• 8 Ottobre 2024 7:36

Azione nonviolenta – Agosto Settembre 2005

DiFabio

Feb 3, 2005

Azione nonviolenta agosto settembre 2005

– A piccoli passi verso l’orizzonte disarmo (di Massimiliano Pilati)
– Più forte che la bomba (di Daniele Lugli)
– Vendere armi e bloccare lo sviluppo: è questa la strategia globale? (di Alberto Castagnola e Riccardo Troisi) Vai
– Armi leggere italiane, sparse nel mondo (di Elisa Lagrasta)
– Campagna “Control Arms” (di Riccardo Troisi)
– Economia in crisi, ma non per le armi (di Giorgio Beretta)
– Come le mine, peggio delle mine (di Simona Beltrami)
– Abolition Now! Liberi dalle armi nucleari (di Lisa Clark)
– Disarmare Dio e gli uomini (di Fabio Corazzina)
– I conflitti dimenticati (di Maurizio Simoncelli)
– Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta: La mitezza (di Peppe Sini)

LE RUBRICHE

– Cinema, Una storia al femminile per abbattere i confini (di Giuseppe Borroni)
– Economia, Fondi pensione ed equità sociale (di Paolo Macina)
– Musica, Lingue e culture diverse riunite in un unico grande coro (di Paolo Predieri)
– Per Esempio, L’occupazione di massa degli impianti petroliferi in Nigeria (di Maria G. Di Rienzo) Vai
– Educazione, Uno sguardo libero e consapevole per sospendere il giudizio (di Angela Dogliotti Marasso) Vai
– Movimento, Se vuoi la nonviolenza, finanzia la nonviolenza
– Assemblea Nazionale del M.I.R.

A piccoli passi verso l’orizzonte disarmo

Di Massimiliano Pilati *

Il Movimento Nonviolento per anni si è fatto promotore, assieme ad altri movimenti per la pace, di campagne che richiedevano alla nostra nazione di disarmarsi: il disarmo unilaterale, le grandi azioni contro le basi missilistiche, le campagne per l’obiezione fiscale alle spese militari, le marce antimilitariste…
Oggi, pur continuando idealmente a lavorare per il superamento dell’apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza per poterci, un giorno, ritrovare in un mondo senza armi ed eserciti, il nostro Movimento comincia a guardare e a partecipare con interesse ad alcune iniziative che stanno sorgendo in Italia, volte a rimettere al centro dell’attenzione il tema del disarmo.
Da quest’anno è attiva la Rete Italiana per il Disarmo, formatasi dopo l’esperienza comune della Campagna in difesa della legge 185/90 sul commercio delle armi. Numerosi organismi, tra cui il nostro, provenienti da questa esperienza hanno deciso di lavorare per costituire un soggetto attivo in maniera stabile sui temi del disarmo e del controllo degli armamenti. La Rete sta lentamente diventando un luogo di elaborazione e mobilitazione su uno dei temi centrali per la costruzione della Pace e non per il tempo di una campagna, ma per un’azione duratura di lavoro su due binari principali: la ricerca e la mobilitazione.

A fronte di una drammatica situazione di guerra in tutto il mondo, fomentata e favorita da un’assoluta mancanza di controllo sul commercio delle armi, la Rete Italiana per il Disarmo ha deciso di lanciare (nell’ambito della Campagna Internazionale Control Arms) una campagna a vari livelli (nazionale, europeo e internazionale) sul tema degli armamenti, in particolare quelli cosiddetti “leggeri”. Scopo della campagna è migliorare gli strumenti legislativi e di trasparenza esistenti in Italia e nel Mondo. Ai militanti si chiede di metterci la faccia, infatti nel Luglio 2006 si terrà a New York la seconda Conferenza dell’ONU sui traffici illeciti di armi leggere. Controlarms ci sarà e presenterà la galleria di “1 milione di volti” ai governi di tutto il mondo, per richiedere un impegno ufficiale che porti all’adozione di un Trattato Internazionale sul Commercio delle Armi.

Inizialmente, quando venne proposta questa campagna, pensai che fosse troppo semplicistica, troppo poco chiedere di controllare il commercio delle armi, pensavo si dovesse continuare a chiedere l’intera partita, chiedere subito lo stop alle armi. Poi, riflettendoci, credo che questa campagna sia da considerarsi uno degli scalini nella nostra progressione gandhiana verso l’orizzonte disarmo.
Non significa ammorbidire il nostro pensiero, l’orizzonte disarmo è sempre presente nei nostri cuori e nel nostro modo di agire. Significa però rendersi conto che ci sono richieste alle quali possiamo arrivare, ci sono obiettivi ai quali possiamo ambire, passo dopo passo e nel contempo contribuire col nostro pensiero a “disarmare la ragione armata”.
Anche noi del Movimento Nonviolento siamo chiamati quindi a fare la nostra parte lavorando in rete con gli altri soggetti che formano la coalizione per il disarmo, apportando le nostre specificità a livello nazionale. Possiamo contribuire a lanciare una sensibilizzazione diffusa sul tema delle armi, insistendo soprattutto sulla necessità di creare una cultura nonviolenta dei conflitti.
Il nostro contributo (per citare un recente intervento di Enrico Peyretti interamente trascritto sui Numeri 951, 952 e 953 della newsletter “la nonviolenza è in cammino”) sarà quello di far capire che “un disarmo costruttivo, nelle sue varie forme, non è la resa alla violenza armata, nonè’ elusione del conflitto, ma processo che trasforma il conflitto, togliendone la gestione e la decisione alla forza non-umana delle armi che uccidono, minacciano e dividono, per affidarla a parole e gesti umani: alla parola che mette in comunicazione e cerca le soluzioni più razionali, condivisibili e costruttive; a gesti che depongono la minaccia e creano possibilità di fiducia”.
Questo numero di Azione nonviolenta, ideato con amici attivi in varie forme nella Rete Italiana per il Disarmo, è il nostro fattivo contributo alla nuova causa del disarmo.

* Comitato di Coordinamento del Movimento Nonviolento

Più forte che la bomba

Di Daniele Lugli *

Più forte che la bomba è il titolo di uno straordinario articolo di Aldo Capitini, pubblicato su Epoca il 17 agosto 1945, all’indomani dunque dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto). Inizia con una precisa descrizione del mondo globalizzato, come già lo vedeva sessanta anni fa, e dell’impatto che su questo avrebbe avuto il monopolio della forza nucleare. Questo tempo è tale che tutto in esso si riassume e culmina. Questo mondo distinto in continenti e in tante genti, ecco che si va unificando, e la resa del Giappone (una specie di Cartagine) è un altro passo. Ecco un cosmopolitismo crescente, macchine, film, edifici, che possono collocarsi indifferentemente in qualsiasi parte della terra; ed ecco infine che la forza, invece di stare decentrata in migliaia e migliaia di industrie di guerra si raccoglie in una bomba di sovraterrena potenza, che mette al bivio: o essere terribilmente violenti o essere inferiori sul piano della forza. La vittoria ha piegato le ali e ha scelto la sua dimora? l’imperium non gira più da popolo a popolo? Si torna a riconoscere ad uno solo il diritto di far guerra, quell’uno che potenzialmente è il tutto, e non più ai singoli popoli, diritto riaffermato nel Rinascimento? Certamente, sorge il problema della forza e della scelta del mezzo per lottare, per affermare.
La distruzione di Hiroshima e Nagasaki ha, come i maggiori storici ammettono, solo avvicinato una resa sicura, ma è stata soprattutto un segnale potente nei confronti dell’Unione Sovietica, “un martello”, nelle parole di Truman, da far volteggiare sulle teste di “quei ragazzi del Cremlino”. Il monopolio nucleare non è stato mantenuto: l’equilibrio del terrore che ne è conseguito, la divisione del mondo in blocchi, la politica del rischio calcolato, le guerre che si sono susseguite, fino al crollo dell’Urss, hanno solo differito la situazione intravista da Capitini e sperata da Truman. Ora il “martello” della supremazia militare ruota sopra le teste di tutti.
Gli Usa possiedono infatti un armamento, quantitativamente e qualitativamente, imparagonabile con quello degli altri Paesi e continuano a investire con una spesa annua che è il triplo di quella dei Paesi d’Europa messi assieme. E’ un buon affare: non solo le armi dismesse trovano comunque compratori, ma i settori propulsori dell’economia ( di questa economia della quale viviamo e moriamo ) sono alle armi strettamente connessi. Microelettronica, spazio, difesa e sicurezza rappresentano 1,7% del Pil mondiale, ma l’innovazione tecnologica generata influenza positivamente il 50% del Pil. Si calcolano, come conseguenti della conquista della Luna da parte degli Usa e del progetto “guerre stellari”, ricadute di 160 mila prodotti e tecnologie di vasto uso. Per indagare le origini dell’universo non si è trovato di meglio che sparare a una lontanissima e tranquilla cometa. C’era un solo colpo in canna, sia pure da 300 milioni di dollari, ma il bersaglio è stato centrato. E’ una modalità di “conoscenza” molto diversa da quella indicata dalla Bibbia, che pure i governanti nord americani citano continuamente.
Con la scusa delle armi di distruzione di massa, che non c’erano e lo si sapeva, si è fatta la guerra in Iraq. Ora c’è una proposta, dei sindaci di Hiroshima e Nagasaki, con colleghi di 110 nazioni, avanzata nel maggio scorso all’Onu per far approvare, entro il 2010, un trattato per l’abolizione di tutte queste armi, a partire da quelle nucleari, da rendere esecutivo entro il 2020. Vedremo quali Paesi, a cominciare dal nostro, si impegneranno veramente. La ricerca e la sperimentazione in questo campo non si sono comunque mai arrestate.
Sistemi d’arma sempre più raffinati e complessi vengono messi a punto. Decisive sono le connessioni, la raccolta, il trattamento, la compattazione, la precisione delle informazioni che i mezzi operativi trasmettono e ricevono, letali sensori in terra, in acqua, in aria, nello spazio. Abbiamo visto all’opera in “guerre facili” aerei, veicoli, navi stealth (se non proprio invisibili, furtivi) e robotici. Novità si annunciano nell’aviazione, nella marina, ma anche nelle forze di terra, dove la vittoria è facile per l’esercito più armato e addestrato, ma l’occupazione è comunque difficile. Si sperimentano blindati sempre più letali, leggeri, ecologici perfino, e intelligenti. Ma tutte le armi sono una più intelligente dell’altra. Anche le mine sono capaci di raccogliere informazioni, oltre ad uccidere. Entro il 2014, leggo su il Sole 24 Ore, gli Usa avranno pronta una tecno-brigata, prevista nel programma Futur Combat System, insieme integrato di una ventina di componenti, contando oltre al sistema computerizzato anche l’uomo. E’ questo un componente critico che va opportunamente preparato. “Il processo ha inizio nel campo reclute. L’addestramento iniziale nelle forze armate è sempre un’esperienza traumatica. La nuova recluta viene maltrattata, umiliata e sottoposta ad uno stress fisico e psicologico tale che quelle poche settimane modificano notevolmente la sua personalità. Un’importante abitudine acquisita durante questo processo è l’obbedienza immediata e assoluta. Non c’è in motivo particolare per cui si debbano piegare i calzini o fare i letti in un certo modo, se non perchè l’ha detto l’ufficiale. L’intento è che si manifesti la stessa obbedienza quando l’ordine è molto più importante. Addestrato a non mettere in dubbio gli ordini l’esercito diventa una macchina da guerra: l’impegno è automatico”. La citazione, e si potrebbe continuare a lungo, non è tratta da una pubblicazione antimilitarista, ma dal libro di testo delle migliori business school americane Thinking Strategically, edito in Italia da il Sole 24 Ore col titolo IO vinco TU perdi. Ma l’uomo continua ad avere un difetto, individuato già da Brecht. Può pensare. Può ritenere che l’intelligenza non consista unicamente nell’essere connesso a un sistema e rispondere in forma prevista agli input.
A questo difetto sono affidate le nostre speranze. Già soldati americani, sempre più numerosi, varcano, come ai tempi del Vietnam, la frontiera del Canada per sottrarsi alla guerra. E l’Esercito americano ha affidato ad una società specializzata il compito di individuare il target più opportuno di giovani cui inviare proposta di arruolamento. Il problema non si presenta ancora nel nostro Paese. Sospeso l’obbligo militare, il primo bando di concorso per soldati di professione ha visto 18 mila domande per 5 mila posti messi a disposizione. Neanche tanti a ben vedere considerato che al termine della ferma c’è un posto in polizia, nei vigili del fuoco, nella Croce Rossa. Gli impegni, già al loro massimo storico, in “missioni di pace” delle nostre forze armate, sono destinati a crescere. Sarà infatti un generale italiano ad assumere in agosto la direzione delle forze NATO in Afghanistan, un altro farà lo stesso a settembre in Kossovo, a dicembre l’Eufor, che ha rimpiazzato la Nato in Bosnia sarà diretta da un italiano. Già da un anno e mezzo la Multinational Force and Observer in Sinai è comandata da un italiano e si prospetta un ampliamento dei suoi compiti nei confronti della delicatissima striscia di Gaza. E’ facile prevedere una forte pressione per l’aumento delle spese per “la difesa” e sistemi d’arma in particolare.
Luttuosi, recenti avvenimenti hanno confermato, non ce n’era veramente bisogno, non solo la vulnerabilità delle nostre società nei confronti del terrorismo internazionale, ma l’alimento che lo stesso piuttosto riceve da guerre condotte nei confronti di “stati canaglia”, nella speranza di distruggerne le basi. E questo avviene in un quadro politico che, nella breve autobiografia, scritta nel ’68 poco prima di morire, Aldo Capitini aveva previsto: Si vedrà molto del laicismo anche notevolmente critico accettare prima o poi l’influenza americana, anche se essa si farà meno democratica, ma giudicata da quei laici pur sempre il male minore, in una certa circolazione di culture e di beni. E quest’accettazione è un fatto compiuto, non solo per i laici, che sembrano almeno in Italia in via di estinzione, ma per forze che in passato si dicevano comuniste. Si vedrà la spinta rivoluzionaria farsi sempre più estremista, attuando anche colpi violenti se non di guerra, di guerriglia, fino alla speranza di un contro impero che spazzi tutto il vecchio. E anche questo l’abbiamo visto, nel mondo e nel nostro paese pure. Negli “anni di piombo” l’estremismo, che si voleva a favore degli oppressi, credette nella lotta armata, sempre complice dell’oppressione. E la violenza terrorista, accompagnata dall’oscurantismo religioso, è un nemico ben attuale. Per chi non accetta il prepotere capitalistico, né la barbarie, che pretenderebbe di opporglisi, si ripropone il problema che nello scritto del ’45 Capitini aveva sintetizzato: Certamente, sorge il problema della forza e della scelta del mezzo per lottare, per affermare. E la risposta è ancora quella della nonviolenza, individuale e collettiva, del suo approfondimento, teorico e pratico. Solo attraverso il varco della nonviolenza è possibile approdare a quell’esito che Capitini indicava, concludendo la sua ricordata autobiografia:
L’Europa unita al Terzo mondo e al meglio dell’America, elaboreranno la più grande riforma che mai sia stata comune all’umanità, quella riforma che renderà possibile abolire interamente le diseguaglianze attuali di classi e di popoli e abolire le differenze tra i “fortunarti” e gli “sfortunati”. Un passo importante, decisivo, necessario, perchè il varco si compia, è costituito dal disarmo.

* Segretario nazionale del Movimento Nonviolento

Vendere armi e bloccare lo sviluppo: è stata questa la strategia globale?

