostituzione dei Gruppi di Azione Nonviolenta, ed un’altra parte – faticosamente, contraddittoriamente e magari non consapevolmente – approdi esplicitamente alla disobbedienza civile pur provenendo da tutt’altre pratiche di lotta.
Per quanto tempo tutto ciò è stato considerato – ed era – inattuale?
Ma oggi siamo entrati in un’epoca di grandi trasformazioni che per un verso alimentano paure e propositi di guerra permanente planetaria, e per altro promuovono grandi speranze di cambiamenti culturali, sociali ed economici. Da un lato si passa dalla globalizzazione soft alla globalizzazione hard che s’impone militarmente (Revelli), dall’altro si resiste e si costruisce un altro mondo possibile.
Dunque la nonviolenza è il varco attuale della storia.
E il Movimento Nonviolento, nel suo piccolo e nella sua inattualità, può aiutarne il passaggio compiendo, oggi, alcuni sforzi dei quali, domani, qualcuno forse vedrà i risultati. Ne vedo quattro prioritari:
1)il recupero della cultura politica nonviolenta nella sua integrità – dall’economia alla trasformazione del potere, dall’antimilitarismo al metodo di lotta – perché la nonviolenza è un progetto complessivo di lotta alla violenza diretta, strutturale e culturale, che reciprocamente si tengono, e di costruzione della società nonviolenta in tutte le sue dimensioni;
2)il continuo approfondimento di tutti i nostri temi, in maniera tanto scientifica che divulgativa, per produrre e diffondere cultura nonviolenta ai diversi livelli – utilizzando canali diversificati e recependo maggiormente ciò che si elabora al di fuori del nostro paese – perché la nonviolenza è teoria e prassi non date una volta per tutte ma in continua evoluzione;
3)essere presenti in maniera sempre più qualificata nei luoghi della nuova contestazione e della costruzione delle alternative, portatori della nostra cultura di fini e di mezzi, per aiutare a trasformare il conflitto ecologico e sociale – oggi assunto ed agito da una nuova generazione – in senso nonviolento, perché c’è nei movimenti fame di nonviolenza (forse mai come ora) ma poca conoscenza;
4)puntare sulla crescita numerica ed organizzativa del Movimento Nonviolento, perché la nonviolenza politica si diffonde se ha gambe sulle quali cammina ed impegno di militanti sui quali contare e sulla sempre maggiore qualità di Azione Nonviolenta la quale – già impegnata in un continuo sforzo di miglioramento grafico e di contenuti – potrebbe ancor di più diventare rivista di approfondimento, di formazione e di lavoro per tutta l’area nonviolenta, oltre che di divulgazione.
Cosa fanno gli amici della nonviolenza?

Di Luciano Capitini (Pesaro)

Quante volte ci siamo sentiti porre questa domanda, provando sempre un senso di imbarazzo, sapendo tuttavia di avere buone scusanti per la nostra poca incisività?
Abbiamo vissuto anni e anni in cui altre idee dominavano (e noi temevamo che fossero fallaci), altre proposte politiche sembravano avere un fascino irresistibile……
Ora tutto è svanito, tramontato: le guerre che facciamo (come italiani, intendo), l’avvento di un regime minaccioso, hanno riportato molti alla realtà, ed ecco che la candelina che abbiamo mantenuto accesa sembrerebbe in grado di riprendere vigore e accendere fuochi ben più visibili.
Come per un miracolo, la parola nonviolenza riappare negli ambienti che più ci interessano, i giovani, i cristiani, le persone che sentono fortemente l’appello delle loro coscienze.
E così, lo ripeto, come per incanto, nasce la rete di Lilliput che non solo mette la cultura nonviolenta alla base del proprio agire, ma compie passi effettivi, immediati, per attuare tale idea.
La rete è composta da nodi, e tali nodi sono luoghi di confronto e di attività, liberi da qualsiasi legame gerarchico, in una struttura – di rete, appunto – che dichiara di negare ogni tipo di verticismo, di rincorsa dell’evento mediatico, ma di proporsi di permeare il proprio territorio, di agire sulle radici culturali di una società ritenuta inadeguata.
Come non pensare ai COS, all’omnicrazia, ad Aldo Capitini?
E le cose vano proprio così: a Marina di Massa, (18/20 gennaio – assemblea generale) tanti giovani e molti meno giovani hanno ribadito questi intendimenti (i principi di fondo – così vengono chiamati), e li hanno attuati.
Personalmente ho lavorato nel Gruppo di Lavoro Tematico (GLT) “nonviolenza e pace”, uno dei 5 GLT, dove eravamo 100/120 persone – una grande assemblea – e dove importanti decisioni sono state prese col metodo del consenso.
Il metodo del consenso (la ricerca dell’unanimità) permette di valorizzare ogni individuo, di dare peso ad ogni idea, in un rapporto di apertura e disponibilità eccezionali.
La rete intende stare lontana da partiti e sindacati, ma è conscia, e lo ripete spesso, che la sua azione è politica, ed che il suo agire deve incidere nella società.
Anche negli altri GLT le decisioni, le idee che hanno prevalso, sono sempre state confrontate con principi ispirati alla nonviolenza.
I pochi amici della nonviolenza che erano a Marina di Massa hanno fatto un ottimo lavoro, di cui altri relazioneranno, erano perfettamente inseriti nello spirito di Lilliput, e , se me lo permettete, godevano di particolare stima.
Tutto ciò per arrivare a esortare gli amici della nonviolenza che ancora non l’avessero fatto, ad entrare nel nodo più vicino, di vivere questa esperienza con passione, di dare e ricevere suggestioni forti.
Laddove un nodo non esistesse è sufficiente essere in 2/3 persone e formare un “gruppo” (la struttura che precede il nodo), notificandosi presso la segreteria nazionale, ed allargarsi poi ad associazioni , gruppi e individui.
L’unica pregiudiziale è l’accettazione del manifesto di Lilliput (che trovate sul sito).
Reputo questa occasione come unica, forse irripetibile, se dovesse fallire, e può fallire, di una cultura nonviolenta di massa non se ne parlerà più per alcuni decenni, e dopo, alla prima guerra, qualcuno ci chiederà dove eravamo…

Le mille idee di Porto Alegre per opporsi alla guerra e costruire insieme l’unico mondo possibile

Di Tiziana Valpiana

Sotto un acquazzone torrenziale caldissimo, prende il via la grande manifestazione di apertura del II Forum Social Mundial, indetta da Via Campesina e dal titolo inequivocabile: “Un altro mondo socialista è possibile”, con circa 50mila partecipanti, di cui 13-15mila delegati del movimento, striscioni, canti, suoni e ritmi tipicamente sudamericani, multiculturalità e mescolarsi di visi e colori diversi. Aperto dai bambini dei Sem terra, il corteo pullula di donne, di indios, di giovani, ma anche di bandiere della Cut, il sindacato brasiliano… Si fa notare immediatamente la delegazione italiana, composta da circa 1000 persone, facce già viste a Genova e che si ritrovano ancora una volte unite da quella forte esperienza sotto lo striscione inequivocabile del corteo di Roma del 10 novembre: “Contro la guerra economica, sociale e militare”.
Il popolo di Porto Alegre oggi si ritrova insieme in un’esplosione di gioia e orgoglio per sottolineare che ora non vuole più solo seguire i vertici internazionali e identificarsi con la protesta di piazza, ma è venuto il momento delle proposte ed è pronto con obiettivi concreti e campagne a dar vita alla nuova agenda del movimento globale…
E si inizia subito la mattina dopo: la prima cosa che spaventa è il programma stesso del Forum mondiale: 150 pagine in portoghese e inglese per elencare tutto ciò che avverrà nei prossimi giorni in vari punti di questa città accogliente e pulitissima (ma siamo in Svizzera?), la cui particolarità salta all’occhio immediatamente anche a chi non sa nulla di bilancio partecipato, ma vede che tutto funziona, che le ristrutturazioni sono frenetiche, che i luoghi pubblici sono particolarmente ordinati, che i trasporti pubblici sono frequentissimi, che il taxi arriva sempre immediatamente; la seconda è la sede del FSM: la Puc, Pontificia università cattolica, lascia stupefatti e attoniti per la grandiosità e la modernità, che non ti aspetteresti mai di trovare in un paese del Sudamerica, perché non ne hai mai viste di simili nel tuo primo mondo, con sale a perdita d’occhio, ipertecnologiche, con un centro stampa immenso che ospita centocinquanta computer collegati a internet, con centinaia di addetti pronti a smistare e indirizzare le migliaia di delegati sperduti e sconvolti dalla ricchezza dell’offerta. I moltissimi incontri si terranno in contemporanea, in vaste sale da migliaia di posti: si parla di commercio mondiale, di economia solidale, di popolazioni indigene, di alimentazione e transgenico, di controllo dei capitali finanziari, di temi ambientali, dell’acqua, di energia, di lavoro, di diritti umani, di violenza e discriminazioni, di democrazia partecipativa, di comunicazione, di differenze culturali… conferenze, seminari, workshop o oficinas, testimonianze, spettacoli, concerti e proiezioni… La quantità di idee e proposte alternative è così ampia che è realmente difficile scegliere: assistere a una conferenza significa vivere il rammarico di perdere tutte le altre proposte contemporanee. Come scegliere tra la prima sessione del Tribunale internazionale sul debito e il seminario sulla Tobin tax? Andare ad ascoltare Noam Chomsky che aprirà il primo Forum contro le guerre (vedi nel box il documento approvato), assieme ad ospiti eccezionali quali i due premi Nobel per la pace, l’argentino Perez Esquivel e la guatelmateca Rigoberta Menchù, il pacifista israeliano Michael Warshawsky, lo zapatista Sergio Rodriguez Lazcano (in una sala troppo piena per poter resistere) o, alla stessa ora, alla proiezione del film dei registi italiani su Genova, nel Memorial che il Municipio di Porto Alegre ha allargato anche alla storia del movimento dei movimenti?
L’enorme partecipazione, l’immensa offerta, la vivacità e il protagonismo oltre a sancire la vittoria del movimento, la sua capacità attrattiva, indicano la necessità di allargare i confini senza smarrire l’identità definita da due coordinate precise e irrinunciabili: contro la guerra e contro il neoliberismo. Il documento finale dice chiaramente che “l’opposizione alla guerra è uno dei nostri elementi costitutivi”. Non era un risultato scontato, soprattutto dopo che la seconda edizione del Forum parlamentare ha visto momenti di tensione e di contestazione: circa 400 delegati dei movimenti sociali hanno contestato la presenza di politici che hanno votato o sostenuto la guerra. Tra i circa 700 tra deputati nazionali, europei e senatori, erano presenti molti esponenti delle sinistre socialdemocratiche e liberali, con il tentativo esplicito di settori delle sinistre moderate di rilanciare se stesse dentro il movimento. I contestatori sono entrati nella grande sala al grido di “Fuori la guerra dal Forum”.
UN MONDO SENZA GUERRE E’ POSSIBILE

Un mondo con le guerre: questo è stato il mondo negli ultimi secoli. Guerre coloniali, guerre imperiali e fra imperialismi, guerre etniche, guerre religiose. La guerra ha smesso di essere un mezzo per trasformarsi in una forma d’essere di vari Paesi, come strumento di conquista, di rafforzamento delle proprie economie, di imposizione della propria egemonia imperiale.
Il mondo con le guerre è stato il mondo del dominio della ricerca illimitata di lucro, dello sfruttamento sfrenato delle fonti naturali, del supersfruttamento dei lavoratori, dell’uso della tecnologia per accumulare più ricchezza e non per la conquista del benessere dell’umanità.
La fine della guerra fredda e del bipolarismo tra le due superpotenze non ha significato l’avvento della pace e della risoluzione armoniosa dei conflitti. Al contrario, ha rappresentato la recrudescenza delle avventure belliche, in particolare con le guerre del Golfo, della Jugoslavia e dell’Afghanistan: in realtà massacri di avversari chiaramente inferiori e principalmente bombardamenti di popolazioni civili.

Gli attentati terroristici dell’11 settembre hanno avuto come risposta l’instaurazione del terrore come forma di relazione tra i Paesi, in sostituzione del diritto internazionale fino allora precariamente vigente. Gli Usa – protagonisti principali, diretti o indiretti, di praticamente tutti i conflitti bellici esistenti – sono passati ad imporsi con la forza della loro volontà, con il bombardamento, con le minacce, con l’assunzione del ruolo di giudici e di gendarmi del mondo.
Intanto, un clima di nuova “guerra fredda” è stato installato nel mondo. La Palestina è devastata, il Plan Colombia si estende, le relazioni tra India e Pakistan si deteriorano, vari governi assumono la posizione di militarizzazione dei conflitti, come, tra gli altri, quello messicano in relazione al Chiapas e quello spagnolo in relazione ai Paesi Baschi. Le Nazioni Unite sono definitivamente svuotate, le altre potenze capitaliste e quasi tutti gli altri governi del mondo delegano agli Usa la funzione di agenti del terrore permanente o tollerano la generalizzazione dell’arbitrio e della violenza come a dire al mondo che la legge del più forte si imporrà sempre.

