• 23 Aprile 2024 11:59

Azione nonviolenta – Aprile 2002

DiFabio

Feb 4, 2002

Azione nonviolenta aprile 2002

– L’azione nonviolenta è un’opera d’arte. Dall’esperienza del primo GAN, al movimento di oggi, di Elena Buccoliero
– Le Commissioni di lavoro del Congresso
– Fermate il fuoco, separate i contendenti
– Licenza globale di uccidere, di Massimiliano Pilati

Rubriche

– Alternative di Gianni Scotto
– Cinema di Flavia Rizzi
– Lilliput di Massimiliano Pilati
– Musica di Paolo Predieri
– Storia di Sergio Albesano
– Economia di Paolo Macina
– Libri di Sergio Albesano

Un’azione nonviolenta è un’opera d’arte

Intervista a Daniele Lugli sull’esperienza del G.A.N.

di Elena Buccoliero

Discutere oggi l’esperienza del primo Gruppo di Azione Nonviolenta significa cercare di comprenderla, per poi metterla in rapporto con l’attuale fiorire di spinte al cambiamento sociale che così spesso trovano i loro strumenti nella mobilitazione, nelle piazze, con richiami frequentissimi alla nonviolenza.
Provare allora a capire, di quel G.A.N., quali tesori conserva, validi oggi, per chi – come nel progetto lillipuziano promosso con molto impegno anche dal Movimento Nonviolento – si ponga l’obiettivo di preparare e costruire dalla base una capacità nonviolenta di manifestazione o, meglio, di espressione, di una opinione, di un dissenso.
Lo chiediamo a Daniele Lugli, segretario nazionale del Movimento Nonviolento, membro del Movimento – e di quel primo GAN – sin dalla nascita, essendo entrato in contatto con Aldo Capitini immediatamente dopo la prima marcia Perugia-Assisi.
L’intervista si svolge in una piccola stazione ferroviaria. Il nostro parlare approfitta di una consuetudine già aperta, al confronto e al racconto. Daniele esordisce che non ha poi molto da dire, su questa storia del GAN…

“Però, a ripensarci bene, ha avuto una sua importanza. Ci ha insegnato la necessità che tutti noi avessimo una buona preparazione, tale da poter intraprendere una discussione con chi si fermava a parlare con noi, ponendo domande o provocazioni. Poi, abbiamo dovuto imparare a rapportarci con la polizia, prima durante e dopo le manifestazioni, in situazioni che potevano essere anche difficili, se non si era capaci di mantenere il dialogo.
E ancora, abbiamo sentito l’importanza di valutare attentamente l’impatto che riuscivamo ad avere con la gente attraverso i cartelli, gli slogan e tutto il nostro modo di porci, inteso proprio globalmente.
L’obiettivo di una manifestazione è comunicare un messaggio, comunicarlo davvero e nel modo più esatto, non esprimere un generico dissenso, né tantomeno scatenare le ire della polizia.
Per questo, ogni nostra azione era pensata in tutti i minimi particolari, con la massima cura. I cartelli per esempio erano sorretti da un telaio in legno per poter essere appoggiati; erano belli, a nessuno sarebbe venuto in mente di romperli. Anche il nostro modo di apparire e di proporci non era lasciato al caso, non esprimeva nessuna aggressività. Vestivamo in modo semplice ma molto proprio – io in quelle occasioni avevo sempre la cravatta”.
Bene, cominciamo dal principio. La preparazione delle azioni e, prima ancora, la costituzione del GAN. Quanti eravate?
“Inizialmente in sei, di città diverse. Abbiamo fatto manifestazioni in tutta Italia, ogni volta si aggregavano le persone del luogo, che avvicinavano altri simpatizzanti”.
Quindi andavate nelle vostre città?
“Non solo, per esempio siamo stati a Milano, a Roma… Città grandi ed importanti per costruire un’opinione pubblica. Si prenotava la piazza, si andava”.
Qual era lo scopo del G.A.N.?
“Ci eravamo dati un compito molto preciso: porre all’attenzione dell’opinione pubblica il problema dell’obiezione di coscienza. Allora gli obiettori in Italia venivano puniti con il carcere, in altri paesi europei invece era una scelta riconosciuta. Ritenevamo che anche l’Italia dovesse porsi la questione”.
Come venivano preparate le azioni?
“Studiavamo localmente, ognuno con il proprio gruppo. A Ferrara si leggevano testi di Gandhi, Capitini, Fornari. Ogni riunione veniva verbalizzata. Un altro impegno era quello economico: prima di incominciare, ognuno metteva un po’ di denaro – c’era una specie di salvadanaio in mezzo al tavolo – che poi usavamo per le spese del gruppo”.
Come venivano suddivisi i compiti?
“Ognuno studiava un libro e lo illustrava agli altri, assecondando la propria formazione che poteva essere anche molto personale. C’era uno psicologo, e portava un suo contributo sulla formazione della personalità nonviolenta, c’era chi aveva un interesse spiccato per la spiritualità indiana, chi veniva da una preparazione di tipo illuminista marxista…
Mantenendo il fuoco sulla nonviolenza, ognuno di noi offriva agli altri il proprio contenuto peculiare, e da qui nascevano anche occasioni pubbliche di approfondimento…”.
Cioè, il G.A.N. si presentava all’esterno?
“Diciamo che il nostro studio diventava una buona base per aprire momenti pubblici, soprattutto conferenze, nei circoli culturali, nei partiti… Dovunque ci fossero persone disponibili a discutere, e a quel punto non si trattava solo l’obiezione ma i fondamenti della nonviolenza, la società, la politica…”.
Mi chiedo se oggi, con un’offerta più ampia di attività culturali e di intrattenimento, sia più difficile attirare l’interesse delle persone intorno ad iniziative di questo tipo.
“Non è più difficile, è diverso. Sono cambiate tante cose. In quegli anni c’era la convinzione che l’agire collettivo avesse davvero un senso, come soluzione di problemi collettivi. Per noi questo significava studiare, approfondire ad un alto livello di qualità, ma forse anche questo era più diffuso perfino tra il pubblico, cioè tra chi veniva ad ascoltare e magari non aveva un impegno preciso. Al nostro interno, poi, cercavamo di capire che cosa un autore aveva da dirci, quali strumenti ci poteva dare. Questo è un criterio che vale anche nella preparazione delle manifestazioni”.
Cioè?
“Ma sì, anche nelle piccolissime occasioni, anche se eravamo solo in sei… Ogni volta chiedersi se quello che facevamo era un buon impiego delle risorse rispetto al fine”.

Le prime manifestazioni

Come si svolgeva una manifestazione del G.A.N.?
“Stavamo in una piazza per molto tempo, fermi, con l’aria assolutamente inoffensiva, dietro ai nostri cartelli. Abbiamo scoperto che eravamo in grado di parlare con le persone, che l’obiezione non era un tema inesistente in Italia, che avevamo possibilità di ascolto, e anche chi la pensava diversamente da noi non era così radicale da rendere difficile il dialogo. Ecco, c’era questa buona disponibilità al dialogo accanto alla nostra capacità di intrattenerlo”.
Com’erano i vostri messaggi?
“Decisamente diversi da quelli che si era abituati a vedere, né politici né religiosi, con messaggi molto differenti tra loro. C’era uno strano accostamento di cose vecchie e nuove, potevi trovare una citazione di San Cipriano, o di Mazzini, accanto ad una informazione su Amnesty International, ancora poco conosciuta. L’effetto finale era spiazzante ma in modo non artefatto, semplicemente i cartelli erano il frutto dei nostri percorsi culturali e ognuno poi aveva il proprio e ci teneva moltissimo, voleva portare proprio quello.
A volte le scritte rispondevano a fatti contingenti – ricordo un mio slogan, “Meno armi e più libri per la polizia”, ma insomma, quella volta ci avevano ostacolato in tutti i modi, non ero riuscito a trattenermi…
Ecco, soprattutto c’era molta autocensura. Ci ritrovavamo a scrivere i cartelli, ci scambiavamo gli slogan, e ogni volta la solita domanda: Serve? Ci aiuterà a comunicare con la gente?”
Che effetti sortivate?
“In pochi, siamo riusciti a smuovere molto. La questione dell’obiezione venne portata all’enfasi estrema più avanti, con Pannella, con l’attenzione dei giornali (poco della tv). Ma i giornali si interessavano anche al GAN, soprattutto quelli locali, e girando in tante città, mettevamo in moto tanti cronisti che riportavano le nostre istanze”.
E nelle piazze che reazioni avevate?
“C’era interesse, curiosità. L’obiezione per quei tempi era un’idea nuova, la gente veniva a discutere. Noi d’altra parte eravamo attenti a mantenere una modalità dialogante, aperta, assolutamente non aggressiva. Certo, in una piazza si avvicina una percentuale di balordi altissima. Gente che ti dà ragione per ragioni che non vorresti mai avere”.

