• 28 Marzo 2024 21:17

La dichiarazione ONU sul diritto alla pace

DiMartina Lucia Lanza

Gen 19, 2017

Lo scorso 19 dicembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha definitivamente approvato la dichiarazione sul diritto a godere della pace (Risoluzione A/C.3/71/L.29).

L’approvazione è avvenuta per votazione, ovvero non è stato possibile procedere per consensus o senza voto, per mancato accordo tra tutti gli stati membri.

La votazione in plenaria ha quindi visto 131 favorevoli, 34 contrari e 19 astenuti. Fra questi ultimi figura anche l’Italia.

Si tratta di un documento di soft law, ovvero di obbligatorietà leggera in senso giuridico, in cui si stabilisce all’articolo 1 che tutti gli esseri umani hanno il diritto di godere della pace.

Come sottolineato da più parti, sia organizzazioni della società civile sia in modo pretestuoso da delegazioni di stati per giustificare un voto contro, la dichiarazione non fornisce esplicitamente una definizione di pace e degli elementi che vanno a comporre il relativo diritto.

Tuttavia, il lungo preambolo richiama tutti i riferimenti normativi – tra cui la dichiarazione del diritto dei popoli alla pace (Risoluzione dell’Assemblea Generale 39/11, annex 1984 ) – e si riconosce che la pace non è solo assenza di conflitto, ma richiede anche un processo partecipatorio positivo e dinamico, in cui il dialogo è incoraggiato ed i conflitti vengono risolti in spirito di reciproca comprensione e cooperazione (A/C.3/71/L.29, Preambolo).

Nonostante si tratti quindi di soft law, il percorso che ha portato a questa dichiarazione non si può dire che sia stato nè breve nè lineare.

La prima bozza di dichiarazione è stata elaborata dall’Advisory Committee nel 2012 ( Report of the HRC Advisory Committee A/HRC/20/31 Annex ). Tale Comitato è composto da 18 esperti in materia di diritti umani e ha quindi la funzione di fornire la propria expertise al Consiglio Diritti Umani.

A malincuore, occorre ricordare che in tale prima versione un intero articolo era dedicato al diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare.

Infatti, secondo l’articolo 5, ogni individuo gode di tale diritto e dove essere protetto nel suo esercizio effettivo. Nel secondo paragrafo dell’articolo, si afferma inoltre l’obbligo degli Stati di prevenire che i membri delle forze armate prendano parte a guerre di aggressione o a qualsiasi altra operazione armata che violi il diritto internazionale dei diritti umani ed umanitario. L’ultima parte dell’articolo sembra poi riprendere le parole di Don Milani, affermando che i membri delle forze armate non sono tenuti ad obbedire ad ordini manifestatamente contrari alle summenzionate norme internazionali, concludendo quindi che la disobbedienza a tali ordini non può costituire offesa militare.

Anche il disarmo trovava spazio in questa versione. Infatti, l’articolo 3 – tra le altre cose – chiedeva agli Stati di considerare la riduzione delle spese militari ad un livello minimo necessario a garantire la sicurezza umana. Sulle risorse liberate, tutti i popoli e le persone avrebbero avuto diritto affinchè venissero utilizzate per lo sviluppo economico, sociale e culturale, nonché per una distribuzione equa delle risorse naturali, rispondendo in particolare ai bisogni dei paesi più poveri e dei gruppi in situazione di vulnerabilità.

Questo testo è stato poi usato come base dal Gruppo di lavoro intergovernativo sul diritto alla pace (Open-ended Intergovernamental Working Group) voluto dal Consiglio Diritti Umani ed istituito sempre nel 2012.

Già nel corso della prima sessione del Gruppo di lavoro, il testo verrà stravolto e slavato dagli Stati, in quanto contenente una serie di diritti o di elementi del diritto alla pace – come appunto l’obiezione di coscienza al servizio militare – non riconosciuti o appoggiati.