Di Alberto Castagnola e Riccardo Troisi *

Quali rapporti tra armi e sviluppo

Sono molte le aree di attività economica di un paese acquirente di armamenti nelle quali questi trasferimenti possono avere un impatto negativo sulle potenzialità di sviluppo economico e più in generale sulle possibilità di autonoma evoluzione sociale di tutta la popolazione.
Il primo, il più ovvio e immediato, di questi aspetti è costituito dal costo monetario dello stesso trasferimento. In genere tutti i costi legati alle importazioni di armi devono essere sostenuti dal bilancio dello Stato acquirente. In genere i paesi poveri spendono per le armi una quota dei loro redditi nazionali maggiore di quella spesa dai paesi ricchi. Inoltre quasi la metà dei paesi che sostengono i maggiori oneri per la difesa hanno bassi indicatori di sviluppo umano. Altri paesi, ad esempio l’Indonesia, spendono per le loro forze armate quasi la stessa cifra che ha ricevuto come aiuti. Nel caso del Pakistan la spesa complessivamente destinata alla difesa rappresenta quasi un terzo del suo reddito nazionale lordo. Se a questa si aggiungono le spese per il servizio del debito (interessi e spese amministrative) sui prestiti ottenuti per acquistare armi dall’estero, si arriva quasi al 50% del reddito. In molti casi, infine, gli acquisti di armi danno luogo a dei tagli nella spesa pubblica per la sanità, l’istruzione e per altri servizi essenziali. E’ piuttosto facile reperire situazioni in cui un governo, pur dovendo affrontare una grave situazione sanitaria, ha in realtà attribuito la massima priorità all’acquisto di armamenti e i motivi che possono aver influito su una decisione così sfavorevole per la rispettiva popolazione sono intuibili, specie quando un paese è in situazione di conflitto con il paese vicino o quando al suo interno si moltiplicano gli scontri tra gruppi etnici o politici diversi.
Esistono poi dei costi finanziari “nascosti”, ad esempio quando un governo acquista delle navi da guerra con la scusa di voler proteggere i suoi pescatori, mentre poi i costi per il mantenimento e la operatività dei sistemi d’arma sono molto più elevati dei vantaggi derivati alle popolazioni costiere.
Un’altra serie di costi di più difficile valutazione è rappresentata dalla utilizzazione nel settore militare di risorse e personale qualificato che avrebbero potuto essere impiegati in progetti volti ad aumentare i servizi, specie sanitari, destinati alle fasce più povere della popolazione.
Altri effetti negativi di più lungo periodo causati da acquisti di armi all’estero sono invece collegabili agli usi impropri delle armi, sia da parte di forze militari e paramilitari governative, sia da parte di gruppi ribelli che riescono ad impossessarsene. Trasferimenti irresponsabili di armi possono infatti incoraggiare forze militari inaffidabili e poco addestrate a non rispettare i diritti umani e a sopprimere i tentativi di sviluppo democratico (ad esempio opponendosi alla realizzazione di libere elezioni). Sono ampiamente documentate in molti paesi l’uso illegittimo delle armi, specie di quelle leggere, contro attivisti politici, giornalisti, sindacalisti e persone che dimostrano in favore della pace o di uno stato più democratico.
In termini economici, sono rilevanti i danni arrecati agli essere umani, alle infrastrutture e alle opportunità economiche, in quanto hanno un impatto sullo sviluppo sostenibile. Ciò è vero in particolare se si tengono presenti i rapporti esistenti tra sicurezza e tranquillità di un paese e l’attrattiva esercitata sui potenziali investitori.
Infine, più noti ed evidenti sono gli effetti esercitati dalle armi sulla utilizzazione delle risorse naturali, dal petrolio ai minerali. Le armi permettono di usare le ricchezze di un paese per il beneficio di pochi invece che nell’interesse di tutta la popolazione, mentre la sicurezza degli esseri umani e il benessere di chi vive in aree ricche di risorse sono gravemente limitati. Gli esempi dell’estrazione di diamanti in Angola e in Sierra Leone, dell’oro e del coltan in Congo, del petrolio in Sudan e in Nigeria sono ben noti, anche se molto poco è stato fatto a livello internazionale per evitare milioni di vittime e drammatici disastri ambientali.

Istruzione e sanità, indicatori sufficienti?

Di fronte a effetti così complessi e a conseguenze anche di lungo periodo, gli indicatori e le analisi che evidenziano i rapporti esistenti tra spese militari e spese sociali in termini puramente quantitativi hanno un valore abbastanza limitato, anche se possono evidenziare con poche cifre dei fenomeni in genere molto dannosi per le popolazioni e le loro fasce più deboli, come i bambini e le donne. E’ anche evidente che nella maggior parte dei paesi sottosviluppati molti dei bisogni primari sono ampiamente scoperti e quindi tutte le risorse disponibili dovrebbero essere destinate alle spese sanitarie, all’istruzione, ad infrastrutture come le fogne e ai servizi essenziali come l’accesso all’acqua potabile. Pertanto, qualunque spesa di rilevanza militare e in particolare l’acquisto di armi sofisticate all’estero si presenta come fortemente inumana se confrontata con i bisogni minimi non garantiti a causa della scarsità di risorse. Non si può però dimenticare che molte delle spese militari sono il risultato di guerre e conflitti interni fomentati da altri paesi (e spesso sostenute o tollerate da paesi di ben altro livello di reddito) e comunque sono spesso indotte o spinte dall’interesse economico delle industrie belliche dei paesi più ricchi. Non casualmente, intorno ai contratti per la esportazione di armi e alle operazioni finanziarie e creditizie che ne permettono l’attuazione sono fiorite negli ultimi decenni le maggiori operazioni di corruzione, che trovano facile alimento nelle condizioni di sottomissione e bisogno dei paesi del sud del mondo e nella avidità e nel disprezzo dei limiti delle grandi multinazionali.
Deve anche essere ricordato che circa un terzo dei debiti esteri che oggi appesantiscono e bloccano i tentativi di sviluppo di più della metà della popolazione mondiale sono derivati da prestiti concessi ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo affinché acquistassero armi dai paesi donatori. Questi prestiti,quindi, non sarebbero stati concessi se non fossero stati “legati”, cioè vincolati ad acquisti ben determinati nei paesi oggi creditori e nel tempo hanno fornito loro interessi cospicui. Gli oltre 2500 miliardi di debiti accumulati non sono certo stati intaccati dalle ridottissime cancellazioni concesse nel luglio di questo anno ad un ristretto gruppo di paesi poverissimi, mentre in pratica molte delle politiche economiche dei paesi del Sud sono tramite questo meccanismo finanziario sottoposti alle misure liberiste del Fondo Monetario Internazionale. Le armi quindi esercitano anche effetti di lunghissimo periodo non facilmente percepibili ad occhi non esercitati o poco interessati a cogliere realtà spiacevoli.

Dati recenti sulla spesa militare e le esportazioni di armi

Le correlazioni esistenti tra esportazioni di armi ed alcuni meccanismi che favoriscono l’aggravarsi delle condizioni di sottosviluppo avrebbero dovuto, ormai da molti anni, costringere i governi dei paesi industrializzati a ridurre la spinta da loro esercitata alla esportazione di armamenti verso i paesi del sottosviluppo, in particolare verso quelli in via di rapido, ulteriore impoverimento. La realtà purtroppo è molto diversa, poiché gli interessi economici dei settori industriali di rilievo militare sono aumentati a seguito dei recenti conflitti nell’area mediorientale e la loro capacità di pressione sugli ambienti politici è diventata ben maggiore negli ultimi anni, caratterizzati da una fase di crisi economica generale e di stasi produttiva.
In chiave più politica, la strategia della guerra preventiva e le minacce di intervento rivolte ad almeno 60 paesi considerati pericolosi, da un lato, e il moltiplicarsi delle azioni terroristiche hanno creato delle condizioni molto favorevoli ad una ripresa delle produzioni di armamenti e ad rapido aumento delle esportazioni anche verso aree a rischio.
I dati più recenti sulle produzioni belliche, diffusi nel luglio 2005 dal SIPRI, l’istituto per la pace di Stoccolma, delineano un quadro molto negativo per i paesi più poveri. La cifra di spesa militare raggiunta nel 2004 supera largamente i mille miliardi di dollari (pari 840 miliardi di euro), rappresenta il 2,6% del prodotto interno lordo mondiale e comporta una spesa pari a 162 dollari per ogni abitante del pianeta.
Di questa cifra il 47% è speso dagli Stati Uniti, pari a 455 miliardi dollari; segue l’Inghilterra con 47,4 miliardi di dollari, poi la Francia, il Giappone, la Cina, la Germania e l’Italia, settima in questa classifica con quasi 28 miliardi di dollari. Ma un’altra cifra deve essere ricordata, l’incremento degli utili fatti registrare nel 2003 dalle 100 maggiori imprese del settore e quella del loro fatturato, superiore al prodotto interno lordo dei 61 paesi più poveri del mondo.
Nelle esportazioni è invece la Russia al primo posto, con 27 miliardi di dollari di armi vendute nel periodo 2000-2004, mentre gli Stati Uniti hanno raggiunto la cifra di 26 miliardi. L’Italia è ormai il nono esportatore, con 1,5 miliardi di dollari di esportazioni autorizzate nel 2004 e destinate sia a paesi sotto embargo come la Cina, in zone di tensione come l’India, il Pakistan, e il Medio Oriente, sia a paesi fortemente indebitati come il Cile, il Perù e il Brasile o dove si verificano continuamente violazioni dei diritti umani come l’Arabia Saudita e la Siria.
Quindi, pur in presenza di una povertà crescente, produzione e vendite di armi senza alcuna precauzione o limitazione continuano a diffondersi in un gran numero di paesi, in forte contraddizione con gli obiettivi di sviluppo e di lotta alla povertà tanto propagandati. Purtroppo, le voci che si levano per denunciare le menzogne delle politiche non riescono a superare la barriera degli interessi economici e soprattutto non riescono nemmeno a far emergere gli stretti collegamenti esistenti tra disponibilità di armi e munizioni e diffondersi del terrorismo.

Qualche conclusione per costruire un’azione comune

Tutte le considerazioni fin qui svolte spiegano le ragioni che spingono la richiesta internazionale di un Trattato sul disarmo e di una regolamentazione delle esportazioni di armi, quasi una premessa essenziale ad una effettiva lotta alla povertà mondiale. Priorità assoluta dovrebbe inoltre essere attribuita alla drastica riduzione dei 600 milioni di armi leggere che tante vittime continuano a distruggere nei conflitti interni e nelle guerre più o meno conosciute.
Sono poi da proporre numerose altre misure, forse di minore portata ma altrettanto essenziali se realmente si intende pervenire ad un drastico ridimensionamento del numero di persone costrette a sopravvivere al di sotto delle soglie di povertà. In primo luogo deve aumentare la pressione per la riduzione della produzione di armamenti e delle armi, in particolare le mine e gli strumenti di guerra nucleare, batteriologica e chimica, ancora diffusi in maniera preoccupante in un gran numero di paesi. Devono poi essere interrotti i meccanismi di acquisto delle armi che incidono sulla spesa sociale realizzabile e ciò in misura molto consistente nei paesi che meno sono in grado di sopperire ai bisogni fondamentali delle rispettive popolazioni. Le spese sociali devono essere libere da interferenze estere, cioè non devono essere effettuate perseguendo standards analoghi a quelli dei paesi industrializzati, devono poter comprendere la produzione di farmaci senza affrontare oneri eccessivi dovuti alla detenzione dei prevetti da parte delle multinazionali farmaceutiche, non devono affidare servizi essenziali a imprese straniere.
Le spese per istruzione e sanità, ma anche per acqua e alimentazione devono diventare prioritarie e raggiungere le fasce più povere della popolazione, in base a sostegni consistenti da parte delle organizzazioni internazionali. Ancora, gli interventi esteri, per aiuti e investimenti pubblici e privati, devono essere concessi purché aumentino effettivamente le spese sociali più urgenti.
Infine, il credito, pubblico e privato, deve essere concesso indipendentemente dagli acquisti di armi e tenendo conto delle corrette modalità di sviluppo sostenibile adottate dai paesi riceventi, mentre soprattutto le strategie di lotta alla povertà devono assolutamente tenere conto delle esportazioni di armi dei paesi donatori, evitando cioè quelle importazioni che possono incidere sulle potenzialità di sviluppo sostenibile espresse da ogni paese ricevente.
Si tratta evidentemente di perseguire un cambiamento piuttosto radicale delle logiche attuali e quindi le proposte, anche prese isolatamente, sembrano appartenere ad una utopia molto lontana dalla realtà attuale. Non possiamo però ignorare il fatto che le guerre si svolgono sempre più vicine ai paesi industrializzati e che il terrorismo internazionale ha ormai assunto caratteristiche insostenibili. Solo un deciso avvio di una strategia alternativa a quelle oggi dominanti può modificare i rapporti con le popolazioni immerse nella povertà estrema, sarebbe urgente iniziare subito, se veramente si vogliono evitare ulteriori massacri e distruzioni.

* Castagnola, Tavolo Intercampagne – Rete di Liliput
Troisi, Membro del Board Campagna Control Arms

Per saperne di più

Le armi del Bel Paese – di Elisa Lagrasta, ed. Ediesse (2005)
Mercenari Spa – di Francesco Vignarca, ed. Rizzoli (2004)
Armi leggere guerre pesanti – a cura di Maurizio Simoncelli, ed. Rubbettino (2002)
Il commercio delle armi – l’Italia nel contesto internazionale. A cura di Chiara Bonaiuti e Achille Lodovisi Book (2004).
Armi d’Italia – protagonisti e ombre di un made in Italy di successo – Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini. Fazi Editore (2005).
Guerre senza confini. Geopolitica dei conflitti nell’epoca contemporanea – M. Simoncelli: Roma, Ediesse, 2003, p. 155.
Geopolitica dell’acqua tra guerra e cooperazione – Hydrowar – M. Rusca – M. Simoncelli:., Roma, Ediesse, 2004, p. 229.
Le guerre del silenzio. Alla scoperta dei conflitti e delle crisi del XXI – M. Simoncelli (a/c): secolo, Roma, Ediesse, 2005, p. 424.
Dossier: L’eredità della guerra – Dopo le mine, le munizioni cluster: un’altra emergenza umanitaria annunciata http://www.campagnamine.org/varie/dossier.pdf – A cura di CAMPAGNA ITALIANA CONTRO LE MINE www.campagnamine.org
ENRICO PEYRETTI: STORIA DEL CONCETTO DI DISARMO inserito nei numeri 951, 952, 953 del 5, 6 e 8 giugno 2005 di “LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO” – Foglio quotidiano di approfondimento a cura del Centro di ricerca per la pace di Viterbo. Direttore responsabile: Peppe Sini. e-mail: nbawac@tin.it http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html
www.nonviolenti.org
www.disarmo.org
www.controlarms.org
www.archiviodisarmo.it
www.amnesty.it
www.disarmonline.org
www.retelilliput.net
www.armstradetreaty.com
www.exa.it

(a cura di Massimiliano Pilati)