Le strategie, il linguaggio

C’era sempre accordo tra di voi sui modi di manifestare?
“Eravamo così pochi! Si era stabilita una sintonia naturale, anche i nuovi arrivati entravano in questo clima, quasi per coptazione.
Va detto che il G.A.N. è nato da un convegno sulle tecniche della nonviolenza e, anche se non avevamo imparato molto, sapevamo almeno che per il successo delle azioni è molto importante il modo in cui ti comporti. Ecco, almeno sapevamo che non potevamo permetterci di reagire d’istinto ad una provocazione o alla violenza, da qualunque parte potesse arrivare.
E poi sapevamo bene quello che stavamo facendo, e avevamo maturato una fiducia totale gli uni negli altri. Con noi c’era Pietro Pinna che dal ’48 non aveva mai smesso di fare attività, era stato in Sicilia con Danilo Dolci, sapeva gestire azioni con estreme minoranze o grandi masse. Ed era un vero leader; non ci ha mai soverchiato, era sempre in ascolto, ma con la tensione a fare sempre qualcosa di più di ciò che eravamo disposti a fare. Con un amico ne ridiamo ancora, il suo problema era di non andare in galera, tutte le volte lo ribadiva, diceva i suoi limiti…”.
A proposito degli slogan, ricordo che Aldo Capitini aveva dato istruzioni per la prima marcia e aveva poi controllato i cartelli secondo i suoi criteri: no agli insulti, no alla violenza verbale…
Tu stesso hai parlato di autocensura di gruppo. Penso alla fiducia reciproca che doveva circolare nel GAN – senza arrivare al parossismo della limatura, che ti avrebbe reso insofferente…
“Le correzioni erano sempre bene accette perché non erano fatte per il gusto di insistere sulle virgole, ma per affinare il messaggio. C’era alla base il riconoscimento delle competenze altrui e un affinamento e un affidamento molto forte, per cui per esempio uno scriveva un testo, un altro lo rileggeva apportando le correzioni che riteneva opportune, e un terzo ancora lo riproduceva, con la licenza di aggiungere o togliere ancora qualcosa, se necessario. Nessuno difendeva ostinatamente la propria versione perché tutto avveniva nell’ottica di essere massimamente comprensibili. E se uno di noi è in difficoltà a capire un mio testo, come posso pensare di parlare con gli esterni?”.
Al tempo stesso penso a come è cambiato il linguaggio negli ultimi quarant’anni, alla facilità con cui si usano parole che, ascoltate fino in fondo, sono offensive, ma ormai sono entrate nel linguaggio comune.
“Quello che dici è vero – ma per noi era chiarissimo il valore del linguaggio, e di quello che andavamo a fare. Non scendevamo in piazza per protestare, ma per porre un tema. Lo portavamo con il linguaggio della festa, nel modo più corretto, perché venisse preso sul serio, con il rispetto che sentivamo dovuto, a noi e al nostro argomento. E poi, la questione degli insulti: se volevamo parlare con la polizia, come potevamo offenderla, o accusarla?
In questo spirito, ogni discorso era un invito alla persuasione, un segno di dialogo. Con questa disposizione, se uno di noi veniva trascinato dalle guardie, era davvero uno scandalo”.

Il rapporto con le forze dell’ordine

Siamo entrati naturalmente nel terzo punto, quello dei rapporti con la polizia.
“Il GAN ci ha costretto ad acquisire competenze che in genere sono solo dei politici o dei sindacalisti: come si indice una manifestazione, come ci si rapporta con le forze dell’ordine. In quel momento scoprimmo che la Costituzione era contraddetta dal regolamento di polizia, perché la Carta Costituzionale riconosce il diritto di manifestare salvo venga vietato per “comprovati motivi di ordine pubblico”, mentre seguendo il regolamento di pubblica sicurezza le manifestazioni dovevano essere autorizzate, quindi il controllo era preventivo. (Adesso non è più così, ci si limita a dare comunicazione alla questura)”.
Questo indica anche una forte attenzione verso le implicazioni giuridiche dell’azione.
“Assolutamente sì, per una conoscenza progressivamente condivisa da tutti. Poco fa accennavo al nostro modo di infrangere i divieti…”.
Con quali argomenti vi impedivano di manifestare?
“Venimmo accusati di ‘apologia di reato’ semplicemente perché nominavamo la parola obiezione. Da allora nelle manifestazioni si fece un passo indietro, cominciammo a chiedere pubblicamente se davvero era illegittimo che nel nostro paese si potesse discutere di una cosa come l’obiezione di coscienza”.
E dopo un divieto della polizia, che cosa avveniva?
“Ci riunivamo tra di noi per discutere la cosa. All’inizio abbiamo accettato i divieti, poi abbiamo deciso di infrangerli ma anche in quel caso era tutto molto preparato. Ci preannunciavamo alla questura: “Saremo comunque a quell’ora, nel tal posto… Voi vi sbagliate ad impedire la manifestazione per questi e questi motivi… Noi vogliamo esprimere queste cose…”. Così, in modo molto schietto, decidendo chi mandare, in modo da contenere le conseguenze legali, di cui eravamo ben consapevoli. Ad un certo punto ci impedirono perché “turbavamo l’ordine pubblico delle coscienze”. Rispondemmo che questo era un dovere costituzionale e civile, perché se dormono, che coscienze sono?”
Questo è ciò che si dice “tenere aperto il dialogo”…
“Sì, e riconoscendo anche gli aspetti positivi di chi sta “dall’altra parte”. Dicendo ogni volta che capiamo e riconosciamo l’importanza della polizia – e bisogna che sia vero, non si può dirlo così, per retorica -, però le forze dell’ordine hanno il compito di tutelare i diritti e non di ridurne l’esercizio, ed è comprensibile la difficoltà ma ognuno cerca di fare il proprio mestiere al meglio, e il nostro in quel momento era di dire delle cose… Quando l’approccio è questo, è più difficile che si arrivi alla violenza – qualcosa ci fu, qualche calcio, qualche trascinamento, ma niente di grave. Ricordo un poliziotto che si lamenta in macchina mentre porta via uno di noi, rammaricandosi per la brutta figura…
Certo mantenere un dialogo, direi proprio interpersonale, con i poliziotti diventa praticamente inapplicabile in una manifestazione di massa”.
Nelle tue parole mi colpisce la capacità di rapportarsi alla pari con chiunque, anche con chi veste una divisa o ha, in qualche modo, una posizione di potere. Credo che dalla soggezione possano scaturire allo stesso modo la violenza o la sottomissione. In qualche modo, voi riuscivate a scardinare le regole del gioco invece di starci dentro, come si è generalmente portati a fare.
“Beh direi che questo è essenziale. Abbiamo sempre avuto un rapporto alla pari con la polizia, comportandoci con il massimo rispetto ma esigendo in cambio da parte degli agenti lo stesso tipo di considerazione. Questo è vero anche nell’uso del linguaggio. Chiamare “eccellenza” un prefetto, per esempio. Non lo direi mai. “Signor prefetto”, piuttosto – cioè, si può avere una speciale considerazione per una funzione, non per la persona che la svolge in quanto tale. Io non sono al disopra di nessuno ma nessuno è sopra di me, questo mi è sempre stato chiaro.
Però bisogna sapere che rifiutare l’autorità riconosciuta ha un prezzo, commisurato a quello che si fa”.
Forse “mettersi contro” – per esempio, contro una decisione della polizia – costituisce di per sé un salto interiore, il superamento di un diaframma?
“No, io non provavo questo. Si trattava piuttosto di decidere quale prezzo si era disposti a pagare. Ecco che ci documentavamo attentamente, cercando la massima consapevolezza. Usavamo tutti gli strumenti giuridici a nostra disposizione e, soprattutto, cercavamo di prevedere tutte le conseguenze a cui saremmo andati incontro”.

Il confronto con la ‘contestazione giovanile’

Il G.A.N. è nato nel ’64. Pochi anni dopo anche in Italia sono iniziate le grandi mobilitazioni giovanili. Come hai guardato allora a quelle manifestazioni?
“Io, come tutti allora, facevo parte del GAN ma nel contempo ero anche altre cose, partecipavo agli scioperi, ai picchetti davanti alle fabbriche… ero un socialista…
Il G.A.N. mi sembrava una possibilità per raggiungere, operando su piccola scala, un contatto molto largo, ‘economico’, nel senso che per portare via di peso sei persone ci vogliono 18-20 poliziotti… Figuriamoci se ci fossero state le masse, pensavamo allora”.
Allora anche tu hai sperato, ad un certo punto, che la mobilitazione coinvolgesse il maggior numero di persone.
“Le masse, sì. Ma fatte come il GAN. E’ stato detto: “senza contare le donne, il numero massimo è 12, e uno ti tradisce”. A parte gli scherzi, la partecipazione ad una azione è, per me, soprattutto un momento auto-educativo per chi la compie. Quando è molto ampia presenta rischi maggiori e, allora, o si sa di poter riporre una fiducia vera negli altri, o altrimenti ci vuole un capo carismatico capace di guidare. Ognuno può scegliere: pecore o incantatori. Però questa è una soluzione che personalmente non mi piace”.
A distanza di anni, come ripensi a quel periodo, dal punto di vista della capacità di manifestare e di manifestarsi, di dialogare?
“Quegli anni sono stati intensi, soprattutto hanno ampliato il senso di partecipare in prima persona ad un’esperienza collettiva. D’altra parte, abbiamo sopravvalutato alcune cose molto belle, pensando che si fosse diffusa un’improvvisa maturità, intelligenza, novità… Improvvisamente ci sembrava di avere davanti una generazione di ragazzi prodigio, dimenticando che erano davvero solo dei ragazzi e che quell’ansia di rinnovamento era superficiale, come gli eventi successivi hanno poi dimostrato”.
Una spinta al cambiamento sociale può essere più o meno mirata all’obiettivo, più o meno efficace, ed è difficile fare previsioni. Qual è, secondo te, il criterio ultimo per distinguere?
“Dopotutto, io credo davvero che il discrimine sia la violenza. Negli anni Settanta abbiamo sperato che, nell’ampio movimento di contestazione, anche i fatti di violenza si sarebbero riassorbiti. Abbiamo imparato a nostre spese che non è così, ogni atto di violenza contraddice automaticamente il migliore dei suoi obiettivi – allora chi ne ha pagato il prezzo sono stati i ragazzi e certamente non i peggiori, piuttosto i più fragili, spesso i più generosi”.