Il gruppo di lavoro ha visto succedersi 3 sessioni (una per anno), senza che le delegazioni governative siano riuscite a trovare un accordo. I nodi principali sono stati non solo la definizione di diritto alla pace, ma anche la possibilità stessa di considerare che esista un diritto alla pace, e non che quest’ultima rimanga solo un pilastro delle Nazioni Unite ed un principio dell’ordinamento internazionale (posizione di Stati Uniti e Unione Europea).

Infine, la quarta sessione del Gruppo di lavoro, calendarizzata per giugno 2016, è saltata, in quanto la delegazione cubana ha presentato al Consiglio Diritti Umani un nuovo testo per la dichiarazione. Quest’ultimo è quasi identico a quello prodotto fino a quel momento dal Gruppo di lavoro, salvo per alcuni punti:

– Nell’articolo 1 si passa dal “diritto alla pace” al “diritto a godere della pace”. Tale nuova definizione sembrerebbe lasciare nelle mani degli stati le questioni legate alla pace, mentre agli individui rimarrebbe il diritto di godere di quello che gli stati si impegnano a fare.

–  Sempre nell’articolo 1 scompare il collegamento tra pace e sicurezza, trovando invece spazio un più stretto legame tra pace e diritti umani (PRIMA: Everyone has the right to enjoy peace such that security is maintained DOPO: Everyone has the right to enjoy peace such that all human rights are promoted and protected).

Il testo proposto da Cuba verrà in seguito approvato dal Consiglio Diritti Umani nel corso della 32sima sessione (giugno 2016), e passerà poi al voto in Assemblea Generale per l’approvazione definitiva (71esima sessione Settembre-Dicembre 2016).

In questo lungo e travagliato percorso, anche la società civile ha preso attivamente parte ai lavori. Non si tratta di un fronte coeso, infatti si possono riconoscere sia favorevoli che contrari all’approccio consensuale scelto dal gruppo di lavoro intergovernativo.

I contrari avrebbero voluto tornare al testo elaborato dall’Advisory Committee nel 2012 , in quanto molto più articolato e ricco di contenuti, anche se rigettato irrevocabilmente dagli Stati fin dalla prima sessione del Gruppo di Lavoro Intergovernativo (a guida di questo fronte la Spanish Society for International Human Rights Law (SSIRL)) .

I favorevoli hanno invece appoggiato le scelte del relatore del Gruppo di lavoro (l’Ambasciatore del Costa Rica Christian Guillermet-Fernández) nel seguire un metodo collaborativo e consensuale, seppur battendosi per la preservazione di alcuni contenuti minimi.

Tra questi ultimi figura anche l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII , la quale negli ultimi quattro anni, tramite la sua rappresentanza a Ginevra, si è molto spesa affinchè si potesse raggiungere un accordo.

Tra le altre cose, l’associazione ha diffuso (insieme ad altre tre organizzazioni: International Democratic Lawyers, Japanese Committee for the Human Right to Peace, United Network of Young Peacebuilders) una lettera aperta agli ambasciatori delle delegazioni a New York, chiedendo di esprimersi a favore della nuova dichiarazione e ribadendo che lo slancio verso la Pace è fondamento di tutto il sistema delle Nazioni Unite.

A loro e a noi come Movimento nonviolento – nonchè a tutta la società civile impegnata nella pace – spetta il compito di partecipare all’attuazione di questa criticabilissima dichiarazione, nonché la diffusione di una cultura di pace e di diritti umani.

Per approfondire le posizioni delle delegazioni degli stati rispetto alla dichiarazione:

video di presentazione della dichiarazione al Terzo Comitato dell’Assemblea Generale (46esimo meeting, 8 Novembre 2016, minuto 15.30);

video della votazione presso il Terzo Comitato dell’Assemblea Generale (52simo meeting, 18 Novembre 2016, minuto 31:30).

 

(per la realizzazione di questo articolo si ringraziano Mara Rossi e Fabio Agostoni (delegati APGXXIII a Ginevra) per aver condiviso con me il loro lavoro e la loro conoscenza in materia)

Di Martina Lucia Lanza

Esperta in diritto internazionale dei diritti umani. Rappresentante del Movimento nonviolento presso l’European Bureau for Conscientious Objection (Ebco) e board member di quest'ultimo.

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