L’aumento della disuguaglianza nel mondo, l’estensione del processo di esclusione sociale e di miseria funzionano sempre più come brodo di coltura perché conflitti che potrebbero essere risolti in forma pacifica sbocchino in conflitti violenti, aggravando il clima di guerra che tanto interessa a coloro che la promuovono e che su di essa lucrano. E, tuttavia, un mondo senza guerre è possibile… Possibile e indispensabile, se l’umanità vuole avere un futuro.

Un mondo senza guerre è possibile, a condizione dell’esistenza di un organismo internazionale con potere e legittimità per mediare nei conflitti, con giustizia ed equità, che rappresenti la volontà maggioritaria dell’umanità in forma democratica. Questo organismo può essere l’Onu, nel caso venga democratizzata, ponendo fine al potere di veto delle potenze imperiali che si arrogano il diritto di essere membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Un mondo senza guerre è possibile, se si elimina l’industria delle armi e se le sue milionarie risorse fossero trasferite per soddisfare le necessità di base della maggioranza dell’umanità, oggi esclusa dall’accesso a quello che il mondo è in condizioni di produrre.
Un mondo senza guerre è possibile se viene abolito il debito estero illegittimo e vengono eliminati i paradisi fiscali, dove vengono lavati i polposi profitti dell’industria bellica – tra altre fortune clandestine – e si distruggono le reti di finanziamento di gran parte dei conflitti mondiali, alimentati dagli armamenti prodotti dalle maggiori potenze economiche del mondo, le stesse che detengono il potere di veto alle Nazioni Unite.
Infine, un mondo senza guerre è possibile, se il mondo è ricostruito senza potenze egemoniche, rispondendo alla molteplicità e alla divcusità dell’umanità, senza il predominio delle une sulle altre. Un mondo senza guerre sarà un mondo senza egemonie, sarà un mondo con un potere mondiale democratizzato, poggiato su processi di integrazione regionale, espressione degli interessi della grande maggioranza dell’umanità.

Adolfo Perez Esquivel
Rigoberta Menchú Tum
Clacso – Consiglio latino-americano di scienze sociali
Cut – Centrale unica dei lavoratori
L’Europa della difesa comune e dei mercanti d’armi, non vuole far nascere il Corpo Civile Europeo di Pace

di Paolo Bergamaschi

Era il maggio del 1995 quando durante un dibattito sul futuro dell’Unione il Parlamento Europeo adottava a sorpresa un emendamento di Alexander Langer sulla creazione di un Corpo Civile di Pace Europeo come primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti. La guerra e la pulizia etnica in Bosnia, allora, stavano mostrando gli aspetti più efferati così come emergevano tragicamente i nodi di una scriteriata politica estera europea nei Balcani.
L’idea poggiava sulla constatazione che l’esclusivo approccio militare non è in grado di risolvere le crisi e soprattutto non fornisce i mezzi per lo sviluppo e la conclusione di un vero processo di pace in caso di conflitto violento. Ad un peace-keeping militare va sempre affiancato o dato seguito un peace-keeping civile, si asseriva, alla gestione militare di una crisi deve essere affiancata quella civile.
Questa proposta è stata successivamente ripresa nel 1999 dal Parlamento di Strasburgo sottoforma di una raccomandazione al Consiglio cercando di mettere insieme e valorizzare le esperienze di molte organizzazioni non governative in vari angoli del mondo. Queste ONG, forti di competenze specifiche e azioni prolungate sul campo, avrebbero dovuto costituire il nucleo iniziale di un Corpo Civile di Pace Europeo inteso come struttura non molto ampia ma flessibile specializzata nell’attuazione di misure pratiche per la realizzazione della pace quali l’arbitrato e il ristabilimento di un clima di fiducia fra le parti belligeranti, la distribuzione di aiuti umanitari, il disarmo, la smobilitazione ed il reintegro degli ex-combattenti, la riabilitazione, la ricostruzione e il monitoraggio della situazione dei diritti umani.

La Politica Europea di Sicurezza e Difesa
La successiva crisi in Kosovo ha fatto scivolare di nuovo in secondo piano questa proposta provocando fra i paesi europei, in seguito ai malcelati dissensi con il governo americano, la necessità di definire e mettere in piedi con urgenza una politica europea di sicurezza e difesa (PESD). Si è così cercato di trovare un accordo con la NATO per l’uso delle sue strutture e delle sue capacità operative (bloccato prima dalla Turchia, membro dell’alleanza atlantica, e oggi dalla Grecia), si è accelerato il progetto di un modello europeo di areo da trasporto di truppe e di mezzi, si è rafforzata l’idea di una rete satellitare europea ed è partita la costituzione di una Forza di Reazione Rapida di 60.000 uomini in provenienza dai diversi paesi membri. Il fatto, poi, che il segretario in scadenza della NATO, lo spagnolo Solana, diventasse il primo Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione Europea dirottava ancor di più l’Europa verso una preoccupante dimensione militare.
Contro questa deriva si è levata forte la voce dei paesi neutrali, in particolare Svezia e Finlandia, i cui governi sono stati sottoposti alla pressione insistente delle rispettive opinioni pubbliche timorose che questo passo comportasse l’abbandono di uno status profondamente radicato nella loro storia e cultura. Contemporaneamente nell’Europarlamento una consistente parte delle sinistre (Verdi, Gruppo della Sinistra Unitaria e parte del Gruppo Socialista) hanno cominciato a bersagliare le presidenze di turno dell’Unione Europea affinchè si definisse in tempi rapidi anche una vera politica di gestione civile delle crisi che controbilanciasse l’approccio militare salvaguardando la tradizione, l’immagine ed il profilo di pace dell’Unione stessa.

Una politica integrata di prevenzione dei conflitti
In seguito a questo a metà dello scorso anno la Commissione Europea ha pubblicato un documento sulla prevenzione dei conflitti elaborando il concetto di un approccio integrato alle aree di crisi in cui fare confluire in modo coerente le politiche comunitarie di sviluppo e cooperazione, gli accordi economici e commerciali, il controllo del commercio di armi e i programmi di sostegno alla democrazia, allo stato di diritto, alla società civile e ai mezzi di informazione indipendenti. In questo documento ci si interroga sugli effetti delle sovvenzioni agricole comunitarie sui paesi in crisi, sul rifiuto ad aprire i mercati europei a buona parte dei prodotti più sensibili (compreso riso, zucchero e banane), sulla disponibilità ad effettuare transazioni commerciali con paesi che non rispettano nè gli standard ambientali nè i diritti umani. Parallelamente alle azioni di prevenzione a lungo termine, secondo la Commissione, l’UE dovrebbe migliorare la propria capacità di reazione rapida a fronte di situazioni che in un dato paese minacciano di deteriorarsi irreparabilmente. Nel documento viene introdotto inoltre il concetto di stabilità strutturale individuando i fattori di rischio e gli indicatori secondo i quali far scattare questi meccanismi di rapido intervento.

Il richiamo del Parlamento Europeo
Nell’ultima plenaria del 2001 il Parlamento Europeo ha preso in esame le proposte della Commissione e pur apprezzandone i contenuti ha ribadito la necessità di istituire un Corpo Civile Europeo di Pace come indispensabile strumento di intervento dell’Unione nelle aree di crisi in linea con quanto affermato nelle sue precedenti risoluzioni. Nel testo si pone inoltre l’accento sull’esigenza di rafforzare la cooperazione e sviluppare la massima sinergia di azione con le Nazioni Unite, l’OSCE e le loro diverse agenzie.
Nonostante gli sforzi prodotti dall’Europarlamento è evidente che si è prodotto un dialogo fra sordi con il Consiglio e la Commissione Europea nella veste di quelli che non vogliono, non possono o non riescono a dar seguito alle proposte parlamentari.
Eppure basterebbe guardarsi attorno per rendersi conto dell’immenso lavoro svolto dalle ONG nei Balcani e di come queste abbiano spesso supplito alle insufficienze progettuali delle istituzioni internazionali, di come ad un processo di ricostruzione fisico sia spesso mancata la chiarezza e la decisione necessaria per la ricostruzione civile dei paesi coinvolti, di come la riconciliazione fra le parti ed il ristabilimento di condizioni minime di convivenza sia rimasto un progetto sulla carta.

La voce dei pacifisti è ancora debole
E’ giunto probabilmente il momento di fare un bilancio ed un’analisi comparata dei processi di pace in corso e dei conflitti che ancora covano sotto la cenere delle macerie con particolare riferimento ai Balcani e al Caucaso. L’esaltazione e l’ostentazione da parte dei governi dei paesi dell’Unione Europea delle ormai troppo frequenti missioni internazionali di pace dei rispettivi eserciti maschera in realtà una carenza di idee di fondo che impedisce una visione equilibrata e globale dei fattori di rischio e degli strumenti più efficaci ed appropriati di intervento.
La proposta di un Corpo Civile di Pace Civile Europeo non può morire tra i rimpalli delle burocrazie europee. Spetta però anche ad un movimento pacifista maturo e forte della propria progettualità far sentire la propria voce e far crescere la cultura nonviolenta anche nelle istituzioni.

pbergamaschi@europarl.eu.int
I guai dell’America di oggi, nelle parole di una pacifista di un secolo fa:
Jane Addams, premio nobel per la pace 1931

“Per Pace non si intende semplicemente assenza di guerra, ma il dispiegamento di tutta una serie di processi costruttivi e vitali che si rivolgono alla realizzazione di uno sviluppo comune. La Pace non è semplicemente qualcosa su cui tenere congressi e su cui discutere come se fosse un dogma astratto. Essa assomiglia piuttosto ad una marea portatrice di sentimenti morali che sta emergendo sempre di più e che piano piano inghiottirà tutta la superbia della conquista e renderà la guerra impossibile” Jane Addams, 1860-1935