La fine del primo GAN

Torniamo all’esperienza del GAN. Quando termina, e perché?
“Potrei datarla fino al 1968, quando le manifestazioni sull’obiezione di coscienza non sono più promosse soltanto da noi. Entrano i radicali, entra il movimento studentesco. Eravamo riusciti nella nostra intenzione iniziale, cioè sollevare una questione fino a quel momento ignorata. Poi, nel 1972, con la prima legge sull’obiezione di coscienza, il GAN si è sciolto per davvero”.
Perché non ha proseguito?
“Ma… Aveva esaurito il suo compito”.
Ce ne sarebbero stati infiniti altri, suppongo.
“Sì, è vero, e qualcosa si fece anche prima del ’72, su temi che ci premevano. In una manifestazione a Bologna, sull’obiezione, ricordo che avevamo un cartellone dipinto da Zanni, un bravo pittore ferrarese, che raffigurava un bimbo che muore di fame a Bombay.
Certo, i motivi per manifestare ci sono sempre. Bisognava che qualcosa di particolare catturasse il nostro impegno, semplicemente non andò così”.
Non è da poco, saper smettere. Si dice che una parte del lavoro interno delle organizzazioni serva alla loro riproduzione, al di là del raggiungimento degli scopi iniziali – e così si stabiliscono legami di potere. Questo del GAN è un caso anomalo.
“Ma sì, almeno questo. Almeno sapersi accorgere che il proprio compito è esaurito, sapersi rinnovare. Poi ognuno di noi ha proseguito su altri terreni”.

L’attuale diffusione dei Gruppi di Azione Nonviolenta

Parliamo allora del progetto di diffusione dei GAN in tante città, un’idea portata in buona parte proprio dal Movimento Nonviolento all’interno della Rete di Lilliput, che l’ha fatta propria.
“E’ un piano organizzativo complesso, ambizioso. Credo sia molto importante aver riportato l’attenzione sulla costituzione dei gruppi di azione nonviolenta, ma che lo sarà davvero se costituisce un approfondimento, se ci ricorda sempre molto bene di quello che è il nostro fine, e ci porta a misurare la congruità dei fini coi mezzi.
I GAN, per come mi sembra vengano pensati attualmente, è un po’ come se fossero dei gruppi polifunzionali, che affrontano le violenze strutturali, culturali, anche dirette – se ne sono capaci – attraverso delle forme di azione per la gran parte di carattere simbolico. In questo senso c’è un richiamo all’esperienza nostra, ma noi eravamo molto meno di questo, in fondo il nostro era un GAN limitato”.
Perché “limitato”?
“Innanzitutto avevamo un solo tema sul quale lavorare, quello dell’obiezione di coscienza. Tutti gli altri, che potevano interferire o arricchire il quadro, venivano affrontati man mano che si presentavano, ma a noi interessava che si cominciasse a mettere a tema in modi diversi la questione dell’obiezione di coscienza”.
C’è qualcosa di quell’esperienza che ritieni possa servire ai nuovi GAN?
“L’attenzione a costruire dal basso la capacità di intervento individuale e di gruppo, che voleva dire gestire per esempio il rapporto con le questure, conoscere le norme che regolavano le manifestazioni, le disposizioni sulla stampa, il testo unico di pubblica sicurezza… In modo che quando decidevamo di violare delle norme – e lo facevamo proprio a ragion veduta e a malincuore – l’avevamo valutato a fondo, non era certo per disattenzione o voluta ignoranza della legge, per dire “noi siamo dei disobbedienti”.
Vedo invece una qualche leggerezza nel modo in cui si affrontano le manifestazioni, una leggerezza che certo non nasce oggi per la prima volta. Poiché vengono tollerati normalmente dei comportamenti al limite della legge o addirittura apertamente contrari, e vengono tollerati a lungo – soprattutto in anni passati – si crea una specie di consuetudine”.

La crescita personale e di gruppo

I GAN che stanno nascendo stanno intraprendendo percorsi di formazione per prepararsi all’azione, e forse anche per riflettere su questo.
“In questo senso può essere utile una formazione che dia degli strumenti, che prepari e faccia sperimentare, per quanto è possibile, come si tratta con quelli che manifestano assieme a te, con le forze dell’ordine che sono lì o per contenerti o addirittura per impedirti la manifestazione, e anche con i terzi soggetti ai quali la manifestazione è rivolta”.
Ci sono anche training centrati sulle tecniche dell’azione.
“Vanno bene, ma non da soli. Si possono imparare le tecniche dello sci, ma se non c’è la neve, e se non si sa cos’è la neve, le tecniche non servono a molto. Io sento che può esserci il rischio di una certa astrazione in una formazione alla nonviolenza, all’azione nonviolenta, che sembra multiuso, serve nella manifestazione, nell’intervento, nel conflitto… Mi sembra che abiliti un pochino troppe cose per essere convincente”.
Come altro si fa per “imparare”?
“Per me è abbastanza utile praticare l’azione, fare cose alla propria portata. Farsi le ossa in azioni significative, importanti, ma anche a basso rischio. Però questo contrasta, credo, con un atteggiamento che è venuto affermandosi molto negli ultimi tempi, per cui se le cose non vanno perlomeno in televisione non valgono. La necessità di apparire influenza pesantemente anche le scelte di carattere tecnico”.
C’è la difficoltà di contrastare un potere, quello mediatico, che è davvero pervasivo e riesce a stravolgere anche l’impegno e la presenza di chi cerca vie di nonviolenza.
“Questo è vero ma proprio perciò costringe alla trasparenza dell’azione. Cioè, in questo senso è un bene”.
Perché ci vuole ancora più attenzione.
“Eh sì. Non si può dire: “Facciamo come vogliamo, tanto comunque veniamo fraintesi”. Noi mica svolgiamo un’azione per come ci raccontano!
D’altro canto, questo è un problema vero, la diffusione, l’esempio. Però proprio per questo credo che, ancor più delle tecniche, occorra nei GAN un momento di approfondimento dei valori – per adoperare una parola vecchia che ogni tanto torna fuori – che uno rintraccia dentro a un percorso di nonviolenza”.
Mi sembra che tu stia mettendo tra gli obiettivi del GAN, oltre alle azioni che può svolgere, direi quasi un obiettivo di crescita per le persone che vi partecipano.
“Non c’è nessun dubbio. La questione delle tecniche è imprescindibile dall’approfondimento del che cosa sia PER TE metterti sulla strada della nonviolenza, PER TE diventare un po’ amico della nonviolenza, essere un pochino più capace di riconoscere la violenza nelle situazioni, di farle fronte, in modo da indebolirla invece di accrescerla”.
Nella formazione complessiva quale può essere il rapporto con i maestri?
“Come i fondamenti della nonviolenza possono essere diversi – e accanto a quelli di carattere religioso io do pari dignità alla radice laica della nonviolenza – anche le strade di ognuno possono essere diverse. Non è detto che si debba essere in grado di ripetere un determinato numero di classici essereamici della nonviolenza. Le strade sono davvero tante, proprio perché, Gandhi diceva, “Non ho niente da insegnare al mondo, la nonviolenza è antica come le montagne”.

Che cos’è un’azione nonviolenta

Puoi provare a individuare i requisiti di un’azione nonviolenta?
“È un’azione intenzionata, volta ad uno scopo. Le sue caratterizzazioni non stanno solamente in quello che vieta, che omette, ma soprattutto nella sua parte più attiva. Amici più impegnati nella Rete Lilliput avvertono a volte un certo fastidio, all’interno della stessa Rete, come dire: “Ancora? L’abbiamo già detto che siamo nonviolenti”. Quasi che la nonviolenza consistesse in una sorta di professione di fede, oppure nella garanzia che non si faranno certe cose nelle manifestazioni. Tutte cose giuste, ma che alla fine non reggono se non c’è un altro metro di misura di fondo.
La nonviolenza consiste nel dire: che cosa metto in atto io perché sia possibile una soluzione, nella quale anche quelli che ora appaiono i miei avversari ci stiano dentro, addirittura meglio che nella situazione attuale in cui vedono il loro privilegio? Incessantemente chiedersi: sto lavorando davvero nella direzione di costruire una situazione migliore che includa ‘noi’ e ‘loro’?, visto che siamo in una situazione nella quale si è deciso che c’è un ‘noi’ e un ‘loro’. E dunque, individuare con chiarezza chi sono questi ‘loro’, e capire anche qual è lo spazio, vero, non residuale ma certo non decisivo, che hanno le forze dell’ordine”.
Già, le forze dell’ordine…
“Mai trovarsi nella situazione di avere come avversarie le cosiddette forze dell’ordine – se non proprio nel caso di una deliberata aggressione –. Eppure in alcuni casi si cercano proprio delle forme di provocazione, sia pure nonviolenta, mentre l’obiettivo non viene tenuto abbastanza presente”.
Che cosa intendi?
“Quello che occorre è avere presente l’obiettivo di carattere generale e poi cercare di sminuzzarlo in obiettivi più particolari che siano con questo coerenti, e su questi misurare il progresso o no dell’azione nonviolenta.
Vorrei sbagliarmi, ma non mi pare che questo sia così facilmente accettato e praticato. Non dico condiviso in linea generale – chi è che si oppone a questo? – però poi nella pratica non mi sembra questa l’attenzione predominante”.
Alcune situazioni, soprattutto quando sono partecipate da grandi masse di persone, risultano di fatto incontrollabili, negli obiettivi e nelle modalità.
“Questo ci riporta al fatto che la creatività va bene, ma non si può improvvisare durante un’azione. Creativi nel pensarle, creativi nel riproporle, ma non nell’attuarle. Non sarà un caso se Gandhi, che pure aveva un grande controllo e aveva attorno a sé satyagrahi bene addestrati, quando vedeva che la manifestazione rischiava di sfuggire da quanto era stato previsto, la interrompeva, anche in modi clamorosi. E magari si asteneva dal farne altre, anche per molto tempo. Non solo, ma quando si trovava in una situazione di vantaggio imprevisto, non pensava per questo di approfittarne per conseguire degli obiettivi che non erano stati dichiarati. In questo si differenzia un’azione nonviolenta da una semplice variante disarmata, magari perché ci è impossibile una azione armata – o è ritenuta svantaggiosa, o prematura…
…o per ragioni etiche, perché no?
“Sicuramente. Ma quale che sia il motivo per cui si è aderito – per un rifiuto assoluto nei confronti della violenza, o anche un rifiuto relativo – bisogna sapere che all’interno dell’azione nonviolenta esistono certe regole che fanno parte della sua essenza, non sono dei divieti. Ci sono perché l’azione SIA tale, se no non riesce ad esserlo, quindi è inutile dopo chiedersi in cosa si è sbagliato. Si è fatta un’altra cosa”.