Armi leggere italiane

Di Elisa Lagrasta *

Secondo una stima delle Nazioni Unite sono oggi in circolazione nel mondo oltre 650 milioni di armi leggere e di piccolo calibro. Gli Stati Uniti ne sono il principale esportatore (oltre 700 milioni di dollari nel 2001, in base ai dati del Comtrade dell’ONU), l’Italia il secondo (circa 300 milioni di dollari)1. Il commercio mondiale di queste armi non è sottoposto a controllo e ogni anno muoiono 200 mila persone tra omicidi e suicidi; altre subiscono le conseguenze della povertà diffusa2, dell’abuso dei diritti umani, della violenza nei conflitti armati che provoca annualmente 300 mila vittime, il 90% delle quali civili.
Dal 1990 in Italia è in vigore la legge 185 che regola i trasferimenti di armi militari e, nonostante successive modifiche che ne hanno in parte limitato l’iniziale rigidità, inserisce criteri precisi in base ai quali effettuare le esportazioni. Viene infatti vietata la vendita di armi militari a paesi in stato di conflitto armato, a paesi sottoposti a embargo dell’ONU, dell’Unione Europea o dell’OSCE3, a paesi i cui governi sono colpevoli di accertate gravi violazioni dei diritti umani o paesi che, ricevendo aiuti economici dall’Italia – in base alla legge 49 del 1987 – destinano al bilancio militare risorse eccedenti le proprie esigenze di difesa. Questi limiti imposti dalla normativa e la prevista relazione annuale tenuta dal Presidente del Consiglio in Parlamento sottopongono le armi leggere ad uso militare (pistole mitragliatrici, mitragliatori, fucili d’assalto, mortai, lanciarazzi, lanciamissili,…) ad un buon regime di controllo, sia pur compromesso dalla costante pressione dei produttori di armi. Le piccole armi ad uso civile invece (pistole, revolver, fucili, carabine e materiale esplosivo) non sono sottoposte ad una normativa altrettanto rigorosa. Concepite per la caccia, lo sport e la difesa personale godono di una ben maggiore libertà di movimento: se infatti all’interno del territorio italiano la loro vendita, detenzione ed uso sono severamente regolamentati dalla legge 110 del 1975, la stessa normativa si rivela drammaticamente inefficiente per quanto riguarda le esportazioni. Le armi civili possono circolare liberamente e raggiungere senza troppe difficoltà anche teatri di guerra e di violenza diffusa.
Le armi leggere e di piccolo calibro sono le armi più utilizzate negli odierni conflitti intra-statali, dove in genere non si scontrano eserciti nazionali ma gruppi armati, truppe ribelli, paramilitari. Nell’impossibilità economica di accedere ai grandi sistemi d’arma, questi militanti – spesso attraverso la vendita sul mercato nero delle ricchezze naturali del territorio da essi controllato (legname, diamanti, metalli preziosi) – ripiegano sulle armi piccole e leggere: economiche, durature, di facile utilizzo e manutenzione anche da parte dei bambini soldato diventano così le macchine di morte ideali nella guerriglia tra fazioni. Inoltre note pistole di produzione italiana vengono date in dotazione a diverse forze di polizia nel mondo, le quali spesso non eccellono per conformità ai principi in materia di diritti umani e abusano del potere loro concesso.
In base ai dati dell’ISTAT4, dal 1999 al 2003 l’Italia ha esportato 1 miliardo e 568 milioni di euro di armi ad uso civile (armi comuni da sparo, relative parti e munizioni, esplosivi) con una vendita annua che oscilla tra i 280 milioni di euro del 1999 e i 355 milioni del 2001. Se si esaminano anche tutte le esportazioni di armi ad uso militare sottoposte alla legge 185/90 (il cui ammontare nei cinque anni di riferimento è di 3,1 miliardi di euro5) risulta che i trasferimenti di armi civili rappresentano il 33% del valore di tutte le esportazioni di armi effettuate dall’Italia nel quinquennio.
Le esportazioni di armi civili di produzione italiana effettuate dal 1999 al 2003 sono costituite da pistole, fucili e relativi accessori per oltre 1 miliardo di euro, da munizioni per circa 480 milioni e da esplosivi per quasi 50 milioni. I principali importatori sono gli Stati Uniti (verso cui si è diretto il 38% di tutte le esportazioni) e i paesi dell’Unione Europea (che insieme raggiungono un altro 38%), seguiti dal gruppo dei paesi europei non appartenenti all’Unione (6,5% dei trasferimenti), dall’Africa Settentrionale e Medio Oriente (5,5%) e dall’Asia (5%). Mercati minori sono rappresentati dall’America Centro-Meridionale (che detiene un 3,5% delle esportazioni), dall’Oceania (1,5%) e infine dall’Africa Centro-Meridionale (1%).
Dietro a queste percentuali si nascondono casi di violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, conflitti armati, violenza diffusa, embarghi d’armi. Tra gli esempi più eclatanti c’è la Federazione Russa, il cui governo è in aperto conflitto con i separatisti ceceni ed è stato ripetutamente richiamato dal Consiglio Europeo per l’asprezza dei metodi di repressione utilizzati, e tuttavia ha potuto importare dall’Italia oltre 14 milioni di euro di armi di piccolo calibro. Israele, colpevole di gravi violazioni dei diritti umani nei territori occupati, ne ha importate poco meno di 8 milioni di euro, di cui 6 milioni di euro di pistole e fucili tra il 1999 e il 2001 e 1 milione di esplosivi nel corso del solo 2003. Algeria, Colombia, Filippine, India che da anni cercano di reprimere con la forza la conflittualità interna ai loro territori generata da fazioni rivali e da gruppi armati che non riconoscono il governo centrale, hanno importato dall’Italia rispettivamente 3,8, 2,6, 4,4 e 3,7 milioni di euro di pistole, fucili e munizioni. Armenia, Azerbaijan, Etiopia, Angola, Sierra Leone, Cina, Afghanistan6 sottoposti a embargo dall’ONU o dall’UE hanno potuto importare diversi quantitativi di armi civili7, senza che si possa stabilire con certezza a chi siano state destinate e che uso ne venga fatto8. A questi si aggiungono i 30 milioni di euro di munizioni vendute alla Malaysia, segnalata nei rapporti annuali sui diritti umani del Consiglio Europeo9 per l’eccessivo uso della forza da parte della polizia locale. Difficile la situazione in materia di diritti umani anche in Indonesia, Sri Lanka, Pakistan, Congo, Sudafrica, e ancora in Brasile, Argentina, Messico, Ecuador, come pure in Turchia, Bosnia-Erzegovina, Cipro, Ucraina, tutti importatori medio-grandi di armi leggere italiane.10
La proliferazione incontrollata delle armi è un problema globale, che riguarda tutti e richiede un coinvolgimento internazionale. Servono maggiori controlli, normative rigide e giuridicamente vincolanti, come quella promossa recentemente da Amnesty International, Oxfam e IANSA e sostenuta da numerose altre ONG – anche italiane – per l’adozione in sede ONU di un trattato internazionale sul commercio delle armi che inserisca precisi limiti ai trasferimenti di armi. Occorre tutelare la sicurezza e la vita umana: milioni di persone nel mondo devono essere liberate dall’incubo della violenza armata.

* Master in Educazione alla pace: cooperazione internazionale, diritti umani e politiche dell’Unione Europea. E’ ricercatrice presso l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo.

Controllo Arms

Di Riccardo Troisi *

La Rete Italiana per il disarmo ha rilanciato ufficialmente lo scorso marzo in Italia la campagna “Control Arms”, promossa a livello internazionale da Amnesty International, Oxfam e IANSA (International action network on small arms – di cui anche ControllARMI fa parte).
Questa campagna parte dalla constatazione che oggi la diffusione incontrollata degli armamenti, soprattutto di quelli leggeri (vere e proprie armi di distruzione di massa), è pericolosa per la sicurezza nel mondo. Infatti ogni giorno, milioni di donne, di uomini e di bambini vivono nel terrore della violenza armata: ogni minuto, uno di loro resta ucciso. Le armi proliferano purtroppo liberamente in molte zone del mondo, in particolare quelle segnate da conflitti. Si calcola che ogni anno circa 500.000 mila persone vengono uccise a causa dell’utilizzo diretto o indiretto di armi. Ogni anno, in Africa, Asia, Medio Oriente e America latina si spendono in media 22 miliardi di dollari per l’acquisto di armi: una somma che avrebbe permesso a questi stessi Paesi di mettersi in linea con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, di eliminare l’analfabetismo (cifra stimata: 10 miliardi di dollari l’anno) e di ridurre la mortalità infantile e materna (cifra stimata: 12 miliardi di dollari l’anno). Sono circa 639 milioni le armi leggere in giro per il mondo oggi, e 8 milioni sono le nuove armi prodotte ogni anno. Il totale delle spese militari mondiali in un anno è di 1035 miliardi di dollari, mentre la spesa complessiva (in 11 anni!!) per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio sarebbe di 760 miliardi…. che si potrebbero raggiungere spendendo solo il 10% in meno di spese militari all’anno. Se si volesse davvero “consegnare la povertà alla storia”, come recitava lo slogan dei megaconcerti, basterebbe ridurre le spese militari e convogliarle verso i fondi per lo sviluppo.

Dal dire al fare
Da queste considerazioni devono discendere scelte, mobilitazioni, politiche che possano favorire l’adozione di strumenti adeguati a livello internazionale e locale per un controllo e una regolamentazione efficaci degli armamenti, capace di interrompere questo “ciclo vizioso di morte” e “insicurezza” a cui stiamo assistendo ogni giorno.
La Campagna Control Arms in Italia si dispiegherà su diversi piani d’azione.
A livello internazionale, si cercherà di contribuire alla promulgazione di un Trattato Internazionale sul Commercio degli armamenti (ATT). A livello europeo l’intenzione è di agire, di concerto con una rete europea di organismi attivi su questi temi, per una revisione del Codice di Condotta Europeo sull’export di armamenti, tenendo alto il livello di monitoraggio e di analisi dei dati che vengono comunque forniti. Ad oggi, il Codice non è vincolante e risulta piuttosto debole sotto molti aspetti. A livello nazionale, infine, la Campagna si propone un’azione di sensibilizzazione diffusa sul tema delle armi, a partire dalle quelle leggere.
Una Campagna sul controllo degli armamenti deve naturalmente legarsi alla difesa della legge 185/90 e al monitoraggio dell’export italiano in base alla Relazione pubblicata ogni anno proprio grazie a questo strumento normativo. Un aspetto cruciale in tale contesto sono le coproduzioni e gli accordi di cooperazione militare tra Stati. L’internazionalizzazione del commercio di armi e i problemi che comporta sul controllo delle armi possono trovare soluzione solo attraverso un’azione coordinata a livello nazionale ed internazionale.
Si intende poi far partire un percorso di lavoro per l’introduzione di una legislazione nazionale sugli intermediatori di armi (brokers), vista anche la Common Position UE in tal senso adottata nel luglio 2003
Infine, analogamente, si intende spingere per l’introduzione di una legislazione italiana più rigida in materia di armi leggere, rafforzando i vincoli alla commercializzazione e l’export e aumentando gli standard di trasparenza. L’export di armi piccole e leggere, infatti, gode in Italia di una disciplina meno rigida e più lacunosa rispetto a quella prevista per gli altri sistemi d’arma, che riteniamo insufficiente in considerazione dei costi umani derivanti dalle irresponsabili esportazioni di tali armi

Tutto con una foto
Lo strumento principale e innovativo per diffondere l’intera Campagna è la cosiddetta “Million faces petition” ossia una foto-petizione, che intende raccogliere un milione di volti entro il luglio 2006. Una raccolta di firme abbinata a una foto della persona che esprima la sua contrarietà al commercio… anche con il volto! Le foto raccolte saranno presentate ai governi di tutto il mondo in occasione della seconda Conferenza dell’ONU sui traffici illeciti di armi leggere in tutti i suoi aspetti, che si terrà a New York nel luglio 2006. In questa occasione, le ONG chiederanno ai governi un impegno ufficiale che porti all’adozione dell’ATT.
La preparazione delle guerre inizia nelle fabbriche d’armi, nei trattati militari, nei programmi politici dei partiti, nelle strategie delle multinazionali e delle società finanziarie. Control Arms agisce concretamente verso il disarmo internazionale, partendo da una proposta di maggior controllo per giungere al superamento del commercio e della produzione di armamenti, per poi proporre la riconversione dell’industria bellica in industria civile.
È importante che ogni punto-pace segnali la sua intenzione di attivarsi su questa campagna, coinvolgendo le altre organizzazioni sul territorio.
Per avere informazioni ed iniziare a collaborare potete inviare una mail a:
controlarms@disarmo.org o visitare il sito http://www.disarmo.org/controlarms/.

* Membro del Board Campagna Control Arms

Qualche dato sul bussines delle Armi

– il “business” delle esportazioni mondiali autorizzate si aggira sui 28 miliardi di dollari all’anno;
– l’88% delle armi viene fornito dai paesi membri del Consiglio di Sicurezza: Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito;
– nel 2001 gli Usa hanno venduto armi per un valore di quasi 10 miliardi di dollari; seguono la Cina con 6 miliardi di dollari, il Regno Unito con 4 miliardi di dollari, la Russia con 3,6 miliardi di dollari e la Francia con 1 miliardo di dollari;
– nello stesso anno, i paesi in via di sviluppo sono stati destinatari del 67,6% del valore di tutte le armi commercializzate: gli Usa sono i primi fornitori di armi a paesi di Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina (41,7% del totale, per un valore di 6 miliardi di dollari); seconda la Russia (23,6%, 3,4 miliardi di dollari), terzo il Regno Unito (22,9%, 3,3 miliardi di dollari);
– sono in circolazione 689 milioni di armi leggere, una ogni dieci persone, prodotte da oltre 1100 aziende in 98 paesi;
– ogni anno muoiono per cause riconducibili all’uso delle armi, 500.000 persone, 1300 al giorno, una al minuto;
– ogni anno vengono prodotti otto milioni di armi leggere e sedici milioni di munizioni;
– almeno il 60% delle armi finisce nelle mani di civili;
– 300.000 bambini e bambine soldato sono coinvolti in conflitti armati;
– secondo le Nazioni Unite, negli anni ’90 la violenza delle armi convenzionali ha ucciso oltre cinque milioni di persone e ha costretto 50 milioni di persone a fuggire dalle proprie case;
– secondo le Nazioni Unite, negli ultimi dieci anni sono stati clamorosamente violati gli embarghi sulle armi nei confronti di Ruanda, Angola, Sierra Leone, Liberia, Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo e Iraq.

ARMI E POVERTA’

– un terzo dei paesi del mondo spende più in acquisto di armi che in programmi di assistenza socio-sanitaria;
– il 42% dei paesi con il più alto budget destinato alla difesa figurano in fondo alla classifica dell’indice di sviluppo umano;
– in Africa le perdite economiche causate dai conflitti sono stimate in 15miliardi di dollari all’anno;
– nel 2001 le spese militari mondiali sono state di quasi 390 miliardi di dollari; nello stesso periodo di tempo 1,3 miliardi di persone sopravvivevano con meno di un dollaro al giorno;
– la metà dei paesi del mondo spende più nella difesa che nella salute.

Economia in crisi, ma non per le armi

Di Giorgio Beretta *

Lo scorso giugno, per per la prima volta in 15 anni, la Relazione annuale del Governo prevista dalla legge 185/90 sull’esportazione delle armi italiane è stata oggetto di discussione nelle Commissioni Esteri e Difesa della Camera: segno evidente che le pressioni della società civile, confluite nella Campagna “Difendiamo la 185” e successivamente nell’importante lavoro di informazione, coordinamento e di lobbying che sta svolgendo la “Rete Disarmo” (vedi articolo a parte), stanno cominciando trovare riscontro.