Di Giovanna Providenti

Tra tutte le varie cose ascoltate e viste in tv nei giorni subito successivi al crollo dell’ennesima torre di Babele, denominata proprio twin towers, quasi a richiamo di una Babele biblica non risolta, di un conflitto immanente dell’uomo contro dio, degli uomini tutti tra loro a causa di una incomunicabilità tra diversi modi di parlare con dio e di dio, mi ha colpito più di tutti una ragazza intervistata per strada che ha detto, quasi ingenuamente: “ho visto cosa è successo, ma non riesco a capire perché”.
Jane Addams, pensatrice politica di Chicago, premio Nobel per la pace nel 1931, potrebbe aiutarla. Una autrice fiduciosa come lei nel valore prioritario della etica democratica, che ella contrappone alla retorica obsoleta e gerarchica della guerra, le avrebbe potuto spiegare perché, ancora una volta, varrebbe la pena volgere lo sguardo verso i più poveri.
Un’autrice impegnata come lei, che propende per un ordine sociale in grado di permettere una piena libertà di azione individuale, che però si svolga accanto allo sviluppo di una comunità in continuo facimento e cambiamento che accolga potenzialità umane da tutte le parti del mondo, arricchendosi delle diversità culturali di cui esse siano portatrici, potrebbe aiutarci a capire perché Babele è caduta ancora ed ancora cadrà se ci si ostina a volere sfidare dio senza avere prima provato a fraternizzare, a instaurare rapporti veramente solidali, con l’essere umano che ci sta accanto, che è diverso da noi come noi siamo diversi da lui.
Addams ha dedicato moltissimo del suo impegno politico e teorico a cercare di fare capire quanto sia importante la creazione di una america democratica di tutti e per tutti. Ed in questi tutti ci sono anche le categorie storicmente escluse: le donne e gli stranieri. Gli immigrati, diversi per cultura e religione, non vanno semplicemente “assimilati, come se l’America fosse un grande apparato digestivo2”. Come bene sa chi vi lavora fianco a fianco, sperimentando attraverso l’impegno lavorativo quotidiano una relazione interpersonale equa, semplicemente si tratta di “camminare insieme lungo le strade prodigiose della cittadinanza umana, senza che abbia più importanza essere nativi o stranieri, perché ci unisce una relazione fraterna scaturita dalla nostra stessa esperienza comune3”.
La proposta politica di Jane Addams è tutta rivolta alle condizioni sociali dei cittadini, alla loro libertà di azione e a una vita di comunità impostata sull’incontro (favorito dalla valorizzazione delle differenze) più che sullo scontro (favorito dalla meritocrazia, dall’omologazione, dalla competizione, dal consumismo, dalle diseguaglianze). E questi argomenti ella considera – e propone oggi a noi di considerare – strettamente interconnessi alla grande fondamentale tematica della pace.
Gli Stati Uniti d’America, a parere della Addams, sono innanzitutto una grande democrazia che sempre di più dovrà definire se stessa sostituendo alla mentalità e alla retorica militarista, una società etica fondata, idealmente e concretamente, sul valore del lavoro. Questo significa che dovrà sostituire a un pensiero dogmatico e una politica impostata sulla punizione e sulla difesa, un pensiero articolato e una politica in grado di “garantire ad ogni cittadino un’esistenza dignitosa”. Perché questo sia possibile è assolutamente necessario (e Addams lo riteneva anche possibile) che i politici, superando una concezione obsoleta che vede nell’uomo unicamente “l’uomo economico come una sorta di lupo solitario spinto dall’unica motivazione della brama di cibo” imparino piuttosto ad “applicare la psicologia sociale all’azione politica, guardando gli uomini per quello che realmente sono: ognuno un viluppo di motivazioni complesse e sovrapposte. I politici continuano a commettere errori grossolani perché la loro azione non si fonda sulla autentica realtà della esistenza umana”4”.
Oggi, a un secolo di distanza da queste parole di Jane Addams, gli errori dei politici e degli economisti americani (e del mondo economicamente avanzato) hanno influenza su tutta la popolazione mondiale, che in gran parte (più dell’80%) sopravvive in condizioni di povertà, assenza di cibo, condizioni minime sanitarie, mancanza di istruzione e di opportunità culturali. Ma non per questo sono meno di altri “un viluppo di motivazioni complesse e sovrapposte”. Non per questo non sono anche essi “autentica realtà umana”.
La condizione, ad esempio della tanto tirata in ballo nazione afgana, superba e disperata, non è semplice da comprendere, ma sappiamo da molte testimonianze di donne – costrette da una dittatura maschilista a sofferenze fisiche e morali indicibili – che molte preferirrebbero morire piuttosto che continuare a vivere così.
Si profila dunque in parte una risposta da dare a quella ragazza. Gli atti terroristici, di cui ognuno di noi abitante nel mondo occidentale può essere vittima, sono strettamente correlati con delle precise scelte politiche che – soprattutto a livello internazionale – non sono attente all’essere umano quale realmente è, sfruttando, a favore di un benessere economico di pochi, risorse naturali e umane preziose e trasformandole in situazioni umane di altissima disperazione, in cui la vita stessa perde valore, in cui dio – o chi per lui – è una speranza molto più concreta di ogni prospettiva realistica.
In questo tipo di disperazione – anche se non necessariamente da essa – trova terreno e milizia chi sta a capo di una volontà di guerra finalizzata alla distruzione di un impero economico – non di una democrazia, perché non questo interessa – allo scopo di prevaricare, di diventare impero economico all’altezza di quelli precedenti.
La guerra – e questa guerra più di ogni altra – è il fallimento di un processo di sviluppo che abbia come soggetto la persona. Quello “sviluppo come processo integrato di espansione di libertà sostanziali interconnesse l’una con l’altra”, di cui parla Amartya Sen, che renda possibile accanto alla libertà di azione la costruzione di una comunità umana partecipe e protagonista della vita propria e di tutta la comunità.
Una umanità democratica, direbbe Addams, che rifonda se stessa su una etica socialmente condivisa da ogni individuo6, anche l’emarginato/a.
Come è possibile questo? Intanto, almeno provandoci a trovare alcuni minimi comuni denominatori dell’essere umano. Le organizzazioni umanitarie internazionali possono avere questa funzione, se rappresentano veramente gli interessi di tutti. L’impegno politico deve comunque andare nella direzione proposta da Sen: “Esiste una profonda complementarietà fra l’azione dell’individuo e gli assetti della società, ed è importante riconoscere contemporaneamente sia la centralità della libertà individuale, sia la forza delle influenze sociali sull’entità e la portata di tale libertà”. E ancora: “l’eliminazione delle illibertà di cui possiamo soffrire in quanto membri della società deve diventare il requisito fondamentale dello sviluppo7”.
L’unico modo di sfidare dio, se Babele è simbolo di una città costruita da uomini e donne senza bisogno dell’aiuto di dio, è dispiegare processi costruttivi a vantaggio di tutti, anche dei più poveri del mondo, è eliminare tutte le illibertà di cui parla Amartya Sen. E questo non è stato fatto abbastanza.
Per difendere Babele è necessario costruire, prima della maledizione divina, un linguaggio comune. Ma non affidandosi a tecnologia sempre più sofisticata, bellica o civile che sia, bensì recuperando e valorizzando tutto ciò che di comune esiste nella carne e nella mente di tutti noi uomini e donne in lotta per la sopravvivenza della nostra vita, per dare un senso alla durata della nostra vita, prima che essa sia semplicemente finita.
La provocazione verbale incoraggia la violenza: la polizia e i no global, Bush e Bin Laden

di Jerome Liss *

Quando si ragiona in modo manicheista contrapponendo “noi” agli “altri”, automaticamente si attribuiscono tutte le azioni negative di “attacco” al nemico e quelle positive di “difesa” ai nostri. Questa è appunto la logica di Bush e di Bin Laden. Il presidente americano afferma: «Sono barbari! Vogliono distruggere la civiltà occidentale!», e il terrorista saudita replica: «Sono figli di Satana! Vogliono distruggere l’Islam!».
È venuto il momento di fare un po’ di autocritica anche all’interno del movimento pacifista: vi sono gruppi che ragionano con questa logica? I suoi portavoce hanno mai scaricato la colpa interamente sugli altri, chiamandosi fuori quando membri del movimento hanno contribuito, seppure in modo indiretto, a una situazione di antagonismo che ha originato un clima di violenza? Prendiamo ad esempio le manifestazioni contro la globalizzazione che si sono tenute nel luglio 2001 a Genova.
Non vi è dubbio che la polizia si è comportata in modo brutale e violento in almeno tre circostanze: il sabato sera (19 luglio), quando la Digos ha occupato le scuole, la domenica mattina (20 luglio) nella caserma di Bolzoleto, e il pomeriggio, aggredendo i partecipanti della manifestazione pacifica. Il comportamento brutale e violento della polizia è stato confermato da numerose testimonianze.
Colgo qui l’occasione per contestare la convinzione che il movimento pacifista non abbia responsabilità di nessun tipo in questa vicenda. Pochissimi articoli nelle riviste e nei giornali più vicini agli ideali del movimento ammettono che parole o azioni dei gruppi di manifestanti (e non mi riferisco ai Black Block, estranei infiltrati) possano aver contribuito a provocare la reazione violenta della polizia. Due sole eccezioni: Mao Valpiana in «Azione nonviolenta» (settembre 2001) e Franca Rame. Forse me n’è sfuggita qualcuna. Tuttavia, la maggioranza degli articoli che esprimevano solidarietà al movimento no-gobal (alla quale anch’io mi associo, insieme, credo, alla maggioranza dei lettori) ha escluso che la responsabilità degli episodi di violenza fosse in qualche modo attribuibile ai manifestanti.

Provocazione verbale e strategia antiglobalizzazione
In quale modo il movimento no-global ha contribuito alla violenza, o perlomeno, al clima di alta tensione fra polizia e dimostranti, che è stato preludio ai successivi fatti di sangue? Ecco le dichiarazioni frequentemente ripetute da Luca Casarini, portavoce del gruppo delle Tute Bianche: «Assedieremo la zona rossa», «Agiremo corpo a corpo con la polizia».
In un momento successivo Casarini minaccia: «Vi annunciamo formalmente che anche noi siamo scesi sul piede di guerra!». Nello stesso articolo Casarini giustifica così la minaccia: «La dichiarazione di guerra l’hanno fatta loro per primi». Non sentite un’eco familiare in queste parole?
Qualcuno potrebbe obiettare che Casarini non rappresenta la maggioranza dei manifestanti riuniti per protestare a Genova. Il movimento è meglio rappresentato da Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum. Ecco quanto Agnoletto ha dichiarato: «Cingeremo d’assedio la zona rossa, ognuno con la sua forma… Dobbiamo essere noi a scegliere il terreno dello scontro».
Il lettore potrebbe obiettare che queste frasi non meritano la reazione violenta della polizia! Sono assolutamente d’accordo, ma non è questo il punto. Il fatto è che queste affermazioni hanno aumentato il livello di tensione fra polizia e manifestanti e potrebbero aver inciso sul grado di violenza a cui la polizia si è lasciata andare.
Ammettere di aver contribuito al problema non significa addossarsene tutta la responsabilità.
Mi si potrebbe muovere qui un’altra legittima obiezione: stai forse insinuando che la colpa è nostra? Il passaggio dalla semplice ammissione di aver contribuito al problema all’assunzione della responsabilità completa (è colpa nostra) è una modalità tipica del sistema limbico: le sue tempeste emotive ci spingono a un pensiero di tipo manicheo (bianco o nero, con noi o contro di noi, la colpa è nostra o degli altri). Insomma, i buoni stanno da una parte e i cattivi dall’altra.
Vediamo come hanno reagito gli americani quando è stato osservato che gli attacchi terroristici sono in parte conseguenza della politica del loro paese, che ha deciso per esempio l’embargo dei medicinali all’Iraq determinando la morte di cinquantamila bambini negli ultimi dieci anni. O quando si è notato che gli USA forniscono appoggio incondizionato a Israele, nonostante la violenta invasione dei territori palestinesi e l’uccisione di uomini e donne. Ecco la reazione americana: «Volete insinuare che è colpa nostra? Ma come vi permettete!». La semplice espressione del dubbio che si possa aver contribuito al problema scatena una reazione indignata: «Intendete addossare a noi ogni colpa?». Si tratta di una reazione classica che accade perché il sistema limbico, attivato da emozioni di rabbia e vendetta, interferisce con il pensiero razionale corticale (conscio), riportando ogni percezione alla logica seguente: «È colpa loro! Noi ci stiamo solo difendendo!».
I gruppi militari israeliani e l’organizzazione palestinese di Hamas si trovano esattamente in questa situazione. Ecco il titolo di prima pagina dell’«International Herald Tribune» del 5 dicembre 2001: “Israele rafforza la rappresaglia”. L’articolo riferisce che Israele ha iniziato ad attaccare le aree situate sotto il controllo palestinese dopo i bombardamenti kamikaze che nel fine settimana hanno ucciso venticinque persone. Perché questo terrorismo suicida? «Il gruppo estremistico palestinese di Hamas afferma di aver compiuto gli attentati dinamitardi per vendicare l’esecuzione avvenuta il 23 novembre scorso di un vecchio leader di Hamas accusato da Israele di essere un terrorista». Come ha reagito l’esercito israeliano? «A Gaza i missili israeliani hanno distrutto gli edifici del quartier generale della pubblica sicurezza, uccidendo un agente e un ragazzo di diciassette anni che stava andando a scuola. Circa centocinquanta persone sono rimaste ferite, venti delle quali in modo grave».

Come disfarsi della patata bollente
Il modo di ragionare dominato dal sistema limbico è primitivo e assolutista: «Se non è colpa loro, allora è colpa nostra: ma questo è impossibile!».
Torniamo al dubbio che ha suscitato la nostra perplessità: la possibilità che anche noi abbiamo contribuito in qualche misura al problema. Esso intende stimolare l’autocritica e la ricerca di una strategia per bloccare ogni escalation.
Sentirsi in “colpa” è come trovarsi una patata bollente fra le mani, una cosa insopportabile e per giunta priva di giustificazione, per cui la reazione istintiva è quella di lanciarla a qualcun altro: «La colpa è tua!». In sostanza, un “palleggiamento di accuse”.
La polizia accusa i manifestanti e questi se la prendono con la polizia. George Bush accusa Bin Laden e costui rilancia la patata bollente a George Bush. Ne fa le spese il ragionamento razionale e quindi si blocca ogni possibilità di dialogo, mediazione e riconciliazione.
Il fatto di chiederci in quale modo possiamo aver contribuito al problema della violenza nella manifestazione di Genova non è un’ammissione di colpa. Se accettiamo che “inconsciamente”, “ingenuamente”, “senza intenzione” o “secondi fini”, possiamo aver contribuito a creare quel clima di tensione, noi riconosciamo una nostra responsabilità e acquisiamo un potere più grande: quello di trovare il modo di evitare in futuro l’escalation di tensione fra polizia e manifestanti.

Colpevolizzare ingiustamente un intero popolo
Un altro aspetto del modo di ragionare dominato dal sistema limbico è quello di colpevolizzare un intero popolo per le azioni violente di pochi. Così Bin Laden ha la coscienza pulita quando ottomila persone innocenti vengono uccise nelle Twin Towers dai suoi eroici kamikaze. E George Bush è scarsamente preoccupato dal fatto che civili innocenti siano uccisi dai bombardamenti o dall’embargo sui medicinali all’Iraq.
In questo atteggiamento vi è un’analogia con i manifestanti no global di Genova che marciando nelle strade di varie città italiane apostrofavano come “assassini” i poliziotti che si trovavano lì con loro. Si riferivano naturalmente alla morte di Carlo Giuliani, ma intendevano quindi affermare che tutti gli agenti di polizia e i carabinieri si meritassero questa terribile accusa? Sarebbe come colpevolizzare ingiustamente un intero popolo…
Proviamo a immaginare i sentimenti dei poliziotti e dei carabinieri che stanno facendo il loro lavoro, pagati da uno stato democratico, per controllare lo svolgimento di una manifestazione politica e devono ascoltare in silenzio, senza reagire, l’accusa di essere degli assassini. La maggioranza di quei poliziotti e carabinieri non è mai stata a Genova e non ha mai torto un capello a un manifestante. Eppure essi sono costretti ad ascoltare quegli insulti scanditi e devono mandarli giù. I manifestanti stanno gettando i semi per un futuro antagonismo, che potrebbe degenerare persino in nuova violenza. Ecco il frutto che raccoglieremo: ogni parte accuserà l’altra considerandosi completamente innocente.