La lezione di don Milani

“Per me restano fondamentali, sotto questo profilo, due affermazioni di don Milani che io ripeto molto spesso, perché almeno a me dicono molto. La prima invita a comprendere che il problema degli altri è uguale al tuo, e dunque volerne uscire assieme è politica, e il volerne uscire da soli è egoismo. Questo “da soli” può indicare non solo il singolo individuo, anche il gruppo ristretto”.
E la seconda?
“E’ la definizione che don Milani dà dell’opera d’arte. Ecco, secondo me un’azione del GAN dovrebbe essere proprio un’opera d’arte, che nella “Lettera a una professoressa” è descritta come il risultato di una operazione complessa. Bisogna – più o meno è così – odiare qualcuno o qualcosa, ma poi non fermarsi lì: lavorarci sopra con un paziente lavoro di squadra. Allora, se si è lavorato bene, nasce l’opera d’arte, cioè la mano tesa al nemico perché cambi”.
Che cosa vuol dire in concreto?
“Nella tipica e anche più impegnativa azione di un GAN, di fronte hai qualcuno che si qualifica come avversario di quello che tu vuoi, o vuoi fare, o desideri, avversario di ciò che ti sembra giusto. E se poi sei tanto bravo da non odiarlo – don Milani non pretendeva questo – e tuttavia, se sei così bravo da non odiare lui ma solo quello che lui rappresenta, distinguendo le persone dalle cose rappresentate, gli interessi dalle posizioni, e tutto quello che lo studio dei conflitti ci mette a disposizione… Ma fa lo stesso, anche se ce l’hai proprio con lui, bisogna non fermarsi lì, lavorare sul proprio risentimento in modo che quello che tu fai sia una mano tesa per il suo cambiamento. Una mano tesa non è un pugno e non è una pietra”.
E’ una carezza…
“Cerchi di portare quello che consideri un avversario sulle tue posizioni, e su quelle continuamente eserciti attenzione, perché non è detto che tu abbia ragione. Alla base almeno del mio approccio alla nonviolenza, è molto forte quello che Pontara chiama il fallibilismo. Da questo punto di vista sono contento di non avere una fede forte, di non pensare di possedere una qualche verità né assoluta né rivelata, perché questo mi costringe a tener conto anche del parere degli altri…
Se non è questo, non hai fatto una azione nonviolenta. Certo, non hai sparato, non hai tirato sassi… però di sicuro non hai fatto quello che serviva. E se questo ha addirittura irrigidito le posizioni dell’altra parte, io dico: hai lavorato male. Il problema dopo non è stabilire che la colpa è dell’avversario, non stiamo parlando di colpe, ma di efficacia.
Certo, qui tutta l’attività di formazione può essere molto utile, perché un GAN non può fare tutte le esperienze del mondo. Perciò è utile pensare a quelle già fatte in modo da commettere errori nuovi, invece di ripetere stupidamente i vecchi…”.

E infine, il Congresso

Dal 12 al 14 aprile si tiene a Ferrara il XX Congresso del Movimento Nonviolento. Che cosa ti aspetti?
“Mi auguro che si faccia un ulteriore piccolo passo, in primo luogo tra quelli che parteciperanno al congresso, che leggeranno la rivista, tra quanti hanno contatto con persone legate al Movimento, nella idea che effettivamente la nonviolenza è il varco attuale della storia.
Sarebbe una acquisizione assolutamente straordinaria, proprio perché viene proclamato con abbastanza disinvoltura, ormai, il valore della nonviolenza, con il rischio di essere una moda ritornante e passeggera.
Capire il carattere assolutamente impervio di questo varco, che non è lì spalancato. Non so: Annibale quando ha portato gli elefanti sulle Alpi. Noi abbiamo da spostare i nostri elefanti modi di pensare, i nostri elefanti istituzionali, disadatti a questo tipo di varco, attraverso un passaggio che probabilmente è molto stretto e molto insidioso.
Però questa è una possibilità che ci è data per avere una storia più degna del nome di umana, per la costruzione di una società che meriti un poco l’aggettivo di civile – oggi se ne torna a parlare, intendendo spesso delle cose obbrobriose. Ecco, penso che questo sarebbe il massimo risultato auspicabile”.
Qual è il peso che il congresso può avere sull’opinione pubblica, e su quello che viene chiamato “il movimento dei movimenti”?
“Quali che siano i nostri sforzi, non credo si riuscirà ad avere l’attenzione dei media, né che si riuscirà ad avere un impatto forte anche nei circoli a noi più vicini. Penso però che alcune persone, venendo in contatto con la modesta ma onesta e seria attività che il Movimento fa per la costruzione della nonviolenza nel nostro paese, potranno rendersi conto che con il Movimento Nonviolento si possono approfondire certi temi, si possono sottoporre a critica degli approcci faciloni, senza con questo finire su posizioni rigoriste, fondamentaliste, integraliste della nonviolenza. Proprio perché nel Movimento è possibile, e deve essere sempre più possibile, mostrare, dibattere apertamente i propri dubbi, le proprie diversità di opinioni, senza pensare con questo di ricevere delle scomuniche.
Gli elementi della carta del movimento Nonviolento, che ne costituiscono la base di adesione, perfino quelli a mio avviso rappresentano non un punto di partenza dato, ma delle cose da realizzare, una tensione che non è data una volta per tutte”.
Alla prova della verità, la nonviolenza come se la cava?
“Mi sembra di vedere che le cose affermate, nella teoria e nella pratica, degli amici della nonviolenza trovano una conferma. Non abbiamo mai visto una guerra che non fosse evitabile o per la quale almeno non si sia speso, di energie, di intelligenza, di forza, di sforzi, una minima parte di quello che si è speso invece per provocarla, per produrla e per condurla. Da questo punto di vista la nonviolenza esce bene dalle prove con le quali si è andata a misurare.
Noi parliamo da tempo, e se ne parlerà anche nel congresso, di iniziative che riguardano in specifico un intervento nonviolento, o tendenzialmente nonviolento, i corpi civili di pace, anche in situazioni di conflitto aperto, o di conflitto imminente. E la intuizione di Langer, suffragata da più voti del Parlamento Europeo, è ancora tale o poco più, a sei anni dalla sua morte. Credo che questo sia un altro segno abbastanza preciso della asimmetria esistente tra le proposte della violenza e quelle della nonviolenza, per cui c’è da meravigliarsi che, con così poco a disposizione, la nonviolenza riesca ugualmente a produrre molto.
Riesci ad indicare tre obiettivi su cui ti piacerebbe che il Movimento Nonviolento lavorasse all’indomani del congresso?
“Non riesco ad andare molto al di là delle cose individuate nel precedente congresso, e che siamo riusciti a fare… poco poco.
La prima indicazione è quella di mettere maggiormente a frutto la connessione con una organizzazione di carattere internazionale come la War Resisters’ International. Questo vuol dire chiedere anche che la WRI metta a frutto di più il suo carattere internazionale, cioè che si riesca di più, nel campo del confronto politico mondiale, a portare un contributo più deciso a un tema che peraltro è sentito in modo molto più generale. Anche recentemente leggevo la sottolineatura di due elementi come fondamentali: riuscire a mettere finalmente al bando della storia la guerra – per questo è nata l’Onu! – ed estendere i diritti umani a tutti i popoli del pianeta. E dato che questi non si estendono, a quanto pare, del tutto naturalmente e pacificamente, se contemporaneamente si vuole mettere al bando la guerra, bisognerà dire quali strade si vogliono seguire.
Certo, se già il “Decennio della nonviolenza” venisse preso in carico dalle istituzioni, che pure dicono di averlo promosso, sarebbe già un bel pezzo di strada… Bisogna per questo che le organizzazioni e le associazioni internazionali orientate verso la nonviolenza imparino a collaborare un pochino meglio tra di loro. E a collaborare non sanno fare tanto. Più o meno come le religioni”.
Che dire, allora, sul piano nazionale?
“Ritengo che si vada ripreso il tema del confronto sull’esercito, sull’uso della forza, sulla partecipazione alle guerre, probabilmente con un dialogo molto più diretto con le forze armate. Noi partiamo con un qualche bagaglio di idee e di esperienze, con un’assoluta distanza dal punto di vista dei mezzi a disposizione, però bisogna che anche chi continua a dire di voler superare la guerra usi un pochino di attenzione – le associazioni d’altronde non possono fare tutto da sole. Noi possiamo, ancora una volta, stimolare quelle forze che in Italia hanno dimostrato di avere su questo un interesse – i sindacati, alcune forze politiche –, cioè riuscire a portarle su un terreno di pratica.
E poi penso che non si possa rinunciare ad un’azione di forte penetrazione culturale, che richiede presenza non tanto nella scuola – di materie ne ha fin troppe! – ma nei dibattiti, nei momenti di interesse e di aggregazione dei giovani, cercando di portare anche questa proposta della nonviolenza”.
Le Commissioni di lavoro del Congresso

TITOLI PROVVISORI DELLE COMMISSIONI CURATORI PROVV.