Significativo che nel dibattito parlamentare siano stati posti anche da parte di esponenti della maggioranza al Governo diversi interrogativi che le campagne da anni sollevano: oltre a quelli che riguardano le esportazioni in contrasto con i divieti della legge 185/90, vi sono quelli che concernono la difficoltà a conoscere con precisione la tipologia di armi vendute dall’Italia ai diversi Paesi e soprattutto a cogliere dalla Relazione le linee di “politica estera e di difesa” che dovrebbero guidare le autorizzazioni all’esportazione. Al riguardo l’on. Giuseppe Cossiga (F.I.), relazionando per il Governo in IV Commissione Difesa, ha chiaramente affermato che «la Relazione (sull’export di armi – NdR) non consente di compiere tale ricostruzione, in quanto pur fornendo numerose informazioni di dettaglio sui soggetti contraenti e sul valore delle transazioni effettuate, non permette il più delle volte di comprendere l’oggetto delle transazioni medesime né consente di effettuare una valutazione sulla strategia di politica estera che ha ispirato le operazioni verso i diversi Paesi, soprattutto quelli non appartenenti alla Nato e all’Unione Europea». Domande alle quali il Sottosegretario di Stato alla Difesa, on. Filippo Berselli, ha risposto in modo elusivo sollevando la protesta dell’opposizione e l’insoddisfazione delle stesse forze al Governo.

Armi e accordi con tutti, indistintamente
Il dibattito parlamentare è tuttora in corso ed è importante monitorarlo: materia per far sentire la nostra voce ce n’è a iosa. La Relazione 2005 della Presidenza del Consiglio sull’esportazione di armi riporta, infatti, che il comparto armiero – denominato con un eufemismo “Industria della Difesa” – ha collezionato nel 2004 nuove autorizzazioni all’esportazione per quasi 1,5 miliardi di euro con un incremento del 16% rispetto all’anno precedente: una cifra record dell’ultimo quadriennio nel quale il settore ha accresciuto il proprio portafoglio d’ordini di ben oltre il 70% passando dagli 863 milioni di euro di commesse del 2001 agli oltre 1489 milioni di euro del 2004. Nell’ultimo anno i principali clienti delle armi “made in Italy” sono soprattutto i Paesi dell’area Nato che hanno ricevuto il 72% delle nuove autorizzazioni. Ma non va dimenticato che nel 2003 le commesse della Nato ricoprivano meno del 45%, a dimostrazione che l’export di armi italiane risponde ormai non tanto ai principi di “politica estera e di difesa”, quanto piuttosto alla domanda di mercato. Non si spiegherebbero altrimenti le autorizzazioni all’esportazione rilasciate a Paesi in aree di tensione a partire dall’Estremo oriente: 127 milioni di euro nel 2003 verso la Cina, sulla quale vige tuttora l’embargo da parte dell’Ue, ed altri 2 milioni nel 2004 e, contemporaneamente, i 6,3 milioni di euro di esportazioni a Taiwan. O quelle verso l’India (42 milioni di euro le autorizzazioni del 2004) e Pakistan (13,5 milioni di euro) nonostante i due Paesi, oltre al conflitto nel Kashmir, siano annoverati nella lista delle nazioni fortemente indebitate che spendono ingenti capitali nel settore militare (l’India è il secondo importatore di armi al mondo, il Pakistan il decimo – informa il Rapporto SIPRI 2005). O verso i Paesi del Vicino e Medio Oriente che sebbene, con 54 milioni di euro pari al 3% del totale, segnino – nota la Relazione – “il valore più basso degli ultimi anni”, rappresentano comunque “uno dei mercati strategici per le imprese italiane del settore”.
Non va dimenticato, al riguardo, che quest’anno con alcuni Paesi dell’area, tra cui Kuwait, Giordania e Gibuti, l’Italia ha ratificato “Accordi per la cooperazione nel campo della Difesa”: accordi che prevedono “acquisizioni e produzioni congiunte” di armamenti come “bombe, mine, razzi, siluri, carri, esplosivi ed equipaggiamenti per la guerra elettronica” e che – come segnalava in Commissione esteri a Montecitorio l’ex ministro della Difesa Sergio Mattarella – favoriscono “l’applicazione di un regime privilegiato nelle procedure relative all’interscambio di armamenti tra i due Paesi” col rischio di “un grave svuotamento delle disposizioni contenute nella legge 185 del 1990”. Accordi simili sono tuttora in esame al Parlamento e riguardano diversi Paesi in conflitto o dove si registrano continue violazioni dei diritti umani tra cui India, Indonesia, Israele, Libia e la stessa Cina. Tornando alla lista delle 690 autorizzazioni concesse dal Governo nel 2004, troviamo poi una serie di Paesi che le organizzazioni internazionali segnalano per le persistenti violazioni dei diritti umani tra cui Malaysia, Turchia, l’Algeria, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Siria e Arabia Saudita, giusto per citarne alcuni. In definitiva, nonostante la Relazione rassicuri che “fra le autorizzazioni rilasciate, oltre a non esserci alcun Paese rientrante nelle categorie indicate nell’articolo 1 della legge” (che vieterebbe le suddette esportazioni – NdR), e che il Governo avrebbe “mantenuto una posizione di cautela verso Paesi in stato di tensione”, le preoccupazioni permangono.
Nuovi attacchi alla legge 185
Preoccupazioni alle quali se ne aggiungono di nuove. La prima concerne la Campagna di pressione alle “banche armate”. La Relazione, infatti, indicando tra le problematiche di «alta rilevanza» trattate a livello interministeriale l’atteggiamento di «buona parte degli istituti bancari nazionali» che, «pur di non essere catalogati fra le cosiddette “banche armate” hanno deciso di non effettuare più o limitare significativamente le operazioni bancarie connesse con l’importazione o l’esportazione di materiali d’armamento», adduce «notevoli difficoltà operative» per le industrie del settore tanto da «costringerle ad operare con banche non residenti in Italia», con la conseguenza – secondo il Governo – di «rendere più gravoso e a volte impossibile il controllo finanziario» da parte del Ministero. Ed ecco il punto: «Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha recentemente prospettato una possibile soluzione che sarà quanto prima esaminata a livello interministeriale» – si legge nella Relazione 2005. Quale sia questa “soluzione” non è dato di sapere, ma resta il fatto che di “difficoltà operative” tali da richiedere modifiche alla legge non ce ne sono visto che le banche italiane, coi gruppi Capitalia e San Paolo Imi in testa, ricoprono tuttora più dell’85% delle transazioni per export di armi. La questione è stata riproposta anche nell’intervento in sede parlamentare del già citato on. Cossiga (F.I.) il quale, considerando «eccessiva l’enfasi con la quale la relazione dà conto dell’ammontare complessivo delle operazioni finanziate dagli istituti di credito», afferma che la relazione della Presidenza del Consiglio sull’export di armi fornirebbe «dati che risultano non solo fuorvianti», ma addirittura «suscettibili ad alimentare campagne di informazione del tutto prive di fondamento, come nel caso della campagna banche armate». Una campagna, quest’ultima che, proponendo all’attenzione dei cittadini nient’altro che i dati forniti dal Ministero, è stata però in grado di toccare nel vivo gli interessi della lobby armiera tanto da portare importanti istituti di credito ad assumere l’export di armi tra le proprie linee di “responsabilità sociale e di impresa” (vedi riquadro).
Un ultimo punto sul quale occorre tenere alta la guardia. Asserendo a motivo «vari provvedimenti legislativi dettati dall’ambiente normativo europeo» che «più o meno direttamente afferiscono alla legge 185/90» è in atto un «progetto governativo di riscrittura della legge 185 del 1990» – informa la Relazione 2005. Anche su qu esto ben poco è dato di sapere, ma è ancora fresco il ricordo della ratifica di accordi in ambito europeo che, se non ci fosse stata la puntuale mobilitazione della società civile, avrebbero sortito l’effetto di snaturare la legge 185/90. Una legge – non dimentichiamolo – che è nata grazie ad un decennio di lotte e denunce di numerose organizzazioni dell’associazionismo pacifista, cattolico e missionario, del mondo sindacale e dei movimenti nonviolenti e che ha costituito la base del Codice di Condotta dell’Unione europea.
* Caporedattore di Unimondo

LA CAMPAGNA BANCHE ARMATE
Promossa da tre riviste del mondo pacifista e missionario (Nigrizia, Mosaico di Pace, Missione Oggi), la Campagna di pressione alle “banche armate” è stata avviata nel 2000, anno del Giubileo, chiedendo ai risparmiatori di interrogare le proprie banche sulle operazioni di appoggio alla compravendite di armi. Un modo semplice ed efficace di favorire un controllo attivo dei cittadini sui propri risparmi. In risposta alle domande dei correntisti diversi e importanti istituti di credito italiani (tra cui Mps, Unicredit, Banca Intesa), hanno adottato “politiche di responsabilità sociale” e hanno deciso di non offrire, totalmente o in parte, i propri servizi per l’esportazione di armi italiane, soprattutto verso quei Paesi per i quali vigono gli espliciti divieti della legge 185/90, come nazioni sottoposte all’embargo di armi da parte dell’Onu e dell’Unione europea, responsabili di gravi e accertate violazioni dei diritti umani, Paesi poveri o fortemente indebitati che destinano ampie risorse alle spese militari. Tutte le informazioni sulla Campagna sono reperibili sul sito www.banchearmate.it. (G.B.)

Come le mine, peggio delle mine: fermiamo il massacro finché siamo in tempo

Di Simona Beltrami *

Una storia, una delle tante che ci sono arrivate dall’Iraq insanguinato da un anno e mezzo di guerra e “dopoguerra”, illustra le insidie che le munizioni cluster rappresentano per le popolazioni civili. E’ la storia di Rowand, una bambina di nove mesi dilaniata da una submunizione inesplosa urtata mentre camminava gattoni nel posto teoricamente più sicuro per un bambino della sua età: il soggiorno di casa sua. L’ordigno, abbastanza piccolo da essere raccolto e trasportato da dei ragazzini, e abbastanza curioso da attrarre la loro attenzione, era stato portato a casa da alcuni cuginetti poco più grandi di Rowand ed era rimasto in agguato, sotto il tavolo, per ore, forse giorni, prima di esplodere.
Come le mine, le submunizioni cluster inesplose sono armi indiscriminate, che possono esplodere tanto all’urto di un carro armato quanto al tocco leggero di una mano infantile. Ma ancor peggio delle mine, sono del tutto imprevedibili ed instabili, ed armate con cariche esplosive potentissime, alla cui detonazione raramente si sopravvive.
Come le mine, mettono quindi a serio repentaglio la vita ed i diritti umani fondamentali delle popolazioni colpite: non solo quello alla salute e all’integrità fisica, ma anche quello alla libertà di movimento, all’accesso alle risorse, a godere di un livello di vita dignitoso. Come le mine, infatti, con la loro presenza erigono barriere insormontabili alla ricostruzione postbellica, allo sviluppo, alla ripresa delle attività economiche, al rientro dei rifugiati, al superamento dei traumi inflitti dalla guerra ed al consolidamento della pace, tenendo intere società ostaggio di un clima di terrore quotidiano.
Che le dimensioni del problema a livello planetario siano ancora relativamente limitate dipende solo dal fatto che finora questo tipo di armi è stato utilizzato solo in una manciata di Paesi: una loro più ampia diffusione, e peggio ancora la cessione di stock antiquati e inaffidabili agli eserciti di Paesi coinvolti in conflitti interni o regionali, causerebbe una tragedia umanitaria di proporzioni ben superiori a quella prodotta dall’uso delle mine.
Nello stesso spirito che ha animato la mobilitazione mondiale per la messa al bando delle mine antipersona, quindi, si è andato creando a livello internazionale un movimento, sostenuto da organizzazioni non governative, associazioni e dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, per fermare la proliferazione di queste armi dagli effetti devastanti prima che sia troppo tardi. Questo movimento ha trovato la sua articolazione formale nella creazione, nel novembre 2003, della Coalizione Contro le Munizioni Cluster (Cluster Munition Coalition – CMC)2 che raccoglie più di 90 distinte realtà su una piattaforma minima comune che prevede:

1 Una moratoria a livello mondiale su uso, produzione e commercio delle munizioni cluster almeno finché non siano stati risolti i gravi problemi umanitari che comportano;
2 Un incremento delle risorse destinate ad assistere individui e comunità colpiti dalle submunizioni cluster ed altri tipi di residuati bellici esplosivi;
3 L’accettazione, da parte di quanti fanno uso di questo tipo di munizioni, di una speciale responsabilità per la bonifica, le attività tese a informare la popolazione locale del rischio, e l’assistenza alle vittime.

Raggiungere questi obiettivi non sarà facile. Molti eserciti hanno dimostrato di apprezzare i vantaggi militari ed il favorevole rapporto costi-benefici offerti dall’uso di queste munizioni e di non essere pronti a rinunciarvi tanto facilmente. La strada sarà lunga e probabilmente passerà per tappe intermedie come la proclamazione di moratorie unilaterali a livello nazionale, l’eliminazione dagli arsenali dei modelli più notoriamente imprecisi ed inaffidabili, ed il dialogo con i comandi militari preoccupati dal canto loro per l’impatto delle munizioni cluster “amiche” sulle proprie truppe.

REALIZZATO CON IL CONTRIBUTO DELLA COMMISSIONE EUROPEA
* Coordinatrice nazionale della Campagna Italiana Contro le Mine dal 2003 e rappresenta la Campagna all’interno della Coalizione Contro le Munizioni Cluster

Abolition Now! Liberi dalle armi nucleari

Di Lisa Clark *

“Prima di tutto ricordate la vostra umanità!” Suonava così l’accorato appello del Premio Nobel per la Pace Sir Joseph Rotblat alle delegazioni governative riunite nella sala dell’Assemblea Generale all’ONU il 4 maggio scorso. Rotblat, 97 anni, tutta una vita spesa per mettere al bando le armi nucleari e la guerra stessa, era troppo vecchio e malato per dirglielo di persona. E Janet Bloomfield ha letto ai delegati la lettera inviata loro dall’unico firmatario dell’Appello Russell-Einstein (1955) ancora in vita, affinché si ricordassero di essere parte di quella umanità la cui sopravvivenza è minacciata dalle armi nucleari. “Ecco, quindi, il problema che abbiamo davanti e che vi poniamo. Un dilemma terribile, che ci pone un’alternativa netta, ed al quale non possiamo sfuggire. Sceglieremo di decretare la fine della specie umana? Oppure l’umanità rinuncerà alla guerra?”

Abolition Now! è una rete di migliaia di associazioni, movimenti, campagne che si impegna affinché le armi nucleari vengano finalmente messe al bando. Insieme ad attivisti da tutto il mondo, parlamentari, giuristi, sindaci ed amministratori locali il coordinamento riesce ad informare e a favorire la partecipazione condivisa alle iniziative. La rete internazionale permette di conoscersi e di capire le sensibilità diverse. Sempre, il 4 maggio, ha preso la parola anche Tony De Brum, delle Isole Marshall: ha raccontato come, quando era bambino, ha vissuto i terribili anni delle sperimentazioni nucleari nell’atollo dove viveva. “Nei 12 anni in cui gli Stati Uniti hanno eseguito test nucleari nelle nostre isole hanno fatto esplodere così tanti ordigni da diffondere tanta radioattività quanta ne avrebbero sprigionata una bomba e mezzo di quelle sganciate su Hiroshima ogni giorno per 12 anni di seguito.”

Con l’entrata in vigore del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare nel 1970 in molti pensarono che l’umanità avesse vinto e che si fosse davvero scelto di rinunciare al nucleare. E infatti nei 30 anni che seguirono furono senz’altro maggiori i successi dei fallimenti. Tutti gli Stati del mondo, tranne tre, accettarono il duplice impegno dell’NPT: per le potenze nucleari, quello di arrivare a smantellare il proprio arsenale nucleare; per tutti gli altri, quello di non dotarsi mai di armi nucleari. Alcuni Stati, come Sudafrica e Kazakhstan, che avevano già la capacità nucleare, smantellarono e distrussero i propri arsenali pur di firmare e ratificare l’NPT.