Costruire ponti di riconciliazione
Poiché la “nostra parte” si chiama movimento per la pace, o movimento nonviolento, penso che dovremmo proporre iniziative per il futuro che annullino o quantomeno limitino gli antagonismi e le incomprensioni fra chi ha il diritto di partecipare a manifestazioni pacifiche e chi per lavoro deve garantire la sicurezza delle strade.
Per concludere, il movimento nonviolento ha un compito ben preciso: quello di smascherare i meccanismi irrazionali e inconsci della violenza di gruppo e di frenare l’escalation di atteggiamenti riassumibili nello slogan: “Con noi o contro di noi!”, promuovendo alternative per costruire ponti di riconciliazione fra i diversi popoli nel mondo.

BIBLIOGRAFIA
La polizia attacca il corteo pacifico, «Liberazione», 21 luglio 2001 (Violenza della polizia)
La dichiarazione di guerra e Cingeremo d’assedio, «Il Manifesto», 27 maggio 2001, pag. 6. (Dichiarazioni di Luca Casarini e Vittorio Agnoletto).
I manifestanti urlano: assassini!, «Liberazione», 21 luglio 2001.

* Jerome Liss, autore della “Comunicazione Ecologica” conduce gruppi di formazione sulla comunicazione nelle associazioni. Tel. 06 5744903 – e-mail j.liss@libero.it

(Articolo tradotto da Mariagrazia Pelaia)
L’obiezione di coscienza in Bosnia Herzegovina

Il diritto all’obiezione di coscienza rappresenta uno dei fondamentali diritti umani, come afferma la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, articolo 18.
Secondo la legge sulla difesa, in Bosnia Herzegovina il diritto all’obiezione di coscienza è regolato dagli articoli 81 e 94 secondo i quali l’obiezione di coscienza è permessa a tutti coloro che per motivi etici o religiosi non siano disposti a svolgere il servizio militare nelle forze armate.
Una recluta che vuole svolgere il servizio civile, secondo la legge della Federazione della BiH, deve presentare domanda entro tre mesi dalla visita di leva.
Per quanto riguarda la Republica Srpska della BiH, il tempo concesso dalle autorità per presentare questa domanda è ancora più limitato: solo due settimane dopo la visita.
La commissione per servizio civile ha il dovere di risolvere il caso entro tre mesi dopo che l’obiettore ha fatto la domanda.
Ma in Bosnia Herzegovina si incontrano molti problemi nell’applicazione di questo diritto fondamentale.
Per esempio:
La legge sull’obiezione di coscienza in realtà non viene applicata in maniera omogenea sull’intero territorio della BiH. La grande maggioranza della popolazione non ha la minima conoscenza del proprio diritto al servizio civile. Il servizio civile impegna il cittadino bosniaco il doppio del tempo richiesto per il servizio militare.
La commissione per l’obiezione di coscienza esiste solo sulla carta: in realtà questo organismo non si è mai riunito, così che quei pochi che hanno cercato di rivendicare questo diritto non sono mai stati ascoltati e sono stati trattati con arroganza e disprezzo.
Sicuramente il problema più grave rimane la scarsissima conoscenza che le persone (specialmente le reclute) hanno dei propri diritti. Le persone non sanno niente dell’esistenza del diritto all’obiezione di coscienza e del fatto che tale diritto è regolato (anche se male) dalle leggi. Le ragioni di questo problema si annidano nel totale ostruzionismo delle istituzioni che non intendono avvisare i giovani abili alla leva dei loro diritti. Infatti la società bosniaca odierna affronta un persistente stato di “guerra fredda” tra istituzioni civili e militari divise. Sulla carta esistono due eserciti, uno per la Federazione e uno per la repubblica Srpska, ma in realtà nella Federazione, così come le istituzioni, anche le armate sono divise secondo un principio di maggioranza: la comunità maggioritaria su un territorio detiene anche il controllo effettivo delle forze armate presenti su quel territorio.
I partiti nazionalisti, protagonisti e beneficiari della divisione delle istituzioni e delle comunità, continuano infatti ad alimentare la paura dell’aggressione da parte del nemico, reale o fittizio. Si capisce perchè un tema come l’obiezione di coscienza si presenti come una spina nel fianco della politica conflittuale degli opposti nazionalismi. Negare la guerra significa superare il recente passato di violenza e, soprattutto, significa creare le condizioni per una reale pacificazione.

Presentazione del progetto
Intendiamo realizzare un progetto che aiuti la società civile a costruire autonomamente una reale cultura della pace.
I nostri principali obiettivi sono:
Informare la popolazione riguardo i problemi elencati e riguardo la necessità di risolverli. Rendere di dominio comune i problemi e formare la massa critica.
Dare precise informazioni alle reclute sul diritto all’obiezione di coscienza: che cos’è e come fare per rivendicarlo e per metterlo in pratica.
La carovana
L’idea principale per realizzare il nostro progetto è quella di organizzare una carovana composta da attivisti per la pace e da artisti provenienti da tutta la BiH. Compiremo un viaggio attraverso i mille confini interni della BiH e visiteremo dieci città. Organizzeremo un programma pensato per avvicinare la gente alla storia dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, e per trasmettere il nostro messaggio antimilitarista e pacifista.
La carovana sarà composta da 25 persone e 6 macchine che passeranno per le città bosniache. Il programma prevede: uno stand con materiale informativo (volantini, magliette, libri.), azioni «food not bombs», workshop nelle scuole, contatti con le radio locali, mostre collettive e concerti. La carovana partirà il 22 aprile da Trebinje (in Repubblica Srpska) e si concluderà a Sarajevo il 15 giugno (giorno dell’obiezione di coscienza) con una grande manifestazione a cui prenderanno parte tutte le organizzazioni e gli individui attivi nella campagna per l’obiezione di coscienza in Bosnia Herzegovina (che dura da più di un anno).
Se siete interesati all’intera campagna, o a questo progetto di carovana, o vi interessa chi siamo e cosa stiamo facendo, o potete aiutarci in qualche modo.
metiamoci in contatto.

Denis Kajicù

MIFOC, Mostar Intercultural Festival-Comitato Organizzativo
e-mail: denisk@cob.net.ba
Azioni nonviolente: il fuori gioco del Chievo

di Alberto Tomiolo

E’ un bel gioco che ha tutta l’aria di durare parecchio, quello del Chievo, magari fino al tavolo esclusivo della Champions League. Che si tratti, per diversi aspetti, di un “evento” esemplarmente mediatico, “scoperto” ed esaltato dalle redazioni giornalistiche e televisive, non si può negare: e tuttavia molti elementi che continuano a determinare la fortuna addirittura planetaria e ad alimentare il flusso di energie simpatetiche per la “squadretta” del quartiere si porgono come genuini e incorporano, speriamo con qualche frutto meno stagionale, valori contigui alla cultura nonviolenta.
Prescindiamo da gesti del tutto inconsueti per la morale sociale di uno sport fortemente competitivo e violento qual è il calcio-palinsesto dellle pay tv, come quando Manfredini (un “negro”!) o Corini hanno restituito volontariamente il pallone agli avversari per un fallo non accertabile dall’arbitro. Lasciamo pure nei suoi luoghi canonici il riferimento al “Sogno” di Luther King, ma non è facile rinunciare all’idea lieve e liberatoria che i “mussi” volanti, gli asini che riescono a librarsi e a scardinare le leggi della gravità del calcio industriale, rappresentino la metafora di una rivincita sulle reclamizzate mitologie della forza del denaro e dell’investimento di capitale ineluttabilmente “vincente”.
Ed è proprio sui dati “strutturali” della performance clivense (Chievo da Clivus, luogo del pendìo) che possiamo fondare la nostra “lettura” della scomposizione delle regole presunte, o piuttosto di una loro “estremistica” e dunque incompatibile applicazione, e la riaffermazione della natura ludica, non forzosamente predeterminata dalle risorse finanziarie, del gioco. Sfatando, in via preliminare, un luogo comune: la società non è affatto “fortunata” nè sbarazzinamente “improvvisatrice” e neppure “alternativa”: potremmo definirla una traduzione felice di “aziendalismo dal volto umano”, sia pure con qualche sospetta venatura di vendetta o di rivalsa personale. A chi la segue, come lo scrivente, da qualche lustro, è sempre stato noto infatti il puntiglio calvinista con cui un paio di famiglie di imprenditori (estromessi dalla gestione dell’Hellas Verona, ma saldamente titolari della proprietà di “Veronello”, modernissima cittadella del calcio alla maniera di Milanello ed Appiano Gentile) hanno perseguito la grande rivincita nei confronti della progenitrice divenuta matrigna.
Ancorati all’assioma ginevrino che una sana conduzione societaria, fondata su bilanci in pareggio, può tranquillamente coesistere con una confortevole agiatezza attraverso ragionevoli ingaggi dei calciatori e dei tecnici, Garonzi e Campedelli hanno atteso soltanto il momento giusto per dare esecuzione al loro disegno di riprendersi quella città che li ha voluti esiliare: “non c’è mondo fuor dalle mura di Verona”. Quando si presenta “l’occasione” di rilevare una squadra qualunque, nella fattispecie quella dilettantesca del quartiere agricolo-atesino del Chievo sponsorizzata fino ad allora da un parente non meno sparagnino di loro, i due soci non hanno in mente di conquistare maosticamente la città partendo dalla campagna, anche se quello del borgo che fagocita l’urbe è forse l’elemento più vissuto dall’immaginario collettivo formatosi attorno al Chievo. Al contrario, essi impiantano scientificamente a Veronello, nella magnifica oasi sulle rive del Garda progettata per essere residenza dei calciatori scaligeri, un autentico laboratorio nel quale tecnici e giocatori, ricchi innanzitutto di belle speranze e di accertato talento ma pur sempre posizionati nella divisione nazionale serie C2, vivono in una situazione logistica inimmaginabile anche per professionisti di serie A.
In un simile ambiente preparatori atletici e allenatori sperimentano con la paziente determinazione dei ricercatori e con la collaborazione solidale dei giocatori la loro formula calcistica, l’idea efficace che possa permettere di abbattere i Golia delle multinazionali del pallone. Questa la formula aurea di Veronello, il fuorigioco eseguito con precisione orologiaia ma lestissima che impedisce, o meglio che obbliga i Ronaldo e i Batistuta, per la verità un po’ appesantiti dal fardello dei propri ingaggi, a fare un gioco di cui credevano di aver bloccato le regole e che li sorprende con la varietà delle sue applicazioni. Se aggiungiamo la storica ovvietà calcistica per cui la palla è meglio passarla con precisione al compagno più vicino (a meno che non si sia una reincarnazione degli arcieri medievali come Corini che sa lanciare il pallone con parabole di quaranta metri) o quella per cui gli “esterni”, le ali di una volta anzichè cincischiare a metà campo sono obbligate a correre, anzi a volare – nomen omen – sulle fascie laterali, allora la formula scoperta a Veronello dallo stregone Del Neri torna finalmente a coincidere con l’uovo di Colombo. Partecipato, pacifico, fedele alla vita e alla storia del calcio: il gioco della nonviolenza.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Se io fossi Lilliput, farei silenzio, andrei piano, non mi agiterei
Dedicherei tempo all’educazione dei bambini, investendo nel millennio…

In questi ultimi mesi, in cui abbiamo vissuto una straordinaria accelerazione di eventi e di processi, si è sviluppato un ampio dibattito nell’area dei gruppi,dei movimenti, delle reti e delle aggregazioni per le quali “un mondo diverso è possibile”, su quali siano gli interventi da proporre , quali le modalità da seguire, quale tipo di formazione sia necessaria per contrastare la deriva violenta nella quale ci troviamo e di cui la guerra è solo l’espressione più emblematica ed evidente. Come contributo a questo dibattito, che rende drammaticamente evidente la necessità di lavorare nella formazione alla nonviolenza in modo sempre più capillare, esplicito e rigoroso anche a livello di movimenti di base, proponiamo queste riflessioni di Enrico Euli, fatte in occasione di un appuntamento della Rete Lilliput, invitando i lettori a inviarci, a loro volta, esperienze e riflessioni .