1.Una marcia o altra iniziativa specifica sulla nonviolenza Daniele Lugli

2.La formazione alla nonviolenza Luciano Capitini

3.Nonviolenza e “movimento dei movimenti” P. Pugliese M. Pilati

4.Il decennio per l’educazione alla nonviolenza Rocco Pompeo

5.La tv e i mezzi di comunicazione Matteo Soccio

6.Prospettive dell’obiezione di coscienza, corpi civili di pace Mao Valpiana

7.Le proposte della nv. per una trasformazione dell’economia Nanni Salio

8.Nonviolenza e guerra/terrorismo, obiezione del cittadino Adriano Moratto

Commissione
OBIEZIONE DI COSCIENZA E CORPI CIVILI
Coordinata da Mao Valpiana

Le prospettive dell’obiezione di coscienza
e l’istituzione dei corpi civili di pace

Il Servizio Civile, così come l’abbiamo conosciuto dal 1973 fino ad ieri, è entrato nella sua fase calante. La Legge che abolisce la leva obbligatoria, ed istituisce l’esercito professionale, ha decretato anche la fine del servizio civile sostitutivo o alternativo al servizio militare. Dal 2005 non avremo più gli “obiettori” in servizio; i giovani non dovranno più fare la “domanda” di obiezione.
Già oggi, a fronte di una crescita delle domande per svolgere il servizio civile (da qualche anno c’è stato il cosiddetto “sorpasso”, cioè sono più i giovani obiettori che non i giovani soldati), abbiamo in realtà un calo dei giovani assegnati; ci sono più posti negli Enti convenzionati, che obiettori in servizio. L’Ente Nazionale per il Servizio Civile, con finanziamenti sempre più ridotti, lascia a casa molti giovani obiettori, che vengono direttamente congedati.
Dunque, dopo 30 anni assistiamo alla chiusura di un’esperienza molto importante, che ha coinvolto decine di migliaia di giovani e migliaia di Enti pubblici e privati.
Come valorizzare la storia e l’esperienza dell’obiezione di coscienza in Italia?
All’orizzonte si profila una nuova Legge per il Servizio Civile Volontario, aperto a uomini e donne.
Come sarà questa Legge? Che tipo di servizio civile sarà quello volontario? Quale il ruolo delle regioni? Ci sarà più o meno spazio per il “volontariato di pace”? Ci interessa entrare nella gestione diretta di questa Legge?

Già da tempo sono in atto diverse esperienze di servizio all’estero (per lo più in luoghi di conflitto, o che hanno vissuto conflitti), con la partecipazione di volontari (obiettori in servizio o meno, ragazzi e ragazze) denominati “caschi bianchi”. Sono servizi di aiuto umanitario, di condivisione, di partecipazione a progetti di cooperazione, o più esplicitamente missioni di pace.
Fino ad oggi si è trattato esclusivamente di iniziative di volontariato, con qualche riconoscimento istituzionale.
La prospettiva, però, è quella di ottenere l’istituzione dei Corpi Civili (Parlamento Europeo, Parlamento Italiano), anche se sappiamo che i tempi saranno molto lunghi.
Come realizzare passi in avanti verso i Corpi Civili? Quali approssimazioni?
Quale confronto con i militari, con l’università, con la politica, con le istituzioni?
In quali modi e con quali tempi si arriverà alla professionalizzazione dei Corpi Civili? Quali i compiti e il ruolo dei Corpi Civili nel futuro?
Nel frattempo, che tipo di formazione specifica si deve preparare?

Nel concreto, e nell’immediato, quali passi dobbiamo fare per avviare il Servizio Civile volontario e collegarlo alla preparazione dei Corpi Civili di Pace? Quale il ruolo della nonviolenza in questo processo?

Commissione
Televisione e mezzi di comunicazione
Coordinata da Matteo Soccio

TV non ti amo più!

C’è una nuova emergenza: la TV. Da quando un magnate televisivo è sceso direttamente nell’agone politico e, conquistato il potere con il peso delle sue emittenti private, ha iniziato ad estendere il controllo a quelle del Servizio pubblico, ci attende un futuro denso di rischi e pericoli.
Già Orwell ha mostrato cosa può accadere senza che la gente se ne renda conto. Tra i media, la televisione è indubbiamente quello più potente e anche quello più abbondantemente analizzato. Quello che può succedere non è più fantascienza. Lo sanno tutti: la televisione rende possibili forme di manipolazione delle coscienze molto sofisticate ed efficaci. Gli esperti hanno individuato dei processi di mediamorfosi, cioè dei meccanismi mediatici capaci di produrre profonde influenze sulle menti degli individui e sulle loro visioni del mondo. La televisione modifica i processi cognitivi, culturali, comunicativi, decisionali. Ogni categoria sociale è condizionata in quanto tale. Collegata ai sistemi informatici, la televisione del prossimo futuro, si prepara a spiarci con nuovi servizi digitali interattivi, con i quali si potranno monitorare le abitudini degli utenti.
Il problema investe settori strategici della nostra vita sociale: l’educazione, i consumi, il lavoro, il tempo libero, le scelte politiche, ecc. E’ in pericolo la sopravvivenza della stessa “democrazia”. Secondo il filosofo liberale Karl Popper sarebbe in pericolo persino la “civiltà”, intesa come processo graduale di eliminazione della violenza dalla nostra società. Un potere gigantesco come quello della televisione può distruggere questa civiltà. C’è progresso civile se si lotta, in nome della pace, contro le varie forme di violenza, menzogna, ingiustizia. La televisione costituisce una minaccia per il progresso civile e questa minaccia la porta dentro le nostre stesse case. Può peggiorare sotto una qualche forma di “dittatura” o di “regime”.
Non è nostro compito analizzare i potenziali pericoli della televisione. Su questo c’è già una vasta letteratura scientifica. Conosciamo già i meccanismi messi in atto. Noi ci assumiamo la nostra responsabilità di utenti e consumatori rivendicando il diritto a non essere “inquinati”, incominciamo ad esigere un’informazione più obiettiva e programmi più rispettosi della dignità della persona. Ma tutto questo non basta. Come Movimento Nonviolento dobbiamo porci soprattutto delle domande pratiche: cosa possiamo fare per affrontare queste forze che ci controllano? Come trasformarci in soggetti attivi e non passivi, mettendo in atto su questo tema delle azioni dirette nonviolente? Quali iniziative possiamo intraprendere per aiutare sia i soggetti teledipendenti sia i cittadini criticamente più attenti a resistere alla potenza di questi media e a ristabilire il controllo effettivo della propria vita e delle proprie scelte?
Compito di questa commissione non è dunque quello di aprire dibattiti culturali sull’argomento, ma di trovare modalità di azione, produrre iniziative.

Commissione
Nonviolenza e “movimento dei movimenti”
Un altro mondo è possibile con la nonviolenza
Coordinata da Pasquale Pugliese

In questi due anni, o poco più, trascorsi dall’ultimo Congresso del Movimento Nonviolento intitolato Nonviolenza in movimento, la profezia si è avverata: la nonviolenza si è messa veramente in movimento.
La paziente tessitura di reti avviata da tempo dai movimenti di base ai quattro angoli del pianeta ha cominciato a dare i suoi frutti: le mobilitazioni internazionali di Seattle, di Genova, di Porto Alegre (per tacere di tutte le altre) hanno riportato il conflitto ecologico e sociale tra i “padroni del mondo” e il resto degli esseri viventi ad essere di nuovo assunto ed agito nelle piazze e nelle strade al Nord come al Sud del mondo.
E’ la resistenza alla violenza diretta, strutturale e culturale ed è la costruzione di un altro mondo possibile.
Molti tra gli attori di questo conflitto hanno scelto esplicitamente, in Italia e nel mondo, la strada della nonviolenza; altri ne sono vicini; altri ancora la rifiutano altrettanto esplicitamente. In ogni caso mai come ora la nonviolenza è invocata, studiata, praticata o, a volte, solo proclamata.
La nonviolenza è dunque in movimento.
Il Movimento Nonviolento che, con Aldo Capitini, è storicamente all’origine della diffusione della teoria e pratica della nonviolenza nel nostro paese, è oggi politicamente all’interno di questo processo globale – sia direttamente sia attraverso la Rete di Lilliput – cercando di apportare, con la sobrietà degli strumenti che gli è propria, il proprio specifico contributo alla trasformazione ed alla gestione del conflitto ecologico e sociale in senso nonviolento.
Il lavoro da fare, culturale e politico, di formazione e informazione, teorico e pratico, da svolgere affinché la nonviolenza diventi la strada maestra del nuovo movimento di lotta è ancora molto e richiede l’impegno, la costanza e l’intelligenza di tutti gli amici della nonviolenza. Ed i rischi d’insuccesso, d’involuzione repressiva e violenta del conflitto, con l’azzeramento del movimento e dell’unica vera resistenza sociale e politica alla guerra globale contro la natura e l’umanità – dopo Genova e l’11 settembre – sono veramente alti.
Insomma, se come scriveva Capitini, “la nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata”, in questo “varco della storia” è giunto il tempo di porsi, senza indugi, proprio a quel livello di profondità.

Commissione
Nonviolenza, Guerra, Terrorismo, Obiezione del cittadino
Coordinata da Adriano Moratto

La nonviolenza ha nelle sue radici il ripudio totale della guerra e del terrorismo. Stoicamente sono state le lotte antimilitariste e l’obiezione di coscienza le ragioni che hanno iniziato, animato molti di noi alla ricerca della scelta nonviolenta.
Nel 1999 con l’intervento militare in Serbia, ipocritamente giustificato come umanitario e, peggio ancora nel novembre 2001 con il pretesto della lotta al terrorismo, il parlamento ha dichiarato guerra al governo afgano , seppellendo , per piaggeria e miopia, l’articolo 11 della Costituzione .
Di fronte a tale tragica scelta, solo pochi anni fa inimmaginabile , dobbiamo trovare risposte incisive e il più possibile partecipate-unitarie.
Credo che il congresso debba discutere , aprirsi e accogliere contributi e proposte.
Dobbiamo partire dalle iniziative già in campo. Non una accademica discussione contro la guerra o per il disarmo che diamo più che acquisite , ma la ricerca di percorsi di progetti che partendo dal ripristino della Costituzione allarghino il più possibile l’orizzonte e coinvolgano il maggior numero di cittadini .