Ma negli ultimi anni in modo inizialmente subdolo, poi sempre più sfrontato, il nucleare militare è stato riabilitato. Il Presidente Bush ha revocato nel 2002, nel documento strategico Nuclear Posture Review, l’impegno assunto da tutti i suoi predecessori dal 1945 in poi, e cioè quello a non usare mai un’arma nucleare per colpire per primi. Poi ha assegnato finanziamenti alla ricerca per nuove armi atomiche più piccole, maneggevoli, e quindi “più utilizzabili”. Sono solo alcuni dei nuovi eventi che cambiano la scena internazionale. Con la menzogna della Armi di distruzione di massa in Iraq, l’amministrazione USA ha anche impartito la peggior lezione agli Stati minacciati: senza la presenza di armi di sterminio si rischia l’aggressione e l’invasione. E questo spiega la sfida lanciata al resto del mondo da Corea del nord e da Iran. Nell’atmosfera generale di proliferazione, anche la Russia sta progettando una nuova generazione di sottomarini nucleari, la Gran Bretagna sta pensando all’ammodernamento della sua flotta di micidiali Trident … e così via.

Ma non tutti gli eventi degli ultimi anni sono negativi. Oltre alla costituzione di Abolition Now! si è consolidata anche la Campagna dei Sindaci per la Pace, lanciata dai sindaci di Hiroshima e Nagasaki. Tutta una serie di Paesi membri delle Nazioni Unite, i membri della New Agenda Coalition, continuano senza sosta a proporre documenti, accordi, convenzioni, che sottolineano l’impegno assunto dalle potenze nucleari a procedere verso un disarmo totale, con distruzione degli arsenali. Sollecitata dalla Comunità internazionale la Corte Internazionale di Giustizia ha dichiarato illegali ed immorali le armi atomiche. Un numero sempre crescente di Paesi si sono costituiti in Zone Libere da Armi Nucleari. I giuristi internazionali hanno elaborato una Convenzione per l’Eliminazione delle Armi Nucleari, come quelle che già esistono per le armi chimiche e biologiche.

Ricordiamoci, come ci chiede Rotblat, della nostra comune umanità. Impariamo dagli Hibakusha, i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, a non stancarci mai, anche quando non vediamo risultati immediati. E impegniamoci affinché, entro il 2020, il pianeta sia finalmente liberato dalle armi atomiche, e i morti di Hiroshima e Nagasaki possano finalmente riposare in pace,

* Beati i costruttori di pace

Disarmare Dio e l’uomo
I cristiani e gli armamenti

Di Fabio Corazzino *

Scrivendo un appello ai responsabili della guerra nella ex-Jugoslavia don Tonino Bello diceva:
“Mettetevi dalla parte della gente, non di chi specula sulla guerra, sul mercato delle armi, sul mercato nero, ma della grande massa che soffre, che muore. Deponete le armi, sottraetevi dall’oppressione dei mercanti della guerra, afferrate strumenti di pace”.
Perché rifiutare la logica delle armi e del riarmo?

Perché le armi generano cattivi sogni
“Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancora prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli” diceva Paolo VI all’ONU il 4 ottobre 1965.
Ben altro da quello generato dalle armi e dal riarmo globale è il sogno del profeta Isaia:
“Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore! Perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare sui suoi sentieri … Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo. Non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Isaia)

Perché le armi sponsorizzano il potere del più forte
“La corsa agli armamenti costituisce in realtà una violazione del diritto mediante la forza, l’accumulazione delle armi diviene il pretesto per la corsa ad aumentare la forza al potere” (Pontificio Commissione Justitia et Pax, “La Santa Sede e il disarmo generale”, 1976). Infatti le armi in generale e quelle nucleari in particolare non servono a difendere la libertà ma la posizione di privilegio iniquo di cui gode il mondo nord-occidentale. “Rinunciare ad esse significherebbe rinunciare al nostro vantaggio economico sugli altri popoli. La pace e la giustizia procedono insieme. Sulla strada che seguiamo attualmente, la nostra politica economica verso gli altri paesi ha bisogno delle armi nucleari. Abbandonare queste armi significherebbe abbandonare qualcosa di più che i nostri strumenti di terrore globale; significherebbe abbandonare le ragioni di tale terrore: il nostro posto privilegiato in questo mondo” (R. Hunthousen, arcivescovo di Seattle).

Perché le armi sono un crimine contro i poveri
“La corsa agli armamenti anche quando è dettata da una preoccupazione di legittima difesa … costituisce in realtà un furto, perché i capitali astronomici destinati alla fabbricazione e alle scorte delle armi costituiscono una vera distorsione dei fondi da parte dei gerenti delle grandi nazioni e dei blocchi meglio favoriti. La contraddizione manifesta fra lo spreco della sovrapproduzione delle attrezzature militari e la somma dei bisogni vitali non soddisfatti (paesi in via di sviluppo, emarginati e poveri delle società abbienti) costituisce una aggressione verso quelli che ne sono vittime. Aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame (Pontificio Commissione Justitia et Pax, “La Santa Sede e il disarmo generale”, 1976). E’ chiaro che la ricerca di interessi privati o collettivi a breve termine non può legittimare imprese che fomentano al violenza e i conflitti tra le nazioni e che compromettono l’ordine giuridico internazionale.

Perché le armi minacciano la pace e la convivenza
“L’enorme aumento delle armi rappresenta una minaccia grave per la stabilità e la pace. Il principio di sufficienza, in virtù del quale uno stato può possedere unicamente i mezzi necessari alla sua legittima difesa, deve essere applicato sia dagli stati che comprano armi, sia da quelli che le producono e le forniscono” (Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, “Il commercio internazionale delle armi”, 1994). Non c’è giustificazione morale ad un accumulo eccessivo di armi e al loro commercio generalizzato. Le armi non devono mai essere considerate alla stregua di altri beni scambiati sul mercato interno o a livello mondiale.

Perché le armi non allontanano la guerra
C’è anche chi sostiene, ancora oggi, nonostante lo storico fallimento, il principio della deterrenza. Le politiche della deterrenza tipiche del periodo della guerra fredda vanno sostituite con concrete misure di disarmo, basate sul dialogo, sui trattati di non proliferazione e sul disarmo unilaterale e multilaterale. Grave è in fatti il giudizio morale sul principio di deterrenza:
“L’accumulo delle armi sembra a molti un modo paradossale di dissuadere dalla guerra eventuali avversari. Riguardo a tale mezzo di dissuasione vanno fatte severe riserve morali. La corsa agli armamenti non assicura la pace. Lungi dall’eliminare le cause delle guerre, rischia di aggravarle” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2315)

Ci resta la scelta del disarmo
La dottrina sociale della chiesa propone la meta di un “disarmo generale, equilibrato e controllato” (Giovanni Paolo II, messaggio per il 40° anniversario dell’ONU, 1985). Un obiettivo ben lontano da raggiungere se i dati che abbiamo valutato ci mostrano che oggi, come mai nella storia umana, il pianeta terra è un “pianeta armato”, un pianeta in cui non ci sono stati o zone che non siano provviste di gravi sistemi d’arma e dunque con la possibilità di scatenare una guerra; che le armi moderne, le quali invecchiano presto, sono sostituite in continuazione e con estrema rapidità da armi nuove, assai più micidiali. Questa necessità di rinnovare continuamente le vecchie armi e di inventarne di nuove fa sì che i maggiori sforzi che oggi compie l’intelligenza umana siano diretti a creare sempre nuovi e più raffinati strumenti di morte. E’ questa una delle maggiori offese che l’uomo di oggi fa a Dio e a se stesso, perché Dio ha donato l’intelligenza affinché l’essere umano se ne serva per promuovere la vita e non per dare la morte. (cfr, Civiltà Cattolica, quaderno 3713, 2005).

In questo comune impegno per il disarmo (economico, culturale, spirituale, politico) e la pace e insieme per i poveri del mondo, le varie chiese cristiane sembrano ritrovare un loro sano protagonismo. In primo piano non tanto una “verità” – dogmatica o etica – che si contrappone ad altre, ma un volto, quello del povero e della vittima, dovunque si trovi e qualunque sia la sua fede.
Gioverà questo impegno delle chiese a fermare le armi? È difficile dirlo: la strada è tracciata e i riferimenti chiari ma i tempi nei quali le chiese benedicevano bandiere, eserciti e cannoni sono ancora troppo vicini.

* Pax Christi

I conflitti dimenticati

Di Maurizio Simoncelli *

L’azione dell’uomo si è svolta da sempre sugli spazi territoriali del nostro pianeta alla ricerca di condizioni migliori di vita, dapprima inseguendo la selvaggina, poi alla ricerca di aree fertili, sino al possesso e allo sfruttamento delle diverse risorse presenti in tali spazi.
Pertanto, le varie risorse (minerarie, idriche, ecc.) sono divenute motivo di innumerevoli scontri a volte violentissimi, in relazione anche ai progressi tecnologici nel campo degli armamenti (dalla clava alla freccia, dal fucile all’arma nucleare). Spesso le rivendicazioni territoriali da parte di uno Stato ai danni di un altro Stato hanno trovato giustificazione proprio sulla base di altri elementi geografici, come quelli etnico-antropici, quelli della contiguità, il diritto di accesso o di transito sulle vie d’acque (laghi, mari, fiumi, anche attraverso stretti e canali), ed altri ancora.
Infatti, guerre spesso lontane geograficamente, ma strettamente collegate da motivazioni politico-economiche, hanno insanguinato il pianeta Terra.
In tempi relativamente più recenti, la seconda rivoluzione industriale di fine ‘800 ha offerto poi strumenti sempre più distruttivi che il secolo seguente ha ampliamente utilizzato in una serie di guerre che hanno incrinato la tradizionale supremazia mondiale delle potenze europee a vantaggio del nuovo bipolarismo di Mosca e di Washington.
Parallelamente, nel corso del XX secolo anche il concetto di “minaccia” ha subito profonde trasformazioni, passando da un riferimento territoriale ben preciso (i confini nazionali o le aree coloniali, ad esempio) del primo cinquantennio ad una crescente interdipendenza globale che rende ardua una definizione ed una localizzazione esatte degli interessi nazionali nell’epoca odierna.
Le guerre contemporanee, scaturite da tutte queste trasformazioni, evidenziano sempre di più alcune specifiche caratteristiche.

In primo luogo, se nella prima metà del XX secolo esse avevano avuto come protagonisti principali le grandi potenze, soprattutto quelle europee con i loro imperi coloniali, a partire dall’epoca del bipolarismo i conflitti si sono andati concentrando sempre più nelle aree del cosiddetto Terzo Mondo, che peraltro tentava di affrancarsi dal controllo di quegli stati ex-dominatori. E mentre permaneva, anzi s’incrementava comunque una forte dipendenza economica del Sud rispetto al Nord del mondo, in seguito all’implosione dell’URSS anche nell’area dell’ex impero sovietico si sono scatenati conflitti che hanno segnato il territorio del Vecchio Continente (basti pensare alla guerra civile nell’area dell’ex-Jugoslavia). Tra il 1946 e il 2000 sono stati calcolati oltre 150 conflitti, concentrati per lo più in due aree geografiche: l’Africa subsahariana (42 guerre) e l’Estremo Oriente (37), seguite dall’America Latina (24), dal Medio Oriente (20), dall’Europa (16) e dall’Asia meridionale (13). Nei primi anni del XXI secolo permane tale concentrazione di conflitti e di crisi nei territori africani (22) e asiatici (16).
In secondo luogo, analizzando dal secondo dopoguerra ad oggi la tipologia dei conflitti rilevati mediante le due categorie di simmetrici (cioè tra soggetti equivalenti, ad esempio, tra Stati) e asimmetrici (cioè tra soggetti non equivalenti, ossia governi e forze di opposizione, gruppi terroristici, ecc.), si può notare che la maggioranza di essi appartiene proprio alla seconda categoria, quella dei conflitti asimmetrici. E ancora una volta, dal punto di vista della loro localizzazione se ne nota ancora una volta un’elevata concentrazione proprio nei Paesi in via di sviluppo, dove la diversa distribuzione della ricchezza e l’assenza di una base etnico/sociale omogenea (collegata strettamente a confini tracciati in modo del tutto artificioso dalle potenze coloniali) hanno ulteriormente contribuito all’incremento della conflittualità. Anzi, nel corso di questo periodo, sono relativamente rari gli interventi militari diretti delle due superpotenze tesi a mantenere sotto controllo aree di interesse politico e/o economico. Possiamo ricordare le vicende dell’Ungheria (1956), della Cecoslovacchia (1968) e dell’Afghanistan (1978-91) ad opera dell’Unione Sovietica, o quelle del Vietnam (1960-75), di Panama (1989), dell’Iraq (1990-91), dell’Afghanistan (2001-2002) e dell’Iraq (2003) ad opera degli Stati Uniti. Mentre ben più numerosi sono gli interventi indiretti, attuati anche mediante l’assistenza di consiglieri/istruttori (tra i tanti si pensi, ad esempio, a quelli sovietici a Cuba, a quelli statunitensi nella prima fase del conflitto vietnamita o a quelli cubani in Etiopia), mediante la fornitura di materiali bellici, attraverso la costituzione di basi militari, ecc. Infatti, anche nel recente conflitto in Afghanistan contro il governo talebano dopo l’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno cercato per lo più di utilizzare una formula di tal genere, da un lato facendo anche ricorso a bombardamenti aerei e missilistici in misura massiccia, dall’altro sostenendo le forze d’opposizione ed evitando il più possibile un coinvolgimento diretto e imponente delle proprie truppe in prima linea (che comporta costi umani e politici elevati, come dimostra l’attuale situazione irachena).
In terzo luogo, in conseguenza diretta di quanto appena detto, la concentrazione della maggior parte delle guerre proprio nel Terzo Mondo ha causato milioni di vittime. All’interno di queste decine di milioni di vittime, inoltre, si è andata riscontrando una percentuale crescente di vittime civili che ormai tocca mediamente punte del 90% del totale. E tra queste risultano particolarmente colpite le donne, divenute sempre più obiettivo di stupri sistematici sia da parte delle forze cosiddette regolari sia da parte di quelle paramilitari, irregolari o d’opposizione. Tali guerre, a volte del tutto ignote all’opinione pubblica occidentale, hanno causato nella seconda metà del XX secolo più di 23 milioni di morti, per due terzi civili (per lo più donne, vecchi e bambini).
In quarto luogo, come accennato, si può notare che l’informazione rispetto alle aree di crisi e di conflitto in atto nel mondo appare assai limitata. La grande stampa e i maggiori network radiotelevisivi offrono notizie insufficienti e largamente parziali, come dimostra un recente sondaggio dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo. Realizzato su un campione di alcune centinaia di studenti delle scuole medie e superiori di Roma e provincia, tale sondaggio ha messo in evidenza come tali giovani, seppur interessati alle tematiche, mostrino di conoscere appena un decimo dei conflitti e delle crisi in atto nel 2005. Non a caso si parla, infatti, di guerre dimenticate in relazione a conflitti e scontri di cui non si trova alcuna traccia nei grandi circuiti informativi, mentre, con adeguate ricerche, se ne può ottenere in ambiti alternativi (internet, mondo missionario, ong, ecc.).
In quinto luogo, non può essere dimenticato che tali numerose guerre sono combattute con armi prodotte, come testimonia il SIPRI Yearbook 2004, per lo più proprio dalle potenze membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Usa, URSS/Russia, Francia, Gran Bretagna e, ben distanziata, Cina), nonché da altre potenze industriali minori, come Germania, Italia e Ucraina (vedi grafico). Il mercato delle armi per l’80% è da tempo e continua ad essere in mano a pochi produttori, che utilizzano tali forniture sia sul piano meramente commerciale, sia sul piano geopolitico per condizionare direttamente o indirettamente i paesi clienti di tali prodotti.
In sesto luogo non si deve mai dimenticare che molti di questi conflitti sono generati direttamente o indirettamente dalla lotta per il controllo di aree importanti dal punto di vista geopolitico (punti strategici o rilevanti per le risorse in esse presenti). Ad esempio, si stima che le tensioni in atto nell’area caucasica siano da collegare ai giacimenti petroliferi del Mar Caspio, ritenuti quantitativamente superiori agli attuali dell’area del Golfo Persico. Pertanto il possesso del territorio contiguo e del relativo bacino lacustre, la gestione delle risorse e del loro sfruttamento, il controllo delle aree ove passeranno gli oleodotti appaiono di rilievo strategico a medio periodo. Le stesse ipotesi d’installazione degli oleodotti (attraverso l’area balcanica, il territorio curdo, il Mar Nero o collegandosi alla rete iraniano-irachena) stimolano potenti interessi geopolitici divergenti, come testimoniano appunto da un lato la conflittualità cecena e la risposta repressiva russa, dall’altro l’elevato interesse statunitense a stabilizzare con governi amici tale area (con gli interventi in Afghanistan nel 2002 e in Iraq nel 2003).
In settimo luogo, bisogna purtroppo rilevare l’estrema inadeguatezza delle Nazioni Unite a costituire un sistema di compensazione e di controllo politico a livello internazionale. Anzi, le recenti vicende del XXI secolo hanno ancor più messo in evidenza la debolezza di questo organismo, la cui credibilità, già minata da una sua costituzione intrinsecamente debole, è stata brutalmente attaccata proprio da un governo che vuole presentarsi come paladino della democrazia mondiale, cioè gli Stati Uniti.
Il quadro insomma non appare rassicurante e la vecchia politica di potenza degli stati contemporanei non sembra di fatto essere in grado di offrire un’alternativa credibile.