Se io fossi Lilliput

“La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perchè è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualunque vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità…
Così è profondamente comprensibile il disincanto di un’epoca la quale, mai capace di vivere qualcosa e di rappresentarlo, non è scossa neppure dal proprio crollo, ha idea dell’espiazione tanto poco quanto dell’atto, e tuttavia ha abbastanza spirito di autoconservazione da tapparsi le orecchie davanti al fonografo delle proprie melodie eroiche, e abbastanza spirito di
sacrificio da tornare all’occasione ad intonarle… ‘Fate che al mondo che ancora ignora io dica tutto ciò come accadde: e così udrete azioni sanguinose ed innaturali, e casuali giudizi e un cieco uccidere: morti da forza e astuzia provocate e piani che, falliti, poi ricaddero su chi li escogitò: io tutto questo in verità posso narrarè (Shakespeare, Amleto, atto V, scena 2.a)”.
Mi scuso per la lunghezza e la densità infinita di questa citazione.
È tratta dalla premessa de Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, ed è del 1915, scritta quindi poco dopo l’inizio della prima carneficina mondiale.
Come allora, per quanto ci si tappi le orecchie, un mondo sta finendo, decade.
Come colpita da una sindrome autoimmune, la potenza si rivolta contro se stessa: i jumbo si trasformano in missili, i batteri si nascondono negli angoli delle buste e dei palazzi, un messaggio del nemico dal Qatar vale più di dieci dichiarazioni di Bush alla nazione…
Il Mito è stato colpito a morte, la Narrazione è giunta al suo tramonto.
Il Progetto mostra infine la sua vulnerabilità: i suoi programmatori, dietro la faccia imperturbabile, iniziano a viverlo con angoscia e malcelata insofferenza.
Temiamo i loro colpi di coda, evidentemente pestiferi quanto disperati. Sono i migliori, quando si tratta di distruggere. Ma, se lasceranno superstiti, se resisteremo ai loro assalti, allora, davvero, un altro mondo è possibile. Non dobbiamo aspettare, ma possiamo attendere.
Questa è la prima cosa che mi direi, se fossi Lilliput…
Non inseguirei i tempi del mondo, non mi farei prendere dall’urgenza. Farei come se avessimo tempo, me lo darei, investirei nel millennio, confidando (e non è poco) che ci sarò.
Sì, è vero, ora c’è la guerra. E si riuniscono, comunque, a Doha.
Collaboriamo allora, più e meglio che possiamo, con chi si muove già secondo modalità lillipuziane: Peacelink e la sua ‘chiamata alla pacè, i gruppi di azione nonviolenta (GAN) e le azioni nonviolente, Emergency con il loro vero sostegno umanitario, e quant’altri – a partire dalle associazioni e dalle campagne del Tavolo Intercampagne – già agiscono con un certo stile
(il sostegno alle donne profughe dell’AIFO, le campagne di boicottaggio delle Botteghe, i banchetti informativi sul WTO…).
Ma, nel frattempo, cerchiamo di creare un po’ di silenzio, in mezzo a tante chiacchiere. E mi chiederei cosa posso fare per andare oltre la cultura della violenza, del dominio, della sopraffazione. Dedicherei attenzione all’educazione dei bambini e alla formazione dei giovani e degli adulti.
Perchè tante persone non stanno “dall’altra parte”, ma non sanno cosa e come fare, non vedono alternative per smarcarsi, per distinguersi, per immaginare, per lottare.
Cercherei di essere presente sui mezzi di informazione, in primo luogo su quelli locali, per dire cose che nessuno dice, cose intelligenti e profonde.
Farei partire subito, senza aspettare l’assemblea, il gruppo di lavoro tematico sulle “strategie di resistenza e trasformazione nonviolenta”.
Mi prenderei cura delle manifestazioni pubbliche, non mi agiterei a farne tante, baderei a farle in modo tale che esprimano bellezza, piacere, dolore, saggezza. Che sappiano essere anche delle piccole opere d’arte che doniamo ad una società depressa e necrofila.
Esprimerei mitezza, non moderazione.
Proseguirei a dedicarmi con calma e disponibilità ad apprendere, ad ascoltare, a sperimentare, ad inventare, per darmi un’organizzazione veramente originale e veramente a rete.
Farei un incontro per riflettere insieme su questo…
Questo farei se fossi Lilliput, e se fossi sola al mondo.
So che non è così, ed è un bene.
So che sono andata a Genova insieme a tanti altri e altre, so che in tutti questi mesi ho provato a stare nei Social Forum, pur a costo di provare mal di pancia e una frequente tentazione di fuggire.
Sono anche stata alla Perugia-Assisi, nonostante tutti i tipacci che la frequentavano al mio fianco.
Vorrei andare a Porto Alegre, magari con un po’ più di consapevolezza e di coordinazione rispetto alla prima volta (e non mi pare che stia accadendo, per ora).
Insomma, in questo movimento ci sono stata e ci voglio ancora stare, certo.
Ma non a tutti i costi e non in qualunque modo.
Vorrei imparare (e far imparare) che si può distinguersi senza dividersi, rimarcare una differenza senza sentirsi superiori, collaborare su qualcosa senza integrarsi su tutto, fare delle domande senza pretendere delle risposte che, al momento, non possono arrivare. Ma non significa che si debba smettere di farle, a noi e agli altri. E a farlo sapere in giro, a tutti, che ce le stiamo facendo e le vogliamo continuare a fare. E che queste domande, almeno per noi, sono vere, sono importanti e richiedono rispetto.
Sui metodi, sugli stili, sui tempi, sui fini dell’agire e dell’agire politico. Solo così saremo davvero utili, forse, a questa politica e a questa nostra società. Ed anche, come speriamo, agli stessi Social Forum.
Continuiamo a farci domande nuove, e le risposte (nuove) arriveranno.
Se non ora, quando?

Enrico Euli

Messaggio di Alex Zanotelli alla Rete di Lilliput
(Marina di Massa, 18 gennaio 2002)

A voi tutti lillipuziani riuniti a Marina di Massa per il secondo convegno nazionale, Jambo!!
È incredibile nel giro di due anni quanto questa ragnatela si sia estesa. Grazie per questo silenzioso lavorio di connettervi che ha una forza di trasformazione sociale incredibile.
Penso che ora Lilliput deve affrontare due nodi fondamentali:
Il primo nodo è la scelta nonviolenta. Se qualcuno o gruppi non accettano questa discriminante se ne possono andare in pace… altrimenti chiederò io di uscire da Lilliput. Mi sembra talmente chiara questa scelta soprattutto dopo i fatti di Genova. Davanti all’opinione pubblica italiana deve apparire chiaro dove Lilliput sta.
Secondo nodo. La guerra contro il terrorismo, in particolare quella in Afghanistan. Per me è chiaro che partendo da quanto è accaduto l’11 settembre, l’apparato militare americano ha deciso di rilanciarsi rilanciando così l’economia americana che era sull’orlo della depressione. E così appare chiaro a tutti che il militare non è qualcosa di accidentale al sistema economico ma ne è il cuore. So da fonti sicure del Senato americano che il bilancio militare USA passa ora da circa 350 miliardi di dollari a 500 miliardi di dollari. Se a questo aggiungiamo i 250 miliardi di dollari in armi dell’Europa, arriviamo a 750 miliardi di dollari che costituiscano i 3/4 e più delle spese mondiali militari che si sono aggirate in questi anni sui 900 miliardi di dollari. È la più chiara dimostrazione che chi detiene le armi sono i ricchi di questo mondo e le usano a mantenere un sistema economico che permette al 20% della popolazione mondiale di papparsi l’83 per cento delle risorse mondiali.
QUESTA GUERRA contro il terrorismo è solo la manifestazione della non volontà degli straricchi di rimettere in discussione il loro stile di vita. Se pensiamo che con 13 miliardi di dollari potremmo risolvere il problema della fame e sanità nel mondo per un anno (dati Banca Mondiale), potremmo trasformare questo mondo in un paradiso terrestre, e invece lo rendiamo un inferno.
Per questo sono inorridito a sentire che il Parlamento Italiano ha dichiarato guerra (“quello sporco voto”). Chiedo a voi di reagire in assemblea soprattutto con il governo Berlusconi che ora si è accaparrato anche il Ministero degli Esteri per fare gli affari dell’Azienda Stato. Trovate strade per dire il vostro dissenso nonviolento al governo italiano. Vi ricordo tutti con nostalgia da queste catacombe umane dove cammino con i poveri della storia che pagano così pesantemente le follie di questo nostro sistema.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Ritrovare se stessi nell’Argentina martoriata

TITOLO: HIJOS-FIGLI
98’ , Medusa
Regia: Marco Bechis
Con: Carlos Echevarria (Javier Ramos), Giulia Sarano (Rosa Ruggieri)

Un aereo carico di pianto e silenzio sorvola l’oceano senza un’apparente destinazione…
E’ un aereo dell’aeronautica militare argentina: uno di quelli che, tra il 1976 e il 1982 nell’indifferenza quasi totale delle potenze mondiali, scaricavano in mare i corpi martoriati dei desaparecidos.
Con questa immagine simbolo terminava, ieri, Garage Olimpo ed inizia, oggi, Hijos-Figli, il film presentato dal regista italo-cileno Marco Bechis all’ultima Biennale del Cinema di Venezia. Immagine che rappresenta un ideale trait d’union tra due pellicole prodotte ad un paio d’anni di distanza l’una dall’altra, ma che nel progetto iniziale di Bechis avrebbero dovuto essere realizzate in serie, senza soluzione di continuità e utilizzando gli stessi attori: problemi di tipo produttivo e la mancanza di una sceneggiatura unitaria hanno, in seguito, vanificato l’interessante progetto iniziale.
Garage Olimpo chiudeva, con l’immagine disperata dell’aereo, il racconto degli orrori sotterranei perpetrati dalla dittatura militare ai danni di centinaia di migliaia di giovani che credevano nella democrazia e si rifiutavano di accettare l’ideologia fascista della dittatura militare dei Generali. Un’immagine per non dimenticare il passato, per dare una forma visiva a quei barbari ed atroci atti di violenza che non hanno ancora finito, oggi, di portarsi dietro il proprio fardello di lacrime e sofferenza.
Ed è appunto all’”oggi” e a tale fardello che ci riporta Hijos; su di un altro aereo, all’interno del quale quattro giovani paracadutisti provano le figure che andranno ad eseguire subito dopo in caduta libera. Il volo che farà Javier, uno di questi ragazzi, non avrà, però, le conseguenze definitive e drammatiche di quello fatto compiere alle ignare vittime della desapariçion; ma è ad esso straordinariamente legato.
Javier vive a Milano con la madre italiana e il padre argentino ed è da qualche tempo in contatto via e-mail con Rosa, una coetanea di Buenos Aires convinta di essere sua sorella naturale. Conduce un’esistenza agiata e apparentemente piatta e monotona in una confortevole villetta adagiata ai piedi della collinare Brianza.
Javier vive a Milano con la madre italiana e il padre argentino ma… non è loro figlio. E’ figlio di una di quelle tante storie e di quei tanti volti buttati a mare dalla corrente della lucida e spietata follia dittatoriale. Strappato dalle braccia di una madre e di un padre che non avrebbe mai più rivisto.
«Si stima che in Argentina alla fine degli anni ’70, i bambini scomparsi dopo la nascita siano circa cinquecento, i casi denunciati sono solo duecentocinquanta.
Settantadue sono stati ritrovati vivi, otto di loro sono stati ritrovati morti nei cimiteri clandestini.
Tutti i settantadue ragazzi ritrovati (oggi hanno tra i venti e i venticinque anni) sono tornati a vivere con la loro vera famiglia (zii, nonni) e solo quattro hanno preferito rimanere con la famiglia che li aveva rubati».1
Rosa arriva improvvisamente a Milano, riesce ad incontrare Javier e gli racconta la verità.
E da qui i due ragazzi iniziano il loro lento e difficile itinerario di ricerca di un’identità, perduta nel caso di Javier (che non è più figlio di quelli che ha sempre creduto come i propri genitori), riacquistata nel caso di Rosa (che – forse – ha ritrovato una parte della sua storia personale). Itinerario che è di tipo soprattutto psicologico, scandito da una serie di tappe anche dolorose: l’iniziale rifiuto da parte di Javier di prendere in considerazione la “verità” di Rosa; il viaggio di Rosa e Javier (per lui una fuga dai “falsi” genitori) a Barcellona dove vive l’ostetrica che – forse – li separò all’atto della nascita e dove si sottopongono al test del DNA nucleare, verifica decisiva del supposto grado di parentela; l’emozionante sequenza della scoperta fisica dei reciproci corpi sul letto della pensione, atto fondamentale nel percorso di conoscenza di una storia e di un’identità in comune (anche se il test del DNA rivelerà che non esistono legami di sangue tra i due); e, infine, la sequenza che li ritrae per le strade di Buenos Aires mentre manifestano insieme ai molti altri hijos di Argentina contro l’impunità dei militari responsabili della desapariçion2.
Hijos è uno di quei film (come lo splendido I cento passi di Giordana) che lo spettatore non analizza sulla base dei più o meno compiuti esiti stilistici, ma giudica per la sua assoluta necessarietà: come testimonianza imprescindibile sulla strada, lastricata di ostacoli e difficoltà, che conduce alla verità e alla giustizia: «Il pensiero conformista di destra dice: “Non bisogna cercarli, vanno lasciati in pace, non dobbiamo turbare la loro tranquillità familiare”. Io credo invece che anche dopo vent’anni bisogna cercare la verità e smascherare i responsabili del sequestro di bambini, che spesso sono anche i responsabili della scomparsa dei veri genitori. Ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è»3.

Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Mille papaveri rossi
La pace nella canzone italiana

Enrico de Angelis è giornalista de “L’Arena” di Verona e membro storico del Club Tenco che, dal 1974 ad oggi organizza a Sanremo la più importante rassegna italiana di canzone d’autore. Nel 1984, quando a suo avviso la pace si presentava come “l’unico tema civile e politico capace di aggregare tensioni giovanili di massa” presentò a Sanremo, al “Tenco 84”, un ascolto guidato su questo tema col titolo “Mille papaveri rossi” (titolo poi ripreso da altri per altre iniziative, palese riferimento al capolavoro di De André “La guerra di Piero”, canzone tanto famosa che de Angelis ritenne di non includerla nemmeno nell’ascolto) e poi, leggermente ridotto, come programma radiofonico per Radio Adige di Verona. Selezionato per il concorso giornalistico“I giovani e la pace”, il testo del programma fu poi incluso in un volume omonimo(Federico Motta Editore, Milano 1985). Per l’interesse e la sintonia con la nostra rubrica ne riproduciamo la quasi totalità con il consenso dell’autore.

di Enrico de Angelis

La tendenza spontanea del tema “pace” ad essere abbracciato ecumenicamente da tutti, porta il rischio di cadere nel genericismo, nella retorica, nell’idillismo acritico: un pacifismo di maniera, astratto, forse anche inutile (se non a “fare opinione”, a far maturare comunque un movimento di coscienza che poi, crescendo, va precisato).
Affrontando questo lavoro mi sono accorto che nel mio archivio avevo una lunghissima scheda sulle canzoni in tema di guerra, ma non avevo nemmeno la scheda sulla “pace”. Il fatto non è casuale: mentre esiste ed è fiorente una “canzone contro la guerra”, non esiste o quasi una “canzone della pace”. La pace, in genere, vien fuori indirettamente come contrario o assenza di qualcos’altro e non solo della guerra: anche della violenza e dell’odio più in generale, del potere arrogante, del totalitarismo, del colonialismo, della repressione civile, del terrorismo cieco, della mafia. La pace è superamento della miseria, della fame, dell’emigrazione, della disoccupazione, del consumismo, dell’inquinamento, di ogni forma di sopraffazione e speculazione da una parte o di emarginazione dall’altra.
Poiché il tema diventava troppo vasto, ho fatto una scelta di campo e mi sono limitato all’antinomia più classica e frequentata: la pace contrapposta alla guerra, alla violenza militarista. Ciononostante e pur esaminando la sola canzone italiana d’autore, mi sono trovato davanti a centinaia di brani, da molti dei quali, fra l’altro, poteva essere ricavato un interessante rovesciamento di valori, in base al quale “la guerra”, la lotta, si intendono in un’accezione “positiva” di ribellione-conflittualità-attivismo-determinazione, mentre allo stato di “pace” si assegna una valenza di quiete passiva e rinunciataria, di immobilismo…
Ho tentato in queste canzoni di cercare di cogliere, al contrario, un senso della pace che fosse attivo, rivendicativo, positivo.
Non farò quindi una “storia” della canzone pacifista in Italia, ma una scelta parziale e unilaterale di alcune cose che ancor oggi mi sembrano poter spiccare per originalità e bellezza.
Incamminiamoci dunque verso questa utopia, questa “isola che non c’è” – come dice Edoardo Bennato – che tuttavia va perseguita lo stesso: “son d’accordo con voi/ non esiste una terra/ dove non ci son santi né eroi/ e se non ci son ladri/ se non c’è mai la guerra/ forse è proprio l’isola che non c’è…”
Quando un conflitto finisce e si firma il trattato di pace, la ragione umana sembra non poter più tollerare nemmeno l’idea della guerra e la rifiuta dichiaratamente. Una canzone “storica”, una specie di bandiera-manifesto del gruppo torinese Cantacronache, del 1958, ci racconta di un avvoltoio che si nutre di morte ed è respinto da tutte le parti in causa, finalmente; ma rimane un manipolo di guerrafondai e proprio contro di loro l’avvoltoio si accanirà. Il testo fu scritto da uno dei personaggi più di spicco che aderirono a quel movimento, pur provenendo da un ambiente intellettuale extramusicale: Italo Calvino. La musica è di Sergio Liberovici e la canzone fu incisa da Franca Di Rienzo prima e Piero Buttarelli poi: “L’avvoltoio andò alla madre/ e la madre disse: No/ Avvoltoio vola via avvoltoio vola via/ i miei figli li do solo/ a una bella fidanzata/ che li porti nel suo letto/ non li mando più a ammazzar”.
Sempre sulla scia dei Cantacronache, nel ’61 Margot Galante Garrone incide un disco di canzoni per bambini su testi di Gianni Rodari, fra cui questa, musicata da Fausto Amodei, un messaggio volutamente ma provocatoriamente ingenuo:“O giornalista inviato speciale/ quali notizie porti al giornale?/ Sai che porto? Una sola notizia!/ Sarò licenziato per pigrizia/ Però il fatto è sensazionale/ merita un titolo cubitale:/ tutti i popoli della terra/ han dichiarato guerra alla guerra”.
Ed ecco invece un esempio di negazione spontanea della cultura “militarista”. E’ una canzone del 1912: in pieno clima di sacralità militaresca determinato dalla guerra di Libia e dalle prime avvisaglie della Grande Guerra, clima che l’autore, Armando Gill, uno dei primi “cantautori” italiani, riesce a smitizzare. Il rifiuto del militarismo vien fuori qui dall’uso e dal gioco divertente del linguaggio. Si tratta di un naturale rifiuto mentale da parte di questo soldato attento solo alla Beatrice che vede dirimpetto mentre fa la sentinella: una ignoranza ingenua delle cose di guerra come cose assolutamente estranee, una specie di pacifismo naif. La troviamo per esempio nel repertorio del bravissimo Roberto Murolo. “Dirimpetto al mio quartiere/ ci sta una bruna/ grassa e tonda ch’è un piacere/ pare la luna/ E’ allorquando monto al giorno di sentinella/ per far segni con la mia bella/ che consegna mi sto a piglià/ Passa il tenente il maggiore il capitano/ ma io col fucile in mano/ non me ne accorgo no/ E tante volte per far segni e non sbagliarmi/ resto in presentat’armi/ e non mi muovo più”.
Da questa “indifferenza naturale” ad un preciso rovesciamento provocatorio di valori. Ed è ancora un testo per bambini di Gianni Rodari, stavolta musicato e cantato da Virgilio Savona: “Re Federico”, il quale abbandona la guerra e va in pensione per rinuncia da parte dell’avversario e quindi per mancanza di nemici. Quelli in cui si è imbattuto, infatti, sembrano essere impegnati più a fare la pace che la guerra. Una lezione politica di disarmo unilaterale e neutralità, meno infantile di quel che potrebbe sembrare: “C’era un re di nome Federico/ che andò in guerra e cercava il nemico/ Ma il nemico era andato a comprare il gelato/ infischiandosene del re Federico/ Re Federico per la disperazione/ buttò la corona e andò in pensione”.
Quando invece la guerra è in corso, la situazione diventa così invivibile che proprio allora, paradossalmente, la “speranza” della pace diventa più concreta, diventa “attesa”: la cessazione delle ostilità, la deposizione delle armi appaiono come una prospettiva più o meno lontana ma grazie al cielo necessaria. All’inizio della prima guerra mondiale, il poeta romanesco Trilussa scrive una dolorosa ninnananna in cui la madre cerca amaramente di tranquillizzare il suo piccolo che prima o poi la pace tornerà. Ma è noto come da sempre le ninnananne servano alle madri non tanto per parlare col figliolo ma per esprimere proprie tensioni o frustrazioni “adulte” che altrimenti devono tacere. E, anche qui, la ninnananna serve in realtà per smascherare gli interessi economici e di potere che stanno dietro alla guerra; e poiché si tratta di un fatto tra i potenti, non c’è purtroppo da sperare da loro nulla di buono nemmeno a guerra finita. Questa poesia fu poi adattata su una musica tradizionale e divenne subito molto popolare. “Ninna nanna, pija sonno/ che se dormi nun vedrai/ tante infamie e tanti guai/ che succedono ner monno/ tra le spade e li fucili/ de li popoli civili”.
Se la “Ninna nanna della guerra” di Trilussa era un’attesa sfiduciata della pace, un’attesa invece vitale, disperatamente intensa, è – in una stupenda canzone di Francesco De Gregori – quella che prende all’indomani del bombardamento di San Lorenzo a Roma, di fronte alla desolazione della strage e delle macerie. E’, in quel momento, il bisogno insopprimibile di dire (magari in modo sommesso, quasi straniato) la propria fede nella pace, come sbocco necessario, come ritorno alla possibilità di rigenerare la vita…”E un giorno credi questa guerra finirà/ Ritornerà la pace ed il burro abbonderà/ e andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà/ Oggi pietà l’è morta/ ma un bel giorno rinascerà/ e poi qualcuno farà qualcosa/ magari si sposerà”. Anche in un’altra bella canzone di De Gregori, “Generale”, c’è questo stesso senso della pace come ritorno al silenzio, alla natura, alle piccole cose, alla normale quotidianità. In fondo non dobbiamo dimenticarci che prima d’ogni altra cosa il valore della pace, di fatto, sta proprio qui, in queste possibilità piccole ma essenziali di libertà. E diamo dunque per scontato che qualunque pace, per quanto di cattiva qualità, sia comunque migliore dello stato di guerra.

(1. continua)

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Quali sponsor per le Olimpiadi di Torino 2006 ?

Le Olimpiadi invernali che il Piemonte si appresta ad ospitare nel 2006 sono destinate a tenere banco per i prossimi cinque anni. Troppe le ripercussioni, i risvolti, i fiumi di denaro coinvolti per non attrarre le attenzioni di molti.
La società civile si è mossa per tempo, istituendo un osservatorio che monitorerà l’impatto ambientale delle strutture e degli impianti che in questi anni spunteranno come funghi, dalla Val di Susa a Torino, dal Canavese alle Valli di Lanzo, dal Pinerolese all’asse Torino-Milano. E in questi giorni ha approfondito un ulteriore aspetto destinato a coinvolgere quelle associazioni che per missione si occupano dei diritti civili e dell’eticità nel mondo perverso dell’economia: quello degli sponsor e dei fornitori della grandiosa macchina organizzativa.
La torta è ghiotta: il comitato olimpico organizzatore (Toroc) conta di ricavare circa 500 milioni di euro dalle cosiddette attività di marketing, vale a dire sponsorizzazioni e vendita di gadget e merchandising. E stimolato nel settembre scorso da alcuni rappresentanti del mondo dell’impegno civile, si è interrogato sull’opportunità di selezionare in qualche modo la presenza di alcuni sponsor che risulterebbero scomodi in una kermesse dedicata alla competizione leale, ai valori Decoubertiani, ai sani principi sportivi.
A causa delle bufere che lo hanno coinvolto, il Comitato Olimpico Internazionale in questi anni si è dotato di un codice etico al quale devono attenersi coloro che partecipano in qualità di atleti od organizzatori. Il codice, è ritagliato in base a quanto accaduto tristemente in questi anni, e prevede sanzioni per chi accetta imbarazzanti regali dai partecipanti oppure per chi utilizza sostanze dopanti: nulla è però richiesto alle aziende sponsorizzatrici in tema di diritti umani, sociali e ambientali. Il rispetto del codice è inoltre demandato ad un comitato di sette saggi tra cui spicca il nome di Javier Perez de Cuellar, ma nessuno di essi è italiano.
Per completare la panoramica della situazione attuale, occorre ricordare che esistono due tipi di sponsor olimpici: i cosiddetti “Top 10”, che stipulano contratti pluriennali e che quindi si aggiudicano la visibilità per più manifestazioni sportive, sia estive che invernali; e quelli relativi alla singola olimpiade. I primi sono scelti dal CIO ed il loro contratto scadrà nel 2004 (anche se alcuni di essi stanno contrattando il prolungamento del contratto in questi giorni), mentre i secondi sono appannaggio del comitato locale. Sempre tra i primi troviamo un paio di presenze, come Coca Cola e McDonald’s, che faranno storcere il naso ai più intransigenti promotori dell’eticità, ma nessuno di essi è accusato da organismi nazionali o internazionali riguardo il loro comportamento, come invece accade per esempio a Nike, Nestlé o, fino all’anno scorso, Del Monte.
Il Toroc, stimolato anche da un dibattito pubblico organizzato dal gruppo consiliare della Margherita il 6 dicembre scorso, ha deciso di creare un Comitato dei Valori che dia una ulteriore occhiata all’eticità degli sponsor, tramite procedure e integrazioni al codice etico che verranno messe a punto nei prossimi mesi. Il Comitato sarà presieduto dal presidente di Toroc e ne faranno parte anche il vicepresidente, i rappresentanti di Amnesty International, Unicef, CGIL/CISL/UIL, Confindustria e Confcommercio. L’appello ad una maggiore vigilanza è stato raccolto anche dal Presidente della Commissione Giochi Olimpici del Comune di Torino, il quale non ha fatto mistero delle difficoltà giuridiche, per un ente pubblico come Toroc, di selezionare nelle gare d’appalto secondo criteri “etici”, ma dando l’impressione di essere determinato a superarle tramite il contributo di esperti legali del settore.
Abbastanza soddisfatti, i comitati promotori dell’iniziativa (tra cui ricordiamo Punto Zip, Cocoricò e Rete Lilliput) si sono impegnati a far sì che, in un modo o nell’altro, non entrino a far parte degli sponsor quelle aziende attualmente oggetto di campagne di pressione e per questo hanno coinvolto alcuni autorevoli esperti nella costituzione di un comitato scientifico che si porrà come interlocutore ufficiale del Comitato dei Valori. Ne faranno parte Francuccio Gesualdi (Centro Nuovo Modello di Sviluppo), Ersilia Monti (Campagna Scarpe Giuste), Tonino Perna (CRIC), Lorenzo Vinci (MAG 4 Piemonte), Adriano Cattaneo (Campagna Nestlé), Miriam Giovanzana (Altreconomia) e diversi altri.
La speranza neanche tanto celata è che la campagna di sensibilizzazione verso l’eticità degli sponsor olimpici, creando un precedente storico nella capitale sabauda, sia propedeutica all’istituzione, da parte del Comune di Torino, di un codice di condotta da sottoporre a tutti i suoi fornitori (mense, uffici, circoscrizioni, ecc.). E già fin d’ora chiamano a raccolta le persone interessate ad essere coinvolte nel progetto, giacché l’avventura olimpica è appena cominciata, e i giochi non sono ancora conclusi.