Commissione
Formazione alla nonviolenza
Coordinata da Luciano Capitini

Come coordinatore di questa commissione reputo utile che sin d’ora, su AzNv e sul sito sia lanciata la proposta per redigere un Odg adeguato.

Mi aspetto che tutti gli interessati diano un contributo – poi – alla discussione ed a un eventuale documento finale, ma chiedo loro di aiutarci a focalizzare insieme, con buon anticipo, gli argomenti.

Propongo per intanto la seguente scaletta:

La proposta Euli, L’Abate, Sapio.
Come è stata recepita dal GLT nonviolenza di Lilliput
Diffusione, anche fuori del circuito Lilliput della banca dati e della proposta
Adesione di tutti i nonviolenti a questa importante operazione di formazione, necessaria, e fruttuosa tanto quanto verrà divulgata e sostenuta
Specificità dell’apporto nonviolento
Esistono differenze tra una formazione alla NV e una formazione dei GAN?
Indicazione – nella variegata proposta attuale – di quanto viene ritenuto essenziale ed impellente?
Apertura di una sezione sul sito di Azione Nonviolenta per il dibattito interno alla nonviolenza, su questo tema?
Questa operazione a cui in tanti cerchiamo di dare un apporto dove deve mirare, quali sono gli obiettivi?
Questa formazione (anche attraverso il seminario estivo) avrà carattere di condivisione di conoscenze tra i formatori stessi?

Forse sono troppe le domande e forse non sono nemmeno quelle giuste, ragioniamoci!

Commissione
Il decennio per l’educazione alla nonviolenza
Coordinata da Rocco Pompeo e Angela Marasso

2001-2010
Decennio internazionale per una cultura della nonviolenza e della pace per i bambini del mondo – Assemblea generale ONU 10/11/1998.

Nel 1997 i Premi Nobel per la Pace indirizzarono un Appello a tutti i capi di stato e di governo dei paesi membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affinchè il decennio dal 2000 al 2010 fosse dichiarato “Decennio per l’affermazione di una cultura della nonviolenza” per contrastare quella cultura di violenza che , nelle sue diverse forme, fisica, psicologica, socio-economica o politica, è tuttora causa di sofferenza per numerosi bambini, in ogni parte del mondo,
L’assemblea generale dell’ONU ha votato una “Dichiarazione e programma di azione per una cultura di pace” che presenta alcune rilevanti affermazioni:

la pace “non è semplicemente l’assenza del conflitto, ma un processo positivo, dinamico, partecipativo che favorisce il dialogo e il regolamento dei conflitti in uno spirito di reciproca comprensione e cooperazione”;
per illustrare le condizioni che caratterizzano la pace e i mezzi per raggiungerla, viene introdotto il concetto di nonviolenza; la cultura della pace viene definita , infatti, come l’insieme dei valori, delle attitudini, delle tradizioni, dei comportamenti e dei modi di vita fondati “sul rispetto della vita, il rifiuto della violenza e la promozione e la pratica della nonviolenza attraverso educazione, il dialogo e la cooperazione…l’impegno a regolare pacificamente i conflitti…”
per quanto riguarda i mezzi, l’Assemblea propone “La formazione, a tutti i livelli di responsabilità, di persone che sappiano favorire il dialogo, la mediazione, la ricerca del consenso e la gestione pacifica delle differenze”;
l’articolo 4, infine, sottolinea che “L’educazione, a tutti i livelli, è il principale strumento per costruire una cultura di pace…”

Questa proposta accoglie ed istituzionalizza una pratica di Educazione alla Pace diffusa ormai da alcuni decenni in tutto il mondo da Centri, Associazioni e Movimenti come i nostri.
Sembrano dunque maturi i tempi perché la pratica della nonviolenza sia insegnata nelle scuole e si diffonda in modo capillare nei diversi contesti formativi, dal momento che, come sostiene anche l’autorevole Manifesto di Siviglia, la violenza non è una condizione ineluttabile ed irreversibile, ma piuttosto un processo che può essere contrastato, bloccato, trasformato.
Per questo motivo è stata proposta la presente Commissione, con l’intento di lavorare, anche nell’ambito del Congresso, in questa direzione.

Commissione
Democrazia e regime autoritario
Proposta da Davide Melodia

1 – COME SI AFFERMA E CONSOLIDA UN REGIME AUTORITARIO

Ripagando sul piano sociale ed economico i sostenitori che l’hanno mandato al POTERE ignari che il Mostro divora i suoi figli creando una Classe di SERVI ben pagati e multiuso
Eliminando ogni VOCE CRITICA e cosciente, anche fra i primi sostenitori, perché ledono l’ immagine del Leader infallibile
Allontanando e calunniando collaboratori INTELLIGENTI, che possono mettere in ombra la LEADERSHIP del Capo (v. Grandi, Italo Valbo . . .)
Rivoluzionando il SISTEMA LEGISLATIVO e normativo, e la COSTITUZIONE democratica, pro domo sua (v- Codice Rocco)
Condizionando gli ENTI PUBBLICI di ogni ordine e grado
Assoggettando gli ENTI LOCALI _ comune, provincia, regione (invece del Sindaco, il Podestà . . .)
Esaltando le FORZE DI POLIZIA _ dal Prefetto al Poliziotto ( e una figura parallela nel Federale con le sue Camicie Nere)
Blandendo e potenziando le FORZE ARMATE, che diventano disponibili
Istituendo un ESERCITO Parallelo del Regime, armato, rifugio dei Disoccupati (MVSN), o facendo del proprio Partito una sorta di Riserva (Camicie Nere in Italia, Brune in Germania, allora; (oggi Verdi nella Lega Nord, e, se non fermiamo i ber/loschi, avremo le camicie azzurre, domani)
Lusingando la RELIGIONE MAGGIORITARIA nel Paese, e stipulando con essa Accordi, come il CONCORDATO, dopo due anni di incontri segreti (per giustificare la propria esistenza e autorità al massimo livello socio-religioso; per bloccare ogni voce critica; per estirpare il Modernismo.
E voci critiche a ridosso dello stesso Concordato si erano levate da cattedre altissime, come quella di Benedetto Croce in Senato, e di Antonio Gramsci . . .; Vedi alcuni punti essenziali del Concordato, ed
esempi, come quello di Giovanni Pioli, ospite sovente di Pastori Protestanti, sospeso a divinis, e ridotto a non potere insegnare, malgrado la sua grande cultura.
(L’Art. .5 del Concordato così correva : “I sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti o conservati in un insegnamento, in un ufficio o in un impiego, nei quali siano a immediato contatto col pubblico”).
(Per non parlare dell’Art. 36 circa l’insegnamento della religione nelle scuole, non solo elementari ma anche medie. “L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. . . “Si noti la sostituzione di dottrina a religione.)
Rinverdendo lo SPIRITO PATRIOTTICO, a spese di ogni altra etnia
Impadronendosi dell’ISTRUZIONE
(PRATICANDO una Riforma dell’Educazione, sul progetto del filosofo fascista Giovanni Gentile )
favorendo Enti privati e Religiosi, per la futura Classe Dirigente
Adescando parte cospicua dell’INTELLIGHENTSIA pennivendola
Adeguando l_ ECONOMIA ai propri interessi
Accordandosi con Mafie economico-industriali

(incamerando personaggi e attività della Mafia siciliana)
Trasformando i SINDACATI dei Lavoratori in un sistema di Corporazioni, che fanno il bello e il cattivo tempo nel proprio ambito e oltre. (In cui i segretari sono onnipiotenti, e se un lavoratore disoccupato non ha una bella moglie disponibile, che va a trattare, la famiglia muore di fame.
Inoltre, per gli antifascisti impegnati politicamente, c_era il Carcere, il Confino, la Morte fisica o Civile, in Italia o all_Estero: v. Matteotti e Rosselli); per l’antifascista non troppo pericoloso, che prima del Ventennio aveva militato nel Partito Socialcomunista _ scisso dal _27 a Livorno in Partito Comunista e in Partito Social Democratico – ma che non si era acconciato a iscriversi al PNF,
c’era l’intimidazione quotidiana, il diniego della iscrizione al Sindacato delle Corporazioni, per cui zero lavoro; il controllo delle azioni,. il rifiuto del Passaporto, la sequela dell_OVRA se otteneva di recarsi all_estero a Congressi Pacifisti o altro: uno spionaggio spicciolo a livello di spie della Questura, come il Postino, il Barbiere, il Custode, il Capocasa . . . che riferivano alla Questura: più grave di tutte era la CENSURA, nella vita civile, militare, nelle carceri: la convocazione in Questura Centrale o dal Prefetto per ogni minima critica scritta al Regime, mensilmente, e per ogni cablogramma ricevuto da un altro Prefetto circa il sospettato.. . .

2 – COME SI DIFENDE LA DEMOCRAZIA
Senza lasciarsi distrarre da altri impegni, problemi, lotte, in sé molto importanti sul piano nazionale e internazionale, umano e sociale, ma non essenziali per la difesa della DEMOCRAZIA che ha la PRIORITA’,
, perché senza la Democrazia le altre lotte _
di giustizia, di libertà, di pace, di eguaglianza, di diritti umani –
non si possono più condurre.
Si difende la Democrazia,
non gettandosi in tutte le avventure,
non cavalcando ogni tigre che passa,
ma scegliendo accuratamente e coscienziosamente
la lotta da condurre,
e gli obiettivi da raggiungere.
Nel nostro caso :
Ricostruendo i baluardi democratici, a partire dalla GIUSTIZIA, rappresentata dalla Magistratura, e ricostruendo puntualmente tutti gli altri, collaborando con la base della comunità nazionale.
Il tutto prendendo in seria considerazione la possibilità di affrontare ogni problema e situazione con i principi e i metodi nonviolenti.