* Storico, membro del Consiglio Direttivo dell’Archivio Disarmo, è docente di Geopolitica dei conflitti al Master Educazione alla Pace: Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea nell’Università degli Studi di Roma Tre. Autore di diversi studi sull’industria militare e sulla politica della sicurezza, ha recentemente pubblicato con Ediesse Guerre senza confini. Geopolitica dei conflitti nell’epoca contemporanea.l’epoca contemporanea (2003) e Hydrowar. Geopolitica dell’acqua tra guerra e cooperazione (2004, coautore)

Minibibliografia
M. Simoncelli: Guerre senza confini. Geopolitica dei conflitti nell’epoca contemporanea, Roma, Ediesse, 2003, p. 155.
M. Rusca – M. Simoncelli: Hydrowar. Geopolitica dell’acqua tra guerra e cooperazione, Roma, Ediesse, 2004, p. 229.
M. Simoncelli (a/c): Le guerre del silenzio. Alla scoperta dei conflitti e delle crisi del XXI secolo, Roma, Ediesse, 2005, p. 424.

Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta 7
LA MITEZZA

Di Peppe Sini *

Alcune forse non inopportune premesse

Ciò su cui di seguito si approssimano alcune interrogative riflessioni richiede altresì alcuni chiarimenti preliminari.
Mitezza e nonviolenza naturalmente non coincidono, si può essere persone amiche della nonviolenza senza essere affatto persone miti (anche tra le più note e fin celebrate, pochissime persone amiche della nonviolenza ed impegnate in lotte nonviolente sono state anche miti, sebbene qui si cercherà di argomentare che solo scegliendo la mitezza si possa essere buoni ed efficaci militanti nonviolenti), e si può naturalmente essere persone miti senza per questo aver nulla a che fare con la nonviolenza.
Non solo: vorremmo mettere in guardia anche rispetto all’espressione “personalità nonviolenta”, che è una formula utile per intendersi e nei suoi limiti felice, ma che a rigore, cioè se interpretata rigidamente, designa qualcosa che semplicemente non esiste.
Inoltre: chi scrive queste righe non crede che esistano persone nonviolente, ma solo persone amiche della nonviolenza: il termine “nonviolento/a” può ben essere – a precise condizioni – un adeguato aggettivo, ma mai un pronome.
Crede anche che la mitezza sia una qualità morale che si apprende e si affina (o si logora) nell’esercizio, e non una essenza metafisica.
Infine: ritiene che il concetto stesso di nonviolenza sia complesso e pluridimensionale e di assai ardua definizione (la riflessione consapevole sulla nonviolenza, quantunque essa sia “antica come le montagne”, è ancora agli inizi ed in impetuoso creativo svolgimento tale per cui ogni persona che ad essa si accosta ed ogni esperienza che ad essa si richiama apporta nuovi originali preziosi contributi teoretici ed empirici, euristici ed applicativi); qui di seguito lo si utilizzerà nel senso specifico proposto da Aldo Capitini, come equivalente sintetico dei due concetti gandhiani di ahimsa e satyagraha, ovvero – per dirla assai rozzamente – come scelta di non nuocere e come legame con il permanentemente vero che fonda e promuove l’azione buona, cioè l’azione che si oppone alla violenza, l’azione che salva, l’azione che libera, l’azione che guarisce, l’azione che accomuna.
Ma ancora una cosa va detta, ed è questa: la nonviolenza è gestione del conflitto: senza lotta non si dà nonviolenza; senza incontro con l’altro non si dà nonviolenza, senza riconoscimento dell’altro non si dà nonviolenza, senza conflitto con l’altro non si dà nonviolenza, senza comunicazione con l’altro non si dà nonviolenza: la nonviolenza è sempre relazionale, contestuale e dialogica a un tempo. Parlare di nonviolenza al di fuori della lotta nonviolenta (che beninteso può anche essere solo – e sempre è comunque anche – lotta interiore) è mera retorica.

Una minima definizione

Proporremmo la seguente definizione, provvisoria e parziale, complessa e dialettica, di mitezza: una qualità morale, ovvero un modo di condursi nelle relazioni con le altre persone e con il mondo, che tiene insieme fermezza nel buono e nel vero e umiltà personale, benevolenza non sorda ma anche non cieca, comprensione e carità ma insieme limpida e intransigente difesa della dignità altrui e propria, amore per la giustizia ed insieme coscienza del limite e della propria ed altrui fallibilità, un onesto ascoltare e ascoltarsi che si traduca in un operare giusto e misericordioso.
Ovvero la mitezza come contrario sia dell’iracondia che dell’accidia, come opposto della presunzione, del pregiudizio e della prepotenza.

Dieci tesi sul rapporto tra mitezza e nonviolenza

Nell’articolare il rapporto tra mitezza e nonviolenza proporremmo quindi le seguenti tesi.
I. Per resistere al male senza lasciarsene contaminare è bene esercitare la virtù della mitezza. Senza mitezza la resistenza è fragile, la violenza invade la persona.
II. Per agire il conflitto senza esserne travolti è bene esercitare la virtù della mitezza. Senza mitezza il conflitto è lacerante, la violenza disgrega la persona.
III. Solo la mitezza sa essere misericordiosa. E un’azione buona e giusta ma senza misericordia è già meno buona e meno giusta.
IV. Solo nella mitezza si può istituire una convivenza tra persone libere ed eguali in dignità e diritti; una società non oppressiva, non autoritaria, non alienante; una comunità che non omologhi o peggio annienti le preziose diversità di cui ogni persona consiste ed è portatrice.
V. La mitezza si fonda sulla coscienza della dimensione tragica della vita. Chi è frivolo, così come chi è cinico, non è adeguato ai compiti dell’ora, non sa essere responsabile, non sa essere solidale.
VI. Non si può essere persone amiche della nonviolenza se non ci si esercita nella virtù della mitezza. Proprio perché la nonviolenza è conflitto, a maggior ragione le persone che nella lotta nonviolenta si impegnano hanno il dovere di scegliere la mitezza. Promuovere il conflitto, resistere all’ingiustizia, contrastare il male, è inane senza mitezza. La mitezza è la virtù principe del combattente satyagrahi.
VII. Virtù relazionale per eccellenza, la mitezza è terapeutica, socializzante, giuriscostituente. La persona mite mitiga le altre persone, disinquina le relazioni, dà sollievo agli attori coinvolti nel conflitto. Ma non solo: la mitezza è altresì virtù politica e può essere finanche principio di organizzazione giuridica.
VIII. La mitezza s’impara, e s’impara passando attraverso le prove del dolore e dello smarrimento. Non si nasce miti, lo si diventa scegliendolo.
IX. “Beati i miti, poiché erediteranno la terra” (Matteo, V, 4): interpreto così: solo la scelta della mitezza può salvare un mondo che va insieme trasformato e conservato, difeso e rovesciato, restituito e redento. Solo la nonviolenza nella sua pienezza (non solo insieme di scelte logiche, epistemologiche, assiologiche, esistenziali; non solo insieme di tecniche ermeneutiche, metodologiche, deliberative, operative; non solo azione e progetto politico e sociale: ma insieme di insiemi) può salvare l’umanità.
X. E’ nel momento della lotta che si prefigura e quindi si decide l’esito di essa. Una lotta contro l’ingiustizia condotta senza mitezza non è una lotta contro l’ingiustizia, poiché ingiustizia riproduce; una lotta per la pace senza mitezza non è una lotta per la pace, poiché pace non costruisce. La mitezza è liberazione dall’oppressione. La nonviolenza è solo in cammino.

Due amici

Quando penso alla mitezza subito mi vengono in mente Primo Levi ed Alexander Langer.
Due persone che resistevano, due persone che non opprimevano. Due persone gentili e magnanime.
Due persone che conoscevano la tragedia, ma che la tragedia non aveva reso feroci bensì ancor più benevole, limpide, rigorose, essenziali.
Quando penso all’umanità come dovrebbe essere subito mi vengono in mente Primo Levi ed Alexander Langer.
La fragilità delle persone e del mondo: e tu abbine cura.
La resistenza che è da opporre al male: e tu resisti.

Per approfondire

Innanzitutto il dialogo sulla mitezza tra Norberto Bobbio e Giuliano Pontara, dialogo che si puo’ leggere in Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994, alle pp. 11-51; e naturalmente cfr. anche Giuliano Pontara, La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, particolarmente alle pp. 61-63.
Di Primo Levi occorrerebbe leggere tutto (nell’edizione delle Opere, Einaudi, Torino 1997, in due volumi), ma almeno Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati.
Di Alexander Langer l’antologia degli scritti più ampia e rappresentativa è Il viaggiatore leggero, Sellerio, Palermo 1996.
Come è noto, nelle grandi tradizioni culturali indiane e cinesi, ma anche nelle grandi tradizioni culturali occidentali – sia quelle religiose in senso stretto: l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam; sia quelle più late: la grecità, l’umanesimo, la laicità, il pensiero delle donne – vi sono molti fulgidi esempi sia di figure e di condotte miti, sia di riflessioni sulla mitezza dense e complesse.
Volendo proporre qualche testo e figura esemplare: il discorso della montagna in Luca e Matteo, le figure di Averroè, Francesco d’Assisi, Thomas More, Etty Hillesum.
E volendo ricordare qualche persona che vi ha riflettuto con lucidità e pietà grandi: Simone Weil e Hannah Arendt, Aldo Capitini ed Emmanuel Lévinas.
Somme figure di resistenti miti sono emerse nella lotta contro il totalitarismo e nella resistenza contro il sistema concentrazionario. Ricordano donne e uomini che seppero difendere l’umanità di fronte all’estremo due fondamentali libri di Tzvetan Todorov: Face à l’extrême, Seuil, Paris 1991, 1994 (seconda edizione rivista), e Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001.
Sul versante giuridico cfr. almeno Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (da leggere nell’edizione curata da Franco Venturi, Einaudi, Torino 1965, 1994), e Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992; ma soprattutto l’esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana.
Sulle lacerazioni, i drammi e gli scacchi della mitezza hanno scritto pagine terribili e magnifiche Dostoevskij e Tolstoj.

* Direttore responsabile del foglio quotidiano di approfondimento “La nonviolenza è in cammino” proposto dal “Centro di ricerca per la pace” di Viterbo.
nbawac@tin.it

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

Una storia al femminile per abbattere i confini

LA SPOSA SIRIANA
Francia, Germania, Israele – 2004
Regia: Eran Riklis
Interpreti: Hiam Abbass
Makram J. Khoury
Clara Khoury

Un confine, in fondo, non è che una linea convenzionale (il più delle volte anche geograficamente inesistente) che separa due entità definite (quasi) altrettanto convenzionalmente.
Se in alcuni casi tali linee sono politicamente, culturalmente ed economicamente accettate e riconosciute, tanto da divenire pacificamente permeabili a persone, idee, risorse, in molti altri casi – e sono sempre più in aumento – tali delimitazioni diventano barriere anche fisiche che, non solo impediscono il contatto tra gli abitanti delle due sponde, ma tendono a renderli “irriconoscibili” agli altri, senza diritto all’esistenza se non in quel delimitato luogo. Altrove diventano non-persone.
Il caso delle alture del Golan, siriane sotto occupazione Israeliana dal 1967, è uno di questi. E questo scenario è lo sfondo (ma molto più che lo sfondo) dove è ambientato «La sposa siriana» un piccolo-grande film, presentato allo scorso festival del cinema di Locarno, uscito nelle sale il 1° luglio, purtroppo in un periodo di fine stagione cinematografica, assolutamente inadatto a valorizzarlo quanto merita. Altra scelta che ha potuto allontanare il grande pubblico è quella di mantenere la pellicola in “lingua originale” (quale? Le lingue parlate sono almeno quattro) con sottotitoli. Ma in questo caso la scelta è giusta e in qualche modo obbligata vista la complessità della vicenda e dello scenario in cui si svolge.
La storia narra i preparativi per il matrimonio tra Mona, nata e residente in un villaggio druso del Golan, per questo “apolide” sui documenti, e Tallel, star della TV siriana, residente a Damasco. Tutta la famiglia di Mona dispersa tra il villaggio d’origine, l’Italia e la Russia, si ritrova quindi per accompagnare la sposa nella “Terra di nessuno” dove avverranno le nozze…
Anche questo (come “Private”, “Camminando sull’acqua”, “Tutto il bene del mondo”, già presentati sulle pagine di Azione Nonviolenta, o come “Free Zone”, l’ultimo lavoro di Gitai) è un film che, per condurci in una vicenda enorme dal punto di vista politico e storico, non sceglie i toni retorici e appariscenti del dramma epico, ma ci guida attraverso le umanissime, quotidiane (in altri contesti diremmo banali) vicende di una famiglia. Un matrimonio programmato, una moglie che vuole per sé e per le figlie una vita diversa, un fratello “pecora nera”, intrallazzatore e sciupafemmine, le convenzioni sociali di una realtà pastorale e patriarcale lontana mille miglia dalle evoluzioni frenetiche del mondo attuale.
E, per insistere ancora di più sul punto di vista “altro”, il film è un film profondamente femminile, molto più di quanto il titolo lasci intendere.
È femminile perché le donne sono le vere menti pensanti, cuori pulsanti e corpi agenti di tutta la narrazione. Sono le uniche capaci di accogliere e farsi accogliere, lavorare per migliorarsi, risolvere i problemi (anche la frustrata e frustrante funzionaria della Croce Rossa) e abbattere – in maniera assordantemente silenziosa – i muri e i confini.
È cinematograficamente femminile perché i ruoli da protagonista sono femminili; tra tutti la (vera) protagonista Hiam Abbas, attrice palestinese di una espressività dura e dolente che ricorda Irene Papas o la pasoliniana Medea di Maria Callas.
Gli uomini (maschi) sono invece coloro che i confini li creano. Confini non solo politici e militari, ma anche (e forse soprattutto), sociali, familiari, affettivi. Non sono capaci di vedere oltre i propri limiti/confini, oltre la propria assolutizzazione della realtà fatta di Dio, Patria e Famiglia. Di sofferenza “eroica” ma in fondo sterile, di autorità affermata ma non riconosciuta, di continue frustrazioni perché il mondo non è conforme alla propria visione. E l’unica forma di “resistenza” a questa difformità è l’esclusione: dei figli dalla famiglia, della famiglia dalla comunità, della comunità dalla nazione.
Le donne invece, che sembrano sempre obbligate a piegarsi, sono quelle che poi, nei fatti, quelle stesse barriere di esclusione combattono e nelle quali cercano almeno di creare dei varchi di comunicazione e scambio. Non c’è umiliazione che possa far perdere di dignità a donne siffatte, a donne che si battono per cambiare i loro uomini, anche senza che questi quasi se ne rendano conto, oppure facendo credere che siano sempre loro a decidere.
Eppure… eppure anche loro devono arrivare a gesti di rottura; di abbattimento “fisico” dei maledetti confini. Solo senza essere condizionati e “costretti” da essi si può trovare «un posto al mondo così grande che possa contenere il mio dolore».

Giuseppe Borroni
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Fondi pensione ed equità sociale

Si avvicina la data entro la quale i dipendenti italiani dovranno decidere se mantenere la gestione del proprio TFR (l’importo accantonato mensilmente per assicurare la liquidazione al termine della propria attività lavorativa) così com’è, o in alternativa affidarlo ad un fondo pensione gestito dalla propria azienda, da un sindacato o da una compagnia di assicurazioni.
L’opinione pubblica non fatica ad immaginare l’intero comparto assicurativo volteggiare come un rapace sulla montagna di soldi che potrebbe capitargli nelle tasche. Ma quali sono le compagnie assicurative più grandi del mondo? Sicuramente, a questa domanda molti volgerebbero lo sguardo ad ovest, verso oltreoceano, dove risiedono i più grandi gruppi finanziari. Pochi però probabilmente indicherebbero la General Motors, famosa azienda automobilistica, tra queste.
Come spesso accade in campo economico, per avere risposte riguardo l’adozione di sistemi finanziari liberisti in luogo del welfare nostrano, basta guardare cosa accade nel continente americano, dove solitamente tali piani sono già operanti da svariati anni. Ed in questo caso si scoprirebbe che l’azienda di Detroit, alle prese con un pesante programma di licenziamenti per sopperire ad una crisi di vendite, è ormai sempre meno un’azienda automobilistica e sempre più un’azienda finanziaria ed assicurativa.
Nel 2004 GM ha chiuso il bilancio con quasi 3,7 miliardi di utile, due terzi dei quali generati dalle attività finanziarie del gruppo. Tra queste troviamo gli impegni per i costi pensionistici e sanitari di impiegati e pensionati, che hanno ormai raggiunto la ragguardevole cifra di 1,1 milioni di persone (il 70% pensionati). L’esborso medio negli anni 2001-2002 è stato di 7,6 miliardi di dollari, sceso nel 2004 a 5,6 miliardi grazie al dimagrimento di personale messo in atto; in pratica, ogni auto venduta incorpora nel prezzo circa 1.400 dollari aggiuntivi che servono per pagare il “welfare” a chi l’ha costruita.
Nel bilancio 2002 il deficit patrimoniale dei fondi previdenziali e medici GM ammontava a ben 77 miliardi di dollari, cioè a quattro volte la sua capitalizzazione di Borsa, e nel giugno 2003 la società ha deciso una emissione di obbligazioni pari a 13 miliardi di dollari per coprire parzialmente il buco di bilancio. I debiti contratti negli anni precedenti per sostenere lo sviluppo del settore automobilistico (circa 100 miliardi di dollari) stanno lentamente lasciando il posto a quelli contratti per garantire le coperture sociali dei dipendenti, usando (guarda caso) lo stesso strumento finanziario usato in questi casi dagli stati nazionali, cioè obbligazioni simili a BOT, BPT e CCT. Non più quindi pericolose azioni quotate nella rischiosissima borsa, bensì “bond” che in caso di fallimento dell’azienda riversano le perdite sugli ignari risparmiatori che li hanno acquistati (vedi caso Parmalat).
Un economista spiritoso ha detto che in pratica le aziende automobilistiche americane sono dei sistemi di sicurezza sociale che si finanziano con la produzione di autovetture. Probabilmente, se c’è un errore nella valutazione, è solo perché ha dimenticato di aggiungere le compagnie aeree: quest’anno il fondo pensioni della United Airlines (UAL) ha ottenuto il fallimento dal tribunale, ed il destino di quelli di Delta, American Airlines, Continental e Northwest potrebbe essere simile: un giudice ha accettato la tesi della UAL secondo la quale lasciare il fondo pensioni, con una contabilità separata ma integrato nei bilanci societari, al suo destino era la via da seguire per consentire alla società di sopravvivere sul mercato.
Paradossalmente i 120 mila operatori di volo hanno tirato un sospiro di sollievo, perché il fallimento significa tornare nelle braccia protettive dello Stato americano: subentra infatti per legge il Pension Benefit Guaranty Corp (PBGC), organismo parapubblico simile al nostro INPS creato proprio allo scopo di sobbarcarsi gli impegni dei fondi pensione in difficoltà o appartenenti a ditte in grave crisi. Il PBGC è una sorta di ciambella di salvataggio, assicurazione finanziata con i premi delle aziende iscritte. Premi bassi, inadeguati, che hanno già portato a ben 23 miliardi di dollari il suo deficit 2003 e che secondo previsioni attendibili è destinato a triplicare nei prossimi dieci anni. Solo il default della UAL ha scaricato sulla PBGC costi per 6,6 miliardi, ed il milione di cittadini che beneficiano delle sue coperture assicurative cominciano a tremare.
Morale? Non esiste bacchetta magica nel mondo del welfare: inutile sperare che un privato riesca a gestire meglio del pubblico le pensioni e la sanità, perché non è investendo in obbligazioni o, peggio ancora, in azioni, che si garantisce una serena vecchiaia ai propri iscritti.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Musiche, lingue, culture diverse riunite in un unico grande coro

Henry Pousseur, nato a Malmédy in Belgio nel 1929 è considerato uno dei più rappresentativi compositori del secondo dopoguerra, assieme a Boulez, Stockhausen e Berio. Seguace di Webern, dal 1950 ha fatto parte del movimento delle avanguardie dal quale sono nate le più interessanti esperienze di musica dodecafonica, seriale, elettronica, aleatoria. Nel 1960 ha assunto una posizione indipendente, rifiutando di fare “tabula rasa” sulle esperienze musicali del passato e sforzandosi di oltrepassare la distinzione tra antico e moderno, colto e popolare.
Ha insegnato in Germania, Svizzera e Usa. Dal 1975 è stato Direttore del Conservatorio di Liegi e dal 1983 al 1987 ha diretto l’Istituto di Pedagogia Musicale di Parigi che poi è confluito nella “Cité de la Musique” punto di incontro e scambio fra gli studenti dell’Università e del Conservatorio. Da queste due istituzioni ha preso congedo nel 1994 e oggi con la moglie vive a Waterloo, vicino ai quattro figli. Ha all’attivo oltre 150 opere di ogni dimensione, funzione e organico. Fra queste, “La rose des voix” del 1982, scritta in collaborazione con il librettista Michel Butor, propone un messaggio di pace che mette in rapporto musica antica e contemporanea, popolare e colta, extraeuropea ed occidentale, facendole dialogare nel modo più rispettoso possibile senza nascondere od omologare differenze e aspetti conflittuali che ciascuna può presentare.

“Europacantata” è un raduno di corali amatoriali di ottimo livello provenienti da tutto il mondo che si tiene ogni tre anni. Nel 1982 la sede ospitante è stata in Belgio a Namur e Pousseur ha avuto l’incarico di scrivere un’opera di grandi dimensioni da eseguire prima a Namur e poi a Liegi, che potesse impegnare i 3000 coristi riuniti prima in gruppi di lavoro.
“Ho tentato di rappresentare la confluenza dei popoli provenienti da tutte le parti del mondo, con la loro musica, la loro lingua, la loro cultura. E’ chiaro – racconta l’autore – che ero incapace e i cori in questione erano incapaci di portare veramente le musiche tradizionali autentiche delle loro culture, perché le hanno dimenticate. Sono tutte corali di tipo occidentale, dunque con una pratica musicale che è la conseguenza della colonizzazione occidentale del pianeta. Ho cercato di raffigurarle col concorso di certi particolari musicisti”. Quattro cori rappresentano i punti cardinali, 4 solisti e 4 voci recitanti sono in collegamento con ciascun punto cardinale. Canzoni popolari o pseudo-popolari in tutte le lingue si presentano e a poco a poco si mescolano, arrivando poi a formare una sola grande canzone comune conclusiva. Il tutto è legato da un recitativo composto da variazioni sull’inizio del libro biblico di Ezechiele: il profeta vede 4 personaggi straordinari, i cherubini, che danno 4 avvisi e vanno in 4 direzioni. Musicisti con grande esperienza di jazz e di improvvisazione moderna, avendo avuto in precedenza gli spartiti delle canzoni eseguite dai cori, dopo ogni strofa di canzone introducono una piccola cadenza improvvisata e, quando le canzoni si mescolano, suonano brani sempre più lunghi; dopo la strofa conclusiva c’è un’improvvisazione collettiva di circa due minuti. “Il ruolo di questi musicisti – dice ancora Pousseur – è importantissimo perché i coristi si sforzano di evocare le musiche dei differenti popoli, ma non arrivano sempre a pronunciare correttamente la lingua e poi, soprattutto, i cantori non riescono a trovare il modo di emissione vocale proprio delle musiche tradizionali, che è straordinario. Gli strumentisti, con la loro esperienza jazz, reintroducono un elemento di vigore, un carattere primitivo, aggiungono la linfa, l’elemento perduto, aggiustano l’edulcorazione, la falsa pacificazione che la musica occidentale ha messo su quella musica”.

Lo spartito de “La rose des voix” è reperibile nel catalogo: suvini.zerboni@sugarmusic.com

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di rienzo

L’occupazione di massa degli impianti petroliferi in Nigeria

Il 16 luglio 2002, protestando per l’impoverimento della loro gente causato dalle compagnie petrolifere Chevron Texaco e Shell, migliaia di donne hanno pacificamente invaso, disarmate, le installazioni delle compagnie stesse. Chiedevano migliori condizioni di lavoro, concessione di mutui, scuole e ospedali per le loro comunità (Ugborodo e Arutan). L’azione nonviolenta di massa è iniziata con una singola dimostrazione di circa 150 donne proveniente dai villaggi dislocati attorno agli impianti di estrazione della Chevron Texaco ed è terminata con oltre 3.000 donne nell’occupazione degli impianti. Le donne hanno occupato 5 installazioni per undici giorni (le compagnie hanno confermato solo quattro occupazioni): Abiteye, Makaraba/Otunana, Dibi, Olero Creek, Escravos. Le pacifiche dimostranti venivano dal Delta del Niger, ricco di petrolio, una zona dove uomini armati usano di frequente il rapimento e il sabotaggio per esercitare pressione sulle compagnie allo scopo di ottenere lavoro, denaro o compensazione per i danni ambientali. Generalmente, gli ostaggi vengono rilasciati illesi.
Josephine Ogoba, 48enne e madre di quattro figli, una delle portavoce, dichiarò all’inizio dell’occupazione: “Stiamo protestando pacificamente, abbiamo con noi solo le nostre voci. Stiamo occupando questo impianto perché siamo arrabbiate, e siamo arrabbiate perché dal 1970, quando la compagnia petrolifera venne qui, noi abbiamo visto l’inquinamento dei fiumi e dei torrenti, la distruzione di foreste e mangrovie, l’incendiarsi dei gas. Abbiamo presentato per anni le nostre proteste e richieste, ma la Chevron è rimasta sorda. Il fiume del mio villaggio è attraversato ogni due ore da una loro nave a motore, e noi non abbiamo un ospedale, non abbiamo acqua pulita da bere, non abbiamo strade, ne’ elettricità. Qui con me ci sono donne sposate, donne nubili e bambine. Tutte stiamo protestando. Nessuno ci ha mobilitate affinché facessimo quel che stiamo facendo. Resteremo qui notte e giorno, perché ci vengono negati i diritti al lavoro e all’avere un ambiente sano. Resteremo qui finché la Chevron non risponderà alle nostre domande.”
Il tentativo delle compagnie petrolifere di risolvere le occupazioni con uno sgombero violento causò il ferimento di circa 800 donne (per quindici si temette perdessero la vita), ma le dimostranti non risposero in modo violento, ne’ abbandonarono l’azione, costringendo infine le compagnie a sedersi ad un tavolo con loro e a discutere le loro richieste. 25 villaggi hanno in questo modo ottenuto i finanziamenti richiesti.
Come parte della protesta, le donne minacciarono di spogliarsi sino a restare nude, in un gesto tradizionale che usano per svergognare gli uomini quando non raggiungono con essi una mediazione soddisfacente. Molte tribù nigeriane considerano il mostrarsi nude di mogli, madri e nonne come una protesta che procura dannazione e vergogna a coloro ai quali è diretta; ad ogni modo le donne non ebbero bisogno di attuare tale misura dimostrativa, perché le compagnie cedettero molto prima.
“Abbiamo fatto la storia., ha commentato al termine dell’azione nonviolenta di massa Esther Tolar, un’altra delle portavoce delle dimostranti, La nostra cultura è una società patriarcale. Per le donne, uscire in questo modo e ottenere ciò che abbiamo ottenuto è straordinario.”
E’ interessante notare l’intreccio fra la tecnica di progressione (l’azione diretta di massa come culmine di una campagna di proteste, petizioni, richieste) e la specificità culturale: le donne nigeriane hanno rifiutato sin dall’inizio il modulo usale di agire il conflitto (violenza di risposta) ed hanno però preso dalla propria tradizione un gesto simbolico di grande potenza evocativa: se non volete parlare con noi, vi mostreremo la nuda verità dei nostri corpi, affinché possiate ricordare da dove venite e riconoscerci come esseri umani.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Uno sguardo libero e consapevole per sospendere il giudizio

Ludovica Scarpa, Strumenti mentali, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2004

Come si legge nella presentazione del libro, in quarta di copertina, questo testo si presenta con due anime: una teorica, che illustra , in una sintesi chiara e convincente, i contributi di alcuni degli approcci che stanno a fondamento delle più recenti teorie cognitive, dalla scuola sistemica al costruttivismo, messi a confronto con i principi di alcune filosofie orientali, in particolare il buddismo, l’altra pratica, una sorta di “manuale“ della comunicazione consapevole ed efficace.
L’autrice, che insegna Teoria e Tecniche di Comunicazione e Trattativa presso l’Università IUAV di Venezia, dove è anche ricercatrice di storia dell’architettura, parte dall’assunto, che si ricollega ad una lunga tradizione filosofica, dai presocratici a Hume, Kant e Schopenhauer (e in Oriente al buddismo ) secondo il quale l’esperienza che abbiamo della realtà è riconducibile ad un processo cognitivo originato dal nostro sistema mentale; è fondamentale renderci conto di ciò e imparare ad usare questo “potere” per vivere bene.
Ripercorrendo gli assiomi della comunicazione di P.Watzlawick, J.Beavin e Don D. Jackson ne mette in luce aspetti e conseguenze fondamentali . Se è vero che “non si può non comunicare” quando si è in presenza di un altro essere umano e se il significato che si dà a ciò che si comunica o si riceve è quello prodotto dalla nostra mente, come essere certi che il significato che noi diamo a parole e cose nella nostra mente e a partire dalle nostre conoscenze ed esperienze sia il medesimo dato da altri?
E se ogni comunicazione è una trattativa nascosta in cui si esprimono contenuti relazionali di accettazione o di avversione, come far sì che la comunicazione sostenga lo sviluppo di una corretta identità personale, dell’autostima e della fiducia e non generi invece effetti di decostruzione e di disintegrazione? Il libro è costruito sulla riflessione intorno a domande come queste, cui si cerca di dare risposte anche in termini operativi.

