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Non è una fiaba di Natale, ma una nuova pagina di nonviolenza scritta su un bus del Kenia

DiPasquale Pugliese

Dic 25, 2015

Era già successo cento anni fa che nei giorni di Natale si scrivesse una pagina di nonviolenza nella storia di un’umanità attraversata da una guerra devastante, talmente bella da sembra una fiaba. Allora la notizia fu, per lo più, occultata da chi non contemplava alternative alla guerra: i soldati “nemici” impegnati nella guerra di trincea decisero di concedersi una tregua di Natale, una pace spontanea dal basso – vietata e punita – tra le opposte trincee d’Europa, riconoscendo reciprocamente l’umanità dell’altro. Solo molti giorni dopo alcuni giornali europei ne parlarono timidamente ed ancora oggi bisogna andarsi a cercare questo evento – per i più sconosciuto – nella storiografia specialistica. In questi giorni una nuova pagina di nonviolenza altrettanto importante è stata scritta in Kenia, nel bel mezzo di una guerra che è locale ed internazionale insieme, da un gruppo di musulmani passeggeri di un autobus che trasportava anche un gruppo di cristiani. La notizia è balenata, per un giorno, anche sui giornali italiani. Riprendiamola, prima che se ne perda la memoria, e proviamo a comprenderne la portata.

I fatti, riportati dalla BBC e ripresi da alcune testate giornalistiche internazionali, nella loro essenzialità, sono questi: all’alba del 21 dicembre, un commando di terroristi fondamentalisti – presumibilmente appartenenti al gruppo di al Shabab con base in Somalia – attaccano armi in pugno, facendo due vittime, un autobus pieno di viaggiatori. Il loro obiettivo è uccidere i cristiani di ritorno a casa per Natale. Era già avvenuto lo scorso anno, con una strage di 28 cristiani, ma stavolta le cose vanno diversamente: i terroristi chiedono ai cristiani di scendere e intimano ai musulmani di ripartire. Questi sanno che il destino dei primi è segnato, stavolta si rifiutano di obbedire alla violenza omicida e di distinguersi da quelli. Nessuno riparte, “o tutti liberi” – dicono i musulmani – “o tutti uccisi”. Questo gesto di coraggio disarmato spiazza i terroristi, che se ne vanno. Sono salvi. Il bus può ripartire.

Questi fatti, pur scarni, ci raccontano molte cose fondamentali. Fissiamone alcune.
La prima, ribadisce ancora una volta che la religione islamica non c’entra nulla con il terrorismo. E’ quasi banale dirlo, ma vista l’islamofobia diffusa strumentalmente, a fini elettorali, nella pancia del nostro Paese da forze politiche e giornalistiche, è meglio ribadirlo. Anzi le persone di religione musulmana e i Paesi non occidentali sono le maggiori vittime di attentati terroristici, come testimonia – tra l’altro – questo efficace video realizzata da La Stampa

La seconda, ci racconta che non è un caso che il Kenia sia tra i Paesi più martoriati dal terrorismo – ricordiamo almeno la strage di 148 studenti all’Università di Garissa dello scorso 2 aprile – a cura di miliziani fondamentalisti provenienti dalla Somalia che vi fanno continue incursioni. Anche la Somalia – come l’Iraq e l’Afghanistan – è finita nel caos dopo l’intervento armato occidentale del 1992 (al quale anche l’Italia ha dato il suo contributo bellico) a partire dal quale il terrorismo è proliferato, dilagando nel vicino Kenia. E’ un terrorismo alimentato dal commercio delle armi occidentali a beneficio dei “signori della guerra” – nel quale sono coinvolti gli stessi Paesi occidentali intervenuti militarmente in Somalia – sul quale avevano cercato di indagare coraggiosamente Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, per questo uccisi in un agguato. Una tragedia che, volutamente, continua.

La terza cosa fondamentale che ci racconta – ancora una volta – il coraggio dei musulmani kenioti è che la nonviolenza funziona. Il loro gesto è stato un’azione da manuale di interposizione nonviolenta, svolta spontaneamente con coraggio ed empatia. E’ un’azione che comprende l’obiezione di coscienza rispetto ad un ordine impartito, la non collaborazione con il male, il mettersi tra gli oppressori e gli oppressi, a difesa di quest’ultimi, a rischio della propria vita. L’effetto che può generare nell’oppressore – così come si è verificato in Kenia con la decisione dei terroristi di desistere dalla loro strage – lo spiegava già Aldo Capitini: “la non collaborazione viene ad essere una specie di sollecitazione all’altro, perché si accorga di ciò che sta facendo, e che noi consideriamo inaccettabile. In certo senso si può dire che è una non collaborazione collaborante, in quanto – e talvolta a duro prezzo – dà all’avversario un contributo che può avvertirlo e persuaderlo” (Le tecniche della nonviolenza, 1967).

Ne approfondiva la portata anche Hannah Arendt, spiegando così la reazione degli occupanti nazisti di forte alla resistenza disarmata e nonviolenta del popolo danese. “L’aspetto politicamente e psicologicamente più interessante di tutta questa vicenda” – scrive Arendt ne La banalità del male, 1963 – “è forse costituito dal comportamento delle autorità tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalità. Non vedevano più lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro “durezza” si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio”

Tutto questo – nelle trincee della prima guerra mondiale, nella resistenza danese della seconda, nell’interposizione dei musulmani in Kenia in questa “terza guerra mondiale diffusa” (e in molte altre circostanze e luoghi del pianeta) – è avvenuto a cura di persone comuni che hanno riconosciuto e difeso l’umanità dell’altro, con/vincendo il proprio avversario. Una lezione per tutti. Le guerre generano terrore e terrorismo – come avvenuto anche in Somalia ed in Kenia – ed alimentano il mercato delle armi che ha bisogno di sempre nuovi focolai di barbarie. Con la nonviolenza vince l’umanità, si genera sicurezza per tutti e si alimenta il coraggio, la creatività e l’empatia. Non è un caso che questo principio sia anche alla base della proposta di legge per la difesa civile non armata e nonviolenta, promossa dalla campagna Un’altra difesa è possibile. Quali risultati potrebbero dare la difesa civile e i corpi civili di pace – che hanno proprio nell’interposizione nonviolenta un loro cardine – se venissero preparati, organizzati e finanziati almeno quanto la difesa militare? Dal Kenia ci è arrivata un’ulteriore risposta. Non di fiaba ma di civiltà.

Di Pasquale Pugliese

Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia. Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e "Disarmare il virus della violenza" (entrambi per le edizioni goWare, ordinabili in libreria oppure acquistabili sulle piattaforme on line).

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