Nulla osta che il lettore avvertito
tracci anch’esso un parallelo
fra ciò che accadde
durante il Ventennio fascista in Italia,
e ciò che comincia a verificarsi oggi, sempre in Italia,
con un vertice politico che attacca,
fra i primi, l’ultimo baluardo. (DM)

Fermate il fuoco, separate i contendenti!

Tante iniziative per chiedere l’intervento della comunità internazionale e la ripresa dei negoziati

A cura di Elena Buccoliero

Si avvicendano, nella corrispondenza e-mail che giunge in redazione da alcune associazioni pacifiste israeliane, le notizie sui massacri, le perquisizioni, le invasioni, e le iniziative della popolazione a favore della pace.
Nei campi profughi di Qalqilia, Tul Karm, Dheisheh, le truppe israeliane hanno sequestrato gli uomini di 14-50 anni per alcune ore, li hanno ammanettati e bendati alla presenza delle telecamere (le donne e i bambini seguivano la scena, terrorizzati, di fronte agli schermi televisivi) e poi, in separata sede, li hanno “interrogati”. Nel frattempo altri soldati perquisivano le case ad una ad una distruggendo tutto quello che trovavano, svuotando gli scaffali, le dispense e gli armadi. Alcune abitazioni di Dheisheh sono state fatte saltare con la dinamite.
Anche l’Università di Betlemme è stata attaccata da una incursione israeliana.

In risposta a queste e ad altre violenze, i pacifisti israeliani non sono inattivi.
A Tul Karm si è diretto un convoglio di aiuti, mentre a Gerusalemme, di fronte alla casa del Primo Ministro, Peace Now ha organizzato una veglia permanente, con cartelli continuamente – e tristemente – aggiornati che riportano il numero di morti sui due fronti.
Le Donne in Nero esortano la popolazione – maschile e femminile – ad unirsi alle loro manifestazioni per la pace, disseminate nelle maggiori città di Israele. A Tel-Aviv si sono svolte proteste nei campus universitari. A Ramallah e a Geneva l’associazione di medici Physicians for Human Rights ha emesso diversi appelli, chiedendo tra l’altro contributi economici per acquistare medicinali e materiale chirurgico per prestare soccorso ai feriti, e ha manifestato per denunciare gli attacchi dell’esercito israeliano contro le ambulanze.
Nel frattempo il numero dei soldati e degli ufficiali israeliani che hanno rifiutato l’occupazione, alla data dell’13 marzo, era passato a 333, mentre l’associazione dei Genitori per la Pace, che comprende familiari di vittime israeliane e palestinesi, per la seconda volta nel giro di pochi mesi ha organizzato di fronte al Museo di Tel-Aviv una manifestazione di denuncia con due bare coperte dalle bandiere israeliana e palestinese, in commemorazione di tutte le vittime.
Il feretro simbolico è partito poi alla volta degli Stati Uniti, dove la cerimonia funebre è stata ripetuta a New York, di fronte alla sede delle Nazioni Unite, e a Washington, con l’intento di scuotere la coscienza della comunità internazionale.

Con lo stesso obiettivo circa 700 pacifisti, artisti e intellettuali israeliani hanno deciso di sottoscrivere una petizione da inviare alle Nazioni Unite, per chiedere l’invio urgente di una forza internazionale di pace che interrompa il ciclo di violenze. La lettera, inviata a Kofi Annan, Romano Prodi e Colin Powell, è stata ignorata dai media israeliani, e per questo i 700 hanno deciso di autotassarsi per pubblicarlo, come annuncio, su un’intera pagina del quotidiano israeliano Ha’aretz.
Il testo originario, che pubblichiamo integralmente di seguito, comprende anche le indicazioni per un processo di pace, indicazioni che i stessi promotori, a soli cinque giorni di distanza, ritenevano già “fuori contesto”, paralizzati dall’incremento delle violenze, e decidevano di riassumere il loro appello in una sola richiesta: l’intervento immediato delle Nazioni Unite, degli USA e dell’Unione Europea.

Materiale dettagliato su questi ed altri eventi può essere consultato sul sito di Azione Nonviolenta, www.nonviolenti.org.

LICENZA GLOBALE DI UCCIDERE

Di Massimiliano Pilati

Il 30 gennaio scorso, con un tacito accordo tra maggioranza e opposizione e le rimostranze di pochi e isolati parlamentari, si è concluso alla Camera l’esame del Disegno di Legge n. 1927 che, se approvato, porterà gravi modifiche alla legge 185/’90 sul controllo del commercio delle armi.
Il Disegno di legge intenderebbe “facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria europea per la difesa” secondo le direttive di un “accordo-quadro” sottoscritto a Farnborough il 27 luglio 2000 dai ministri della difesa di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Svezia. La normativa in discussione introduce un nuovo tipo di autorizzazione per il commercio delle armi: la “licenza globale di progetto”. Questa “licenza “esclude dal controllo parlamentare e della società civile tutte le operazioni svolte nel quadro di programmi intergovernativi e adegua l’Italia alle normative di Paesi più permissivi in materia di commercio d’armi. La giustificazione che viene data è di “conformarsi ai requisiti della nuova Europa”. Ma non si capisce perché mai quello della produzione e del commercio delle armi debba diventare il primo settore in cui l’Italia rinuncia alla propria normativa nazionale. Sarebbe auspicabile, invece, che l’Italia richiedesse agli altri Paesi Europei maggiore severità nel controllo dell’export delle proprie armi e maggiore impegno nella prevenzione dei conflitti e per il disarmo.
Grazie alla pronta reazione di alcune associazioni (Peacelink, Vita, Rete Lilliput più molte altre, ora coordinate nella campagna “io difendo la 185”), che in pochi giorni hanno convinto migliaia di italiane e italiani a mobilitarsi scrivendo ai propri parlamentari contro questa proposta di modifica di legge, si è riusciti a spostare la data di discussione che era fissata per fine febbraio o al massimo per gli inizi di marzo. Grazie ai vari appelli e a molti incontri con alcuni parlamentari si è anche riusciti a far aprire loro gli occhi sulla scelleratezza di questo progetto. Purtroppo al momento solo alcuni parlamentari di centro sinistra e di sinistra si sono espressi contro la modifica alla legge 185/90. Questo significa che allo stato delle cose la legge passerebbe così come è.
La legge 185/90 è stata una grande conquista civile voluta dalle associazioni pacifiste e di solidarietà internazionale. Consente di bloccare le esportazioni di armi verso nazioni che violano i diritti umani o che fanno guerra; consente inoltre un controllo parlamentare e una verifica della destinazione finale delle armi inviate, evitando “triangolazioni”. Nel corso degli anni attraverso norme applicative sempre più lassiste il potere di controllo della legge è stato ammorbidito per far piacere ai mercanti di armi. Durante il governo D’Alema era stata tentata una modifica alla legge per rendere sempre più facili le esportazioni di armi verso nazioni che potrebbero farne pessimo uso; ma questo tentativo fu bloccato per l’insorgere di Amnesty International e altre associazioni. Ora i mercanti di armi stanno tornando alla carica e sono riusciti a creare un ampio fronte che unisce maggioranza e opposizione, a parte qualche sparuta voce contraria.
Il Movimento Nonviolento chiede alle proprie attiviste e ai propri attivisti, ai lettori e alle lettrici di Azione nonviolenta e a tutte le amiche e gli amici della nonviolenza di mobilitarsi contro questo orrendo progetto. Vi chiediamo di aderire all’appello della campagna “io difendo la 185”; firmandolo e raccogliendo a vostra volta firme. Vi chiediamo di scrivere ai vostri parlamentari (di destra o sinistra che siano), di cercare di coinvolgerli in pubblici dibattiti su questo tema. Cercate di coinvolgere più associazioni possibili, dagli Scout ai Social Forum cercando di allargare il più possibile il dissenso. Attivatevi e contattate i vostri consiglieri comunali, provinciali e regionali pregandoli di portare nei loro consigli la discussione sulla modifica alla legge 185 e di cercare di far passare una mozione contraria a questo progetto. Fate circolare la notizia sui giornali locali, perché purtroppo, la stampa sta parlando pochissimo di questo disegno di legge. Maggiori informazioni sulla modifica alla legge 185 e sulle iniziative contrarie e a questo passo sono reperibili sul sito www.retelilliput.org.

ALTERNATIVE

A cura di Gianni Scotto

Involuzione italiana e resistenza nonviolenta

Il governo dell’attuale presidente del consiglio e le forze che lo sostengono perseguono senza sosta la limitazione dello stato di diritto, la chiusura di spazi di libera espressione, il dominio sugli apparati dello stato e la compressione dei diritti sociali. È uno scontro frontale in cui tutto viene rimesso in discussione: l’autonomia della magistratura, il senso del passato, i diritti dei cittadini e dei lavoratori, l’appartenenza dell’Italia alla cerchia interna dei paesi dell’Unione Europea. Non passa quasi giorno senza che rappresentanti di primo o di secondo piano dell’attuale maggioranza governativa non effettuino una nuova forzatura, una nuova messa in discussione di diritti, libertà, conquiste della giustizia. La conclusione provvisoria di questo processo è stata la nomina di un Consiglio di Amministrazione della televisione pubblica amico della maggioranza di governo e un disegno di legge sul conflitto di interessi che… salva gli interessi privati di Silvio Berlusconi.