Il relativismo radicale di Nelson Godman, l’approccio sistemico e il costruttivismo cognitivo ci permettono di affermare che siamo in grado di vedere il mondo così come ci appare solo tramite i nostri organi di senso e il nostro sistema mentale. “I nostri filtri mentali, fatti di condizionamenti culturali, abitudini, esperienze precedenti, paure, aspettative, conoscenze, credenze e altro ci fanno costruire, nell’osservarlo, il mondo in cui viviamo, facendoci vedere e sentire di volta in volta ciò che cerchiamo, ciò di cui abbiamo paura, ciò che ci aspettiamo – mai comunque una realtà in sé “vera”, indipendente dai nostri concetti, nella sua complessità e interezza” (pag. 45)
Paul Watzlawick ha chiamato realtà di primo ordine la realtà osservabile e misurabile (es. “la bottiglia contiene mezzo litro di vino”) e realtà di secondo ordine quella che dipende dall’osservazione dell’osservatore (es. “la bottiglia è mezza piena, o mezza vuota”), cioè dal come egli la vede, dal suo quadro di riferimento, dal confronto tra quanto percepisce ora e le sue passate esperienze ecc.. E’ il nostro assegnare un senso, un valore, un significato a quanto percepiamo che crea la realtà di secondo ordine, realtà che siamo noi a costruire, anche se diamo per scontato il fatto che sia così come noi la interpretiamo (“L’osservatore non vede ciò che non vede”).
Accorgersi dei propri giudizi cognitivi o vivere automaticamente prigionieri della nostra realtà di secondo ordine è la differenza fondamentale tra il vivere consapevolmente o l’essere in balia degli automatismi della coscienza.
Non si tratta di non dare significati e valori alle cose (il che sarebbe impossibile), ma di accorgersi di darli, e in certe occasioni “sospendere il giudizio”, ad esempio nei conflitti, o quando non ci sono chiari i quadri di riferimento dell’altro, come può accadere nella comunicazione interculturale.
E’ quello che si può chiamare lo “sguardo etnografico” della mente, lo sguardo libero e consapevole che si ottiene quando si riesce a sospendere il giudizio e l’interpretazione che diamo automaticamente alle cose.
E’ evidente che questa impostazione comporta alcune importanti conseguenze, molto significative e feconde in una prospettiva di nonviolenza nelle relazioni:
se è la nostra mente che costruisce il mondo che percepiamo, ciò ci porta a relativizzare la validità e ad assumerci la responsabilità delle nostre osservazioni del mondo (con maggiore apertura verso l’altro e minore rischio di “violenza delle certezze”, si potrebbe dire);
se siamo consapevoli che ogni comunicazione implica l’incontro di mondi diversi, nati dalle diverse costruzioni della realtà, è inutile discutere nell’intento di “avere ragione”, perché è illusorio pensare che la proprio visione del mondo sia quella “giusta” (v. Patfoort, per la quale credere di “avere ragione” non fa che creare una relazione M-m);
se “sospendiamo il giudizio” e permettiamo agli altri di essere come sono non ci potremo più arrabbiare. Ogni arrabbiatura infatti ha a che fare con il giudicare qualcosa come negativo o pericoloso o offensivo per noi, ogni arrabbiatura nasconde un altro sentimento, per non farcelo sentire: dispiacere, dolore, delusione, tristezza. E’più importante riconoscere il sentimento che sta sotto la rabbia che arrabbiarsi….
Siamo spesso ciechi alla prospettiva dell’altro. Imparare a sospendere il giudizio ci dà la possibilità di vedere le cose come se le vedessimo per la prima volta, senza gli occhiali dei nostri filtri di valorizzazione e svalorizzazione, significa aumentare la nostra tolleranza verso l’ambiguità e ci rende liberi dal filtro dei nostri bisogni attraverso cui percepiamo solitamente gli altri.

Ma, d’altra parte, una simile prospettiva apre anche una serie di questioni di fondo che andrebbero approfondite e che mi limito qui a suggerire attraverso alcune domande:
se ognuno “dal proprio punto di vista” ha sempre ragione, come agire nelle situazioni in cui, ad esempio, siano violati dei diritti umani fondamentali perché non sono percepiti dall’altro come tali? (il caso “classico” che di solito si porta come esempio è quello delle mutilazioni genitali femminili praticate in certi ambiti del mondo islamico), oppure perché una parte intende imporre con violenza i propri interessi? Riconosciamo o no l’esistenza di “ragioni” sovra-individuali, universali, come ad esempio i bisogni umani che a livello giuridico sono tradotti in termini di diritti umani e come tali sono riconosciuti e protetti (o almeno dovrebbero esserlo…) da istituzioni internazionali come le Nazioni Unite? E , su questa base, l’esistenza in un conflitto di “obiettivi legittimi e illegittimi”, come li definirebbe Galtung, perseguiti dalle parti?
Se non possiamo essere certi di nulla ma non possiamo nemmeno vivere senza delle convinzioni profonde che orientino il nostro agire, perché non riconoscere che a fondamento di ogni prospettiva c’è una “fede”, laica o religiosa che sia, ma pur sempre una fede, alimentata da una tensione, una credenza, un ideale “indimostrabile”, anche con i mezzi della ragione e della scienza ?
Se ognuno di noi vive su una specie di pianeta personale, con una sua storia, cultura, suoi modi di interpretare il mondo, seppur dentro un contesto comune e nell’ambito di convenzioni linguistiche e socio-culturali che lo strutturano e lo influenzano, come entrare in contatto tra esseri umani diversi, se non presupponendo canali universalistici come il comune funzionamento della mente (una estensione delle categorie kantiane…) o canali “altri” come quelli empatici?

In tale direzione la comunicazione stessa, se attenta e consapevole, potrebbe essere uno dei veicoli per mettere in relazione questi diversi pianeti (personali e collettivi), attraverso l’uso di simboli convenzionalmente condivisi come il linguaggio…
Comunicare in modo consapevole non significa quindi imparare particolari metodi o trucchi per convincere gli altri, ma allenarsi ad osservare le preferenze e le avversioni, i movimenti e i giudizi della propria mente. In tal modo si sviluppa una elasticità mentale che favorisce interazioni efficaci con gli altri perché autentiche e in consonanza con i propri reali interessi.
Nell’ambito della neurolinguistica, nata una trentina di anni fa come applicazione pratica della System Teorie di Nicklas Luhmann e del costruttivismo cognitivo di Bateson e Watzlawick, ci sono stati contributi e sviluppi originali. Tra questi , l’elaborazione di alcuni strumenti mentali, come il quadrato della comunicazione o il team interno di Schulz von Thun, che rendono la meta-comunicazione facilmente praticabile nella vita quotidiana.
Usare questi strumenti, soprattutto in situazioni di conflitto, può essere utile, perché ci liberano dall’essere “ipnotizzati” dalla nostra realtà di secondo ordine e dal proiettare sugli altri temi che sono importanti per noi. “La pace si fa dopo essersi compresi con le parti interne di sé e con i nostri interlocutori esterni, e per comprendersi ci si deve ascoltare e accettare”.
Il quadrato della comunicazione e il team interno sono alcuni degli strumenti utilizzati nella seconda parte del volume, per proporre esercizi e attività di lavoro.
Per quanto, a mio parere, la parte più preziosa del testo sia la prima, quella teorica, anche in queste pagine più “manualistiche” si possono trovare spunti interessanti, magari da integrare con altri e da adattare al contesto, per un proficuo lavoro di formazione.

Se vuoi la pace, finanzia la pace!

Una delle ultime volontà di Aldo Capitini fu quella di assicurare continuità all’esistenza del Movimento Nonviolento. Per questo si impegnò, con alcuni amici, a garantire uno specifico fondo finalizzato al sostegno economico dell’indispensabile lavoro di segreteria. Oggi, l’aumentata e considerevole mole di lavoro per la gestione della Segreteria del Movimento, per la rivista e la gestione della Casa per la Nonviolenza, richiede la presenza quotidiana di almeno una persona, alla quale si è ritenuto opportuno offrire un rimborso spese. E’ uno sforzo economico che deve essere sostenuto seguendo l’esempio dato da Capitini già nel 1964.
Quest’anno si sono finora impegnati (fino al 30 giugno, raggiungendo la cifra totale di € 3.857,00):

Sostenitori Segreteria MN 2005

Ass. Naz. Amici di Aldo Capitini, Perugia; Baleani Marco, Gubbio; Bergamaschi Andrea, Viadana (Mn); Bergamaschi Paolo, Viadana (Mn); Boreggi Claudio, Roma; Buccoliero Elena, Ferrara; Cabiddu Agata, Cagliari; Capitini Luciano (Pesaro); Cofler Marino, Besenello (Tn); Corticelli Maurizio, Verona; Cortinovis Silvana, Chiuduno (Bg); Favati Gabriella, Pisa; Frosi Andrea e Marta, Pianiga (Ve); Gadaleta Gino, Ruvo di Puglia (Ba); Garziera Maria Giovanna, Padova; Girardi Enrico, Verona; Greco Laura e Claudia, Torino; Leoni Roberto, Bergamo; Lerda Costanza, Boves (Cn); Lugli Daniele, Ferrara; Manna Igor, Dovera (Cr); Montani Francesca e Bernardo, Torino; Niccolini Franca, Torino; Perna Franco, Padenghe sul Garda (Bs); Pilati Massimiliano, Martignano (Cn); Pinna Pietro, Firenze; Pompeo Rocco Livorno; Ramazzotti Remo, Macerata; Stella Italo, Clusone (Bg); Tebaldini Eva, Verona; Tomba Luigi, Vicenza; Riva Carlo, Cavagnolo (To); Viliani Maurizio, San Vincenzo (Li); Vivarelli Gilberto, Maresca (Pt).

Chiediamo che altri amici si uniscano, per assicurare che si riesca a raccogliere almeno la cifra di 500 euro mensili fino al 31.12.2005.
E’ possibile versare i contributi sul c/c postale n. 10250363 intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona; oppure con bonifico bancario intestato a Movimento Nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, Banca Unicredit, Verona, Agenzia di Borgo Trento, ABI 2008, CAB 11718, c/c 4639457. Nella causale specificare “Rimborso per Segreteria” oppure “Iscrizione al MN”

Grazie!

Un resoconto dalla Biblioteca gandhiana

Due parole dall’India per dirvi che all’Istituto per la rivoluzione totale di Narayan Desai, grazie ai contributi offerti da tutti voi, è stato avviato il lavoro di restauro e riorganizzazione della preziosa biblioteca di cui ha parlato Alberto L’Abate nel numero di Azione nonviolenta di Marzo 2005, a pagina 27.
La raccolta ha portato ad un totale di 1561,00 euro e ringraziamo tutti quanti vi abbiano partecipato.
Maggiori informazioni potete richiederle a me, inviata speciale in india, da vari anni.

Alessandra L’Abate

Alessandra L’Abate
Post box 5 – Gandhigram 624 302
Dindigul district – Tamilnadu
chandraweaver@rediffmail.com
alelab12@rediffmail.com

Sostenitori Biblioteca gandhiana, tramite Azione nonviolenta

Belloni Attilio, Pavia; Bovassi Sandro, Paderno Dugnano (Mi); Kerschbaumer Maria, Bolzano; Poli Stefano, Verona.

Totale € 725,00

ASSEMBLEA NAZIONALE
DEL MOVIMENTO INTERNAZIONALE DELLA RICONCILIAZIONE

Si è svolta dal 6 al 10 luglio a Chateau Beaulard l’annuale assemblea nazionale del M.I.R.
Quest’anno l’assemblea vera e propria è stata preceduta da due mezze giornate a carattere seminariale per un approfondimento del tema “la nonviolenza evangelica” dando molto spazio anche a quelle motivazioni o episodi che hanno portato molti di noi ad avvicinarsi alla nonviolenza e ad entrare a far parte di quella grande famiglia che sono i “nonviolenti”. Si è anche discusso molto del rapporto fra religioni, violenza e nonviolenza, ponendo così le basi per indire nei prossimi mesi un convegno nazionale proprio sul tema “Religioni, violenza e nonviolenza”.

Dopo le giornate a carattere seminariale l’assemblea ha affrontato e discusso quelli che sono gli altri impegni che il MIR svolge sul piano nazionale e internazionale. Ricordiamo che sul piano internazionale il M.I.R. è consulente permanente dell’UNESCO ed è attivo nel proporre e concretizzare progetti che riguardano soprattutto il rispetto dei diritti umani, il MIR italiano sarà impegnato nel prossimo anno ha organizzare un incontro europeo dei rappresentanti delle varie sezioni nazionali sparse in Europa.

Sostegno alle comunità di pace in Colombia. Il MIR fa parte della rete di sostegno e di solidarietà alle comunità di pace in Colombia. Le comunità di pace sono alcune entità territoriali colombiane che rifiutandosi di cedere ai ricatti sia della guerriglia che dell’esercito regolare, spesso affiancato dai cosiddetti squadroni della morte, si sono autodichiarate “comunità di pace” e riescono a resistere in modo nonviolento ai soprusi autorità governative grazie anche alla presenza costante di volontari stranieri, anche italiani, che vigilano e accompagnano le persone impegnate politicamente e sindacalmente che sono quelle che spesso vengono fatte “scomparire”. La rete di solidarietà alle comunità di pace colombiane comprende associazioni, singoli e vari comuni italiani che si sono impegnati a sostenere questa esperienza.

Decennio della nonviolenza. Questa iniziativa lanciata a livello internazionale nel 2001 da vari premi nobel e fatta propria dall’ONU per un decennio di pace 2001-2010 è stata disattesa dalle grandi nazioni che di fatto dominano il mondo.
In Italia grazie al MIR è nato un comitato che ha lavorato per la promozione dell’educazione alla nonviolenza e alla pace. Quest’anno su questa iniziativa in cui sono coinvolti comuni, scuole e associazioni si svolgerà un convegno nella città di Sanremo.

Altri impegni in cui il MIR è coinvolto sono: la campagna MAN (Movimento per una Alternativa Nonviolenta) che punta a impegnare l’Europa nella costituzione di una forza civile di pace europea che possa intervenire nel conflitto fra israeliani e palestinesi per un sostegno alle associazioni che lavorano per la pace e portare a ricercare soluzioni nonviolente in alternativa a tutti i fallimenti delle opzioni militari.
In ultimo ricordiamo l’impegno nella Rete Lilliput e nella organizzazione dei Campi Estivi.

L’assemblea nazionale ha poi eletto:
Paolo Candelari – presidente del MIR
Luciano Benini – vicepresidente
Ilaria Cariaci, Giovanni Ciavarella, Francesco Locascio – segretari nazionali

L’assemblea di Chateau Beaulard si è svolta presso la “casa vacanze” della cooperativa “La Cinciarella”. La casa è attrezzata per riunioni e soggiorni.

Di Fabio