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Una politica attiva di pace è possibile anche in Italia?

Da New York all’Afghanistan alla Palestina, il 2001 si è chiuso con l’apparente successo di una ”cultura della guerra” di fronte alla quale corriamo il rischio di sentirci impotenti. Proprio per questo, è importante chiedersi quali siano le caratteristiche di politica attiva di pace (cioè non solo di “emergenza” o di “testimonianza”).
Il primo elemento da cui partire è l’enorme domanda di pace presente nella nostra società. Questa si manifesta non solo nelle forme organizzate che conosciamo (dal movimento per un pianeta di tutti alla marcia Perugia-Assisi) ma anche in maniera spontanea e in forme estranee alla politica. Come spiegare altrimenti il successo travolgente della canzone pacifista ”Il mio nome è mai più” durante la guerra del Kosovo, o la petizione contro la guerra firmata da centinaia di calciatori agli inizi dei bombardamenti sull’Afghanistan? Una questione centrale che questi fenomeni pongono è come dare forma ed espressione a questo potenziale.
Il secondo elemento che occorre tenere presente è l’emergere della ”pace come professione”. Negli ultimi anni, in Italia così come in altri paesi, persone, gruppi e istituzioni attivi in questo settore hanno compiuto enormi passi avanti. Da un lato gli stati si sono accorti della necessità di impiegare personale civile in situazioni di conflitto per diversi tipi di compiti – dall’assistenza umanitaria, allo sviluppo della democrazia e dei diritti umani, all’assistenza delle organizzazioni locali della società civile. Dall’altro si sono moltiplicate esperienze di lavoro di pace ”di base”: basti pensare all’avvio di esperienze di servizio civile di pace (in particolare in Germania), o all’incorporazione della risoluzione dei conflitti nella cooperazione allo sviluppo. A livello europeo si è costituito da qualche tempo un ”Network dei servizi civili di pace”(si veda al sito: www.4u2.ch/EN.CPS/).
Nel nostro paese vanno sottolineati alcuni sviluppi di grande importanza: l’avvio, a partire dall’anno accademico 2001-2002, di corsi di laurea sulla pace; la riflessione e le prime esperienze pratiche dello strumento dei Caschi Bianchi (in pratica assimilabile a quello che all’estero viene chiamato ”servizio civile di pace”); il rafforzamento all’interno del movimento per un pianeta di tutti di una componente che della nonviolenza e della pace ha fatto valori portanti.
A fronte di queste novità abbiamo in Italia un sistema politico assai poco ricettivo. Del governo Berlusconi, purtroppo, non occorre parlare: quanto di più lontano oggi ci possa essere da una cultura della pace.
È interessante invece osservare l’atteggiamento del “centro-sinistra” nei confronti del mondo della pace e della nonviolenza. È esemplare l’episodio della “lettera aperta ai pacifisti”, scritta da alcuni esponenti dell’Ulivo nel settembre scorso in occasione della marcia Perugia-Assisi. Lasciamo da parte l’arroganza, nemmeno tanto velata, con cui i firmatari si rivolgevano ai pacifisti. Il loro messaggio sostanziale era contraddittorio: un invito a sostenere la coalizione dell’Ulivo e allo stesso tempo un avvertimento a non illudersi di poter contare qualcosa nelle decisioni sulla guerra e la pace. Questo nonsenso politico era possibile perché la pace veniva relegata tra le utopie: i “leader” del centro-sinistra, inchinandosi a parole di fronte all’atteggiamento nobile di una etica dei principi, potevano rifiutarne allo stesso tempo qualsiasi valore pratico.
Questa tensione tra la ”domanda di pace” nella società e la pochezza della politica ufficiale chiama in causa i movimenti e le organizzazioni che si impegnano per la pace, e fa sperare che, nel futuro, la cultura della nonviolenza si estenda sia nella società che all’interno delle istituzioni.
Nella società i nonviolenti possono contribuire a far crescere una “cultura diffusa” della pace e della soluzione costruttiva dei conflitti. Non dimentichiamo che la risposta principale alla attuale crisi della vita pubblica italiana può passare solo attraverso la diffusione di un’idea di cittadinanza attiva, di una partecipazione in prima persona alle decisioni pubbliche: un’idea squisitamente nonviolenta.
La nonviolenza potrà trovare spazio anche nelle istituzioni, formulando proposte concrete per una nuova politica di pace dell’Italia nel mondo: in altre parole, proponendo una “aggiunta nonviolenta” all’indispensabile integrazione europea, al contributo italiano nell’ONU e nell’OSCE, ai rapporti con il sudest Europa, alla cooperazione allo sviluppo…
In ciascuno di questi campi i nonviolenti sono chiamati a dare un contributo.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Quando i socialisti erano antimilitaristi e pacifisti

Molto deciso era il testo di un appello della Federazione giovanile socialista ai coscritti della leva di mare del 1901, apparso su “Avanguardia” del 17 ottobre 1920, che rifletteva le posizioni di quell’ala sinistra del P.S.I. che nel gennaio 1921 confluì nel Partito Comunista d’Italia. E’ interessante notare in esso l’uso di termini di chiara provenienza bolscevica e l’augurio che la rivoluzione potesse arrivare prima della fine della leva: “Anche in Italia i lavoratori, da un’occasione qualunque, saranno spinti all’azione violenta contro lo Stato borghese. Giovani del 1901, la gioventù comunista vi fa questo augurio: siate voi i primi marinai rossi della Repubblica dei consigli in Italia.”
Dopo la scissione di Livorno, il Partito Comunista d’Italia (P.C.d’I.) tentò di assumere la guida della Lega proletaria e di rilanciarne l’azione su vasta scala, facendola divenire l’espressione della propaganda antimilitarista del movimento operaio. Ma la Lega non diventò un organo di partito e nel suo interno vi fu sempre una presenza eterogenea; infatti, attorno ad un nucleo centrale socialista e comunista, venne coagulandosi “la numerosa e attiva massa di reduci di diversa origine politica e ideologica sulla base concreta del radicato antimilitarismo e del sentito pacifismo, in altre parole, del rifiuto della guerra” 1. Sotto i colpi del fascismo avanzante la Lega si sgretolò e quando nel 1925 il regime la dichiarò illegale essa era ormai un’organizzazione senza alcun peso politico.
Dopo il gennaio 1921, il Partito Socialista Italiano (P.S.I.), privato della sua ala sinistra, sviluppò la linea tradizionale di opposizione alla guerra, che riconosceva all’antimilitarismo un ruolo di rilievo, limitato però al campo della propaganda. Nel programma di Fiesole i giovani della Federazione Italiana Giovanile Socialista si erano proposti, tra l’altro, di “intensificare sempre più la propaganda antimilitarista, tendente a creare nella gioventù proletaria una forte coscienza di classe, per neutralizzare l’azione della borghesia che si serve dell’esercito come organo di sopraffazione antiproletaria”. Anche l’ordine del giorno sull’attività antimilitarista approvato dal Congresso giovanile socialista di Parma nel novembre 1921 sottolinea il valore della battaglia contro la guerra, pur lasciando nel vago le direttive di azione: “Il IX Congresso della gioventù socialista italiana (…) riconosce oggi più che mai la necessità di intensificare e di coordinare meglio il lavoro di propaganda nelle file dell’esercito e degli altri corpi armati tendente ad illuminare i giovani sul vero carattere di classe del militarismo borghese e a sfatare in esso la concezione pacifista secondo la quale il militarismo può essere eliminato o corretto nella sua forma più brutale senza mutare l’attuale istituzione della società 2. Il regolamento per i circoli giovanili socialisti elencava tra i doveri dei soci: “Combattere sempre e specialmente con l’esempio il clericalismo, il militarismo, il patriottismo, (…) insomma la società borghese che produce l’odio e la guerra ed è la principale responsabile delle miserie che affliggono la classe operaia 3.
I comunisti ebbero un atteggiamento più deciso, anche perché la quarta condizione per l’ammissione all’Internazionale comunista prescriveva: “E’ necessario svolgere tra le truppe una propaganda e un’agitazione sistematiche e tenaci e costituire cellule comuniste in tutte le unità militari”. Le istruzione del P.C.d’I. non incitavano alla lotta nelle caserme, ma raccomandavano ai militanti un comportamento difensivo 4. Infatti ai compagni sotto le armi si consigliava di non leggere in pubblico giornali comunisti, di non parlare della Russia in caserma, di diffidare di sedicenti renitenti di leva, di coloro che godevano con facilità di licenze e dei sedicenti sovversivi, di non tentare propaganda senza una conoscenza della persona alla quale ci si rivolgeva, di non frequentare locali giudicati sovversivi e di evitare di farsi spedire la posta in caserma 5. I comunisti pensavano che l’iniziativa rivoluzionaria spettasse al proletariato delle officine e dei campi, ai quali i soldati si sarebbero dovuti affiancare al momento opportuno, mantenendosi nel frattempo fedeli ma passivi 6. “Questi documenti sono importanti perché attestano la difficoltà sempre riscontrata dalle diverse correnti del movimento operaio italiano e internazionale nell’indicazione di concreti obiettivi della lotta contro l’esercito, malgrado la vastità e la sincerità dell’antimilitarismo delle masse. Non è certo un caso che in questo come nei precedenti periodi, parallelamente agli appelli e alle iniziative antimilitariste, non siano stati sviluppati gli studi della struttura dell’esercito, che ne avrebbero messo in luce l’importanza nello scontro di classe, permettendo forse anche di trovare una linea d’attacco più incisiva” 7.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati

Il 18, 19 e 20 gennaio 2002 si è tenuta a Marina di Massa la seconda assemblea nazionale della Rete di Lilliput. Pubblichiamo le “dichiarazioni finali” che riassumono molto bene il lavoro svolto. Sul sito www.retelilliput.org si può trovare tutta la documentazione inerente la tre giorni lillipuziana.

La dichiarazione finale della nostra prima assemblea si concludeva con le seguenti parole:

“Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano, distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita del Pianeta, e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi, oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere del nostro futuro, e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale”.

I nostri principi rappresentano l’unica strategia di azione per credere in un futuro diverso e per costruire un altro mondo.

La scelta della nonviolenza viene da noi oggi ribadita come unica e più efficace modalità di azione e di vita, che è necessario rafforzare e diffondere sempre più al nostro interno, attraverso un’adeguata formazione e la creazione di gruppi di azione nonviolenta.
La formazione sui temi che sono al centro della nostra azione è una componente fondamentale del nostro percorso e dovrà essere sempre più articolata e partecipata al fine di coinvolgere i gruppi, i nodi e tutti i Lillipuziani.
Accanto a questo impegno proseguirà l’opera di intensa sensibilizzazione dei cittadini allo scopo di indurre un cambiamento personale e collettivo verso i valori in cui crediamo.