L’Italia è profondamente divisa tra quanti sostengono – con diversi gradi di convinzione e con motivazioni diverse – questo processo di involuzione, e quanti vi si oppongono. E proprio questa polarizzazione è uno degli ingredienti più pericolosi della situazione attuale.
L’attuale regime si fonda sull’appoggio di potenti istituzioni (la parte conservatrice della chiesa, l’associazione degli industriali), sul consenso attivo di un numero rilevante di cittadini e sull’acquiescenza di una gran parte del paese. Le basi di potere del regime, ancorché imponenti, sono però fondamentalmente fragili: non si spiegherebbe altrimenti la continua ansia di “escalation”, la rischiosa apertura di sempre nuovi fronti di conflitto, che caratterizza la stagione politica attuale.

L’altra parte del paese sembra finora tramortita e incapace di articolare una reazione. Ci sembra tuttavia di poter identificare cinque “fuochi di resistenza” all’involuzione berlusconiana, in cui si sta articolando in maniera sempre più precisa l’opposizione:
lo stato di diritto: quindi la tutela del principio che la legge è uguale per tutti, la difesa dell’autonomia della magistratura e del principio liberale della separazione dei poteri
i diritti sociali: la difesa della scuola pubblica, dell’accesso universale ai servizi sociali come la sanità, la difesa dei lavoratori dai licenziamenti arbitrari
il pluralismo dell’informazione: il contrasto a un’elite politica (peggio : a una persona sola!) del controllo diretto sulla televisione e su buona parte della stampa.
la pace: l’opposizione a una politica acritica verso la guerra globale condotta oggi dagli Stati Uniti, per una politica di pace del nostro paese e dell’Unione Europea
l’integrazione europea: il proseguimento del processo di integrazione democratica dell’Unione Europea

Ognuno di questi “fuochi” raccoglie forze e culture disparate, alcune solo in parte rappresentate nel panorama politico attuale (i movimenti per la pace), altre apparentemente di secondo piano (i settori della società di spirito europeo), altre ancora dotate di forme tradizionalmente robuste di rappresentanza e organizzazione (i sindacati). I movimenti per la pace si trovano inoltre di fronte al peculiare problema di non potersi riconoscere nelle principali forze dell’attuale opposizione politica, responsabili tra l’altro della guerra del Kosovo (e, in alcuni settori, dell’appoggio al regime di Milosevic). Discorso simile vale per i movimenti sociali.

Una difesa nonviolenta dei principi della convivenza civile nel nostro paese è senz’altro possibile. Finora però i rappresentanti dei diversi “fuochi” si sono mossi in ordine sparso, né si è cristallizzato un movimento nonviolento capace di azioni incisive. Oggi possiamo osservare una volontà diffusa di opporsi e di agire, una serie di azioni e di proposte eterogenee e di impatto diverso: segnaliamo solo la manifestazione indetta da docenti universitari fiorentini, a cui hanno partecipato oltre diecimila persone: l’abbraccio simbolico dei palazzi di giustizia di Milano e Roma, l’iniziativa di una domenica senza televisione lanciata con successo da un gruppo di nonviolenti; e così via.
Per ora possiamo registrare che “qualcosa si muove”: e bisogna lavorare affinché questo “qualcosa” sia ispirato ai principi della nonviolenza, e perciò robusto e impermeabile alle provocazioni del potere o ai velleitarisimi di movimenti di passate stagioni. Oggi forse è necessario inaugurare una stagione di difesa popolare nonviolenta dei principi del vivere civile nel nostro paese.
È un bene che in questo momento il mondo della nonviolenza abbia espresso un maturo programma di formazione: un’offerta di “form/azione” diretta anzitutto ai movimenti ispirati alla nonviolenza, e un progetto di formazione di formatori, cioè di moltiplicazione delle competenze formative. È un contributo di grande importanza per la crescita di una cultura della nonviolenza e della cittadinanza attiva
A ciascun gruppo, a ciascuna persona spetta ora interrogarsi sul contributo che potrà dare.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

Come Harry divenne un albero

di Goran Paskaljevic
Durata: 100’
Origine: Gran Bretagna/Irlanda/Italia
Anno: 2001 – Uscita: marzo 2002

“Come Harry divenne un albero” ovvero, come un uomo che sa solo odiare diviene quello che è.
1924: il cupo villaggio di Skillet, la terra fangosa e pesante della campagna irlandese, sempre bagnata da un cielo carico di pioggia e rancore, è l’ambientazione scelta da Goran Paskaljevic per il suo ultimo film, presentato in concorso alla passata Mostra di Venezia.
Harry è un uomo rozzo, abbruttito dalla perdita del figlio prediletto, Pat, nella guerra civile del 1921, e dalla conseguente morte di crepacuore della moglie. E’ da questo “nodo” irrisolto, da questo dolore mai elaborato, che inizia la tragedia di uomo ridicolo, grottesco, che si inventa un nemico per dare nuovamente senso alla sua esistenza. Rude e primitivo come il mondo che lo circonda, Harry è angosciato da un sogno ricorrente nel quale le sue robuste gambe divengono radici, e le sue mani dalle tozze dita, possenti rami di un maestoso albero secolare. La sua difficile esistenza, fatta di fatiche, povertà e perdite, lo conduce a chiudersi sempre più in se stesso, e lo rende vittima di una crescente paranoia che lo porta ad elaborare assurdi e strampalati complotti. Se a farlo vivere non è più l’amore, sarà forse l’odio a permettergli di sopravvivere. Lucidamente e freddamente, Harry sceglie come bersaglio l’uomo più importante e ricco del paese, George Flaherty: distruggere la sua reputazione, la sua serenità familiare, la sua ricchezza, la sua vita, diventa un’instancabile ossessione quotidiana.
Il regista serbo Paskaljevic ha sceneggiato un racconto favolistico del cinese Yang Zhengguang, riambientandolo nell’Irlanda del 1924, nella convinzione dichiarata che la vicenda possedesse una dimensione universale. «Non volevo fare un film storico – ha dichiarato in un’intervista – , ma piuttosto filosofico: una specie di favola sull’assurdità dell’odio, e sulla necessità di odiare per sentirsi vivi. “Un uomo si misura dalla grandezza dei suoi nemici. Devi avere un nemico forte da distruggere, così la tua gloria sarà più grande”, dice Harry al figlio Gus, e questa è anche una frase di Milosevic».
Ecco allora che questo film diviene però anche occasione per parlare, indirettamente, della Serbia. Per le sue idee politiche e la sua opposizione al regime di Milosevic, Paskaljevic non ha potuto girare il film in patria, come avrebbe voluto: la scelta quindi è caduta sull’Irlanda «che ha moltissimi aspetti in comune con la mia terra, a cominciare da una lotta con i nemici lunga centinaia di anni (gli irlandesi hanno odiato gli inglesi per settecento anni, e i serbi hanno avuto cinquecento anni di impero turco). Non a caso irlandesi e serbi si somigliano: sono duri, ostinati, chiusi nell’isolamento della loro terra, e hanno lo stesso duro senso dell’umorismo».
Al di là di questi precisi riferimenti storico-geografici resta ad ogni modo ferma l’intenzione di Paskaljevic di narrare una “favola grottesca” sulle radici universali dell’odio: Harry è “l’uomo che sa solo odiare”. La “guerra” ingaggiata con il suo “nemico”(ignaro, dal canto suo, di essere tale) è surreale, assurda, produce situazioni paradossali e grottesche; ogni più piccola occasione diventa pretesto per la sua “sacrosanta” vendetta, da ottenere con qualsiasi mezzo, anche a costo di infliggersi delle ferite o di mettere a repentaglio la felicità matrimoniale del suo secondogenito, Gus, e addirittura la sua stessa incolumità. Il suo odio assurdo quanto implacabile si spargerà tutto intorno a lui, nella sua comunità, provocando conseguenze che lo stesso Harry non avrebbe previsto né desiderato. E dopo aver prodotto “macerie e lutti”, meschinità e soprusi, dopo essere rimasto completamente solo nella sua follia, la “favola” di Harry si chiude con la sua metamorfosi nel possente albero secolare che egli sognava di diventare: un albero che affonda le radici in una terra e in un passato fatto di violenza, di divisioni sociali, di fratture e di antichi rancori, e si erge alto e possente nel cielo come solo un albero secolare può fare, un albero che per secoli, appunto, minaccia di continuare a gettare la sua ombra scura e potente su una terra già a lungo tormentata.
Ma il figlio di Harry, Gus, che trova, nell’amore per la giovane moglie, la forza di opporsi al padre e al suo odio contagioso, e di fuggire lontano dalla sua ombra di morte, incarna l’augurio e la speranza di Paskaljevic per un futuro libero dalla follia dell’odio e della violenza.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Famiglie in rete per consumi leggeri

Questo mese intervistiamo Antonella Valer, del gruppo promotori della campagna BILANCI DI GIUSTIZIA, autrice del libro “Bilanci di Giustizia: famiglie in rete per consumi leggeri”.

Come è nata e che cos’è l’operazione “Bilanci di Giustizia” ?
Nel settembre 1993 i “Beati i Costruttori di Pace” convocarono a Verona un’assemblea dal titolo “quando l’economia uccide…bisogna cambiare!”. Durante quell’incontro non ci fermammo all’aspetto della denuncia ma cercammo di orientarci verso una proposta concreta, chiedendo ad ognuno di noi un’assunzione di responsabilità. Come consumatori ci sentivamo parte attiva nel meccanismo economico giudicato ingiusto e quindi decidemmo di partire a cambiare le cose dai nostri consumi quotidiani cominciando a rivederli secondo criteri di giustizia e a “spostarli” seguendo criteri etici ed ecologici. Partendo, poi, dal ragionamento che maggiori consumi e maggiori risorse per noi significavano anche minori risorse per altri abbiamo assunto l’obiettivo di diventare dei “consumatori leggeri” per uno sviluppo sostenibile