Considerando che nel 2002 avranno luogo eventi da noi ritenuti fondamentali
il secondo incontro del movimento mondiale a Porto Alegre alla fine di gennaio, dove la Rete organizza uno specifico seminario sugli indicatori della qualità della vita;
la Conferenza delle Nazioni Unite su Finanza per lo Sviluppo a Monterrey Messico in marzo,
il summit sulla sicurezza alimentare promosso dalla FAO in giugno a Roma,
il Summit Mondiale delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile “Rio +10” a Johannesburg a fine agosto

La Rete concentrerà la sua attenzione ed azione su:
– l’opposizione alla guerra e la promozione di modelli di difesa alternativa nonviolenta, assumendo la Campagna di obiezione di coscienza delle cittadine e dei cittadini per il disarmo economico e militare,
la sfera finanziaria in enorme espansione, rafforzando in particolare le Campagne sulle banche e le assicurazioni, obbligandole ad una maggiore trasparenza e a interrompere finanziamenti moralmente illeciti quali il commercio di armi e di sostanze tossiche e coinvolgere i cittadini risparmiatori in scelte per una finanza di giustizia,
il settore produttivo, per monitorarne il comportamento delle imprese nazionali e multinazionali e indurle alla trasparenza e al rispetto degli standard sociali e ambientali, coinvolgendo i consumatori in particolare in occasione della Coppa del Mondo di calcio che vede coinvolte come sponsor molte delle imprese responsabili di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori e ambientali,
l’impatto del negoziato in corso nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, a partire dall’accordo sui commercio e servizi che consente di evidenziare il legame tra accordi internazionali e qualità della vita delle comunità locali,
l’organizzazione di una settimana dell’impronta ecologica e sociale che avrà luogo in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente (5 giugno) e un percorso di formazione e sensibilizzazione che si concretizzi in una serie di iniziative per diffondere il concetto dell’impronta ecologica e sociale,
l’apertura di un serio ed approfondito dibattito su nuovi indicatori di benessere in grado di dare strumenti adeguati ai decisori politici ed alla società’ civile, ricollocando il PIL nella sua funzione di indicatore meramente economico,
la diffusione di una carta del nuovo municipio e iniziative di democrazia partecipativa.

Consapevole inoltre di essere una componente fondamentale, ma non esclusiva della società civile organizzata mondiale, la Rete si impegna a collaborare con Campagne e azioni promosse da altri soggetti, tra le quali:
la Campagna per un contratto mondiale sull’acqua,
La Campagna per l’introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie (Tobin Tax)
L’azione per la costituzione di una forma di arbitrato internazionale sul debito e l’applicazione della legge italiana sulla cancellazione dei debiti dei paesi più poveri
Un’azione di denuncia del fallimento delle politiche neoliberiste, a partire dalla crisi dell’Argentina.

Con questa Assemblea si è concluso il lungo e intenso percorso che ha oggi portato la rete a dotarsi di un modello organizzativo sperimentale che verrà sottoposto a verifica in occasione del prossimo incontro nazionale.

LIBRI
A cura di Sergio Albesano
Il segno della nonviolenza nel conflitto dei Balcani

La forza lieve – tre storie di volontariato pacifista nei balcani
(di Mimmo Cortese e Roberto Cucchini – Ed. La Meridiana – 2001)

“Moreno diceva sempre che viviamo addormentati in un mondo assonnato ……
Sempre inquieto, ci teneva molto al “qui ed ora” …… diceva che pensare troppo al futuro non ti fa mettere a fuoco le persone ……Se era andato a Sarajevo era per continuare a fare quello che aveva sempre fatto: seguire, ascoltare, condividere i cammini di altre persone ……
Non l’avevo mai visto così sereno e ciò ha fatto sì che, in qualche modo, la sua morte sia stata meno violenta, lasciando a noi tutti il ricordo di una vita non incompiuta”
(Anna – 3 ottobre 2001 – in ricordo di Gabriele Moreno Locatelli, morto il 3 ottobre 1993 sul ponte Vrbanja di Sarajevo)

Tre storie. Piccoli/grandi momenti/percorsi di pace, nonviolenza e condivisione nel fosco scenario delle guerre balcaniche del passato decennio.
Raccontate attraverso le voci e le azioni di persone semplici, vere, fallibili, disposte però a mettersi in gioco e a non accettare passivamente l’ineluttabilità di violenza e guerra quali strumenti (incontrollabili) di risoluzione dei conflitti.

Il libro è frutto di un sofferto lavoro collettivo, durato oltre quattro anni, che si pone non solo come testimonianza, ma anche come forte contributo di riflessione – quanto mai attuale – sull’esigenza di una nuova cultura di pace – che sperimenti la nonviolenza e la diplomazia popolare, entrando in relazione con l’altro.
Per ricordarci come anche dentro il conflitto sia possibile costruire momenti di socialità, dialogare e richiamare le istituzioni internazionali alle proprie responsabilità, realizzare insieme -dal basso- cose apparentemente impossibili.
Ma anche come, realisticamente, chiudere un progetto, di fronte alle difficoltà, alle divisioni, alle contraddizioni tra fini e mezzi.

PRIMA STORIA – Pace come interposizione nonviolenta e diplomazia popolare
Nell’agosto 1993, di ritorno dalla controversa esperienza collettiva di Mir Sada, alcuni volontari incrociano casualmente un convoglio di 180 persone e 86 veicoli carichi di aiuti umanitari diretti in Bosnia Settentrionale, bloccati da ormai cinque mesi dalle autorità croate a Stobrec, a 7 Km da Spalato.
Sta per iniziare, non dichiarata, la guerra per il controllo degli aiuti umanitari.
La spianata di asfalto di fronte ai camion diventa un “punto di riferimento istintivo”.
Ci si accampa lì, per proteggere il carico e condividere le difficoltà degli autisti e delle loro famiglie. Si tenta di squarciare il silenzio dei media. Si intrecciano relazioni con l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati e la Croce Rossa internazionale. Si cozza contro i muri di gomma istituzionali croati e bosniaci.
L’esito degli sforzi di mediazione e pace sarà sorprendente ……

SECONDA STORIA – Pace come condivisione “permanente” e cooperazione decentrata
I camionisti di Stobrec provengono in gran numero da Gradacac, cittadina bosniaca sotto le granate dei miliziani cetnici, dove da tempo manca tutto.
Con i primi interventi umanitari si consolida il percorso di conoscenza e fiducia tra volontari e comunità locale.
Da qui la decisione forte, fortissima, di con-vivere, in tempo di guerra, le sorti dei compagni di strada di Gradacac, “vedere con i loro occhi”, ricordare loro quotidianamente che un altro mondo è solidale con loro e che non li ha dimenticati.
Quattro persone lì, per due anni, sotto i bombardamenti e tante altre qui, a raccogliere (cose ed idee) e coordinare progetti di cooperazione decentrata.
Motivazioni, domande e frammenti di un percorso che continua, con l’impegno personale di alcuni, ancora oggi.

TERZA STORIA – Pace come “improvvisazione emotiva”, confronto, lacerazione e “relazione”
Il flusso continuo ed inarrestabile dei profughi, impauriti e disperati, in fuga da situazioni di insostenibile violenza, smuove oltremodo le coscienze ed un folto gruppo di volontari si prodiga in due campi allestiti alle porte di Spalato.
Le voci dissonanti dei protagonisti mettono impietosamente a nudo le contraddizioni e l’approssimazione di un intervento inizialmente prigioniero della logica del fare, dei fatti concreti, dei pacchi da distribuire, nella illusoria convinzione di poter uscire dall’angusto rapporto donatore-cliente condividendo (a termine) i pasti e i letti del campo.
La lacerazione – rigeneratrice – nel gruppo porterà alla luce quanto sia difficile lavorare sull’aspetto politico di un intervento di pace – che, anche nell’emergenza umanitaria, tenti di costruire relazioni, avviando processi individuali e collettivi di ascolto e ricostruzione di fiducia e dignità.

Tante storie, allora. Con altri protagonisti silenziosi (amministrazioni comunali, scuole, insegnanti, alunni, comunità, famiglie, cittadini, ……).

Storie scritte anche per chi non crede che la pace conquistata con le armi (anche con un uso controllato e mirato delle stesse …) sia solo un intervallo prima di un’altra guerra.

Elena Romagnoli e Marco Valenti
Lavoro, salario, modernità: non facciamo i fondamentalisti!

Caro Direttore,
mi permetto di dissentire vigorosamente dal contenuto dell’articolo di Graziella e Giovanni Ricchiardi pubblicato a pag. 16 del numero di dicembre della rivista.
Qui di seguito riporterò in corsivo alcuni punti di tale articolo e di seguito le mie considerazioni.
Tutti dicono di lavorare ma: la speculazione, il commercio, la politica, l’esercito, ecc. ecc., non sono vero lavoro. Il commercio non è vero lavoro? Dunque una merciaia, un lattaio o un panetterie non svolgono un vero lavoro? Che cosa intendono i Ricchiardi per vero lavoro? Lo spiegano qui di seguito.
Possono esserlo invece i lavori manuali e quelli di servizio agli altri. Dunque solo i lavori manuali e quelli di servizio sono vero lavoro? A me pare che questa sia una visione elitaria del lavoro.
I salariati sono schiavi perché il frutto e la direzione del lavoro sono di altri ed essi non lavorano per amore del prossimo, né per amore del lavoro, ma per il salario. Non è vero! Io lavoro perché mi danno un salario, cosa che, oltre ad essere un giusto corrispettivo per il mio impegno, mi permette anche di campare, ma non lavoro solo per quello. Infatti cerco di metterci del mio nel lavoro, di svolgerlo con entusiasmo, di divertirmi, di essere solidale con i miei colleghi. La visione dei Ricchiardi è molto rigida, categorica, inflessibile. Ma a quale realtà si rifanno?
Tutti rifiutano di “lavorare col sudore della fronte” (il comandamento più antico)… Ricordo ai Ricchiardi che non si tratta di un comandamento, ma di una condanna, dopo l’allontanamento dal Paradiso terrestre.
(…) come la meccanizzazione e i suoi aspetti moderni ancora più pericolosi: l’elettronica e l’informatica (direbbero oggi Gandhi e Lanza Del Vasto) Per favore, non mettiamo in bocca ad altri, che oltretutto sono morti e quindi non si possono difendere, ciò che noi vorremmo che dicessero. Forse questi concetti potrebbero essere sostenuti da Lanza del Vasto, ma non credo da Gandhi. Cerchiamo di non essere assolutisti contro la modernità. Elettronica e informatica sono soltanto strumenti, proprio come un martello, che può servire per erigere un ponte o per sfondare il cranio di un avversario. Il mezzo che sto usando per scrivere queste righe ad esempio è un calcolatore e il mezzo che uso per inviarlo è la posta elettronica. In questo caso mi pare che elettronica e informatica siano uno strumento utile.
(…) di qui lo sfruttamento regolare dei poveri, dei deboli, dei vinti, le rivolte, le repressioni, la guerra. Stabilire un nesso diretto tra informatica e sfruttamento dei poveri è ridicolo.
(…) provoca crudeltà, bruttezza, costrizione e va eliminato. Così il lavoro salariato.
Siamo sicuri che il lavoro salariato provochi crudeltà, bruttezza e costrizione? Pensano forse i Ricchiardi che il lavoro salariato possa essere eliminato?
Cordiali saluti.

Sergio Albesano
Torino
Chi va in bici non inquina e non è inquinato

Caro Direttore,
tra tutti i politici, amministratori pubblici, opinionisti ed anche ambientalisti, intervenuti in quest’ultimo periodo per dire la loro sull’inquinamento dell’aria – presentando anche decaloghi e ricette – praticamente nessuno ha segnalato, tra i rimedi, la necessità di sviluppare l’uso della bicicletta.
E questo denota un serio gap culturale tutto italiano.
Anzi, in piena emergenza, qualcuno è arrivato a sostenere che i ciclisti, rispetto agli altri utenti della strada (pedoni, automobilisti, utenti del trasporto pubblico), sono più esposti agli effetti nocivi dell’inquinamento.
L’idea cui si fa ricorso per sostenere questa tesi strampalata è che i ciclisti, quando pedalano in città, sono soggetti alla iperventilazione (cioè hanno il fiatone e respirano più aria degli altri).
Si tratta di una vera favola metropolitana. Chi si muove in bici in città va a 12-15 chilometri all’ora, velocità che corrisponde a quella di 5 chilometri all’ora di quando si cammina a piedi. Il ciclista in città non viaggia certo a 30 e più chilometri all’ora che invece corrisponde al correre a piedi (10-15 e più all’ora).
Dunque il ciclista di città è inquinato come tutti gli altri, ma almeno ha la grande soddisfazione di non essere un inquinatore. Per la verità, c’è chi sostiene (Città per la bicicletta, città dell’avvenire, Commissione Europea. DG XI – Ambiente sicurezza nucleare e protezione civile, Edizione pubblicata dal Ministero dell’Ambiente, p. 35) che all’interno degli abitacoli delle auto l’inquinamento è anche maggiore. Una ragione in più per sviluppare l’uso della bicicletta (o andare a piedi o usare i mezzi pubblici) e quindi contribuire a non inquinare sé e gli altri.

Luigi Riccardi
presidente FIAB

Di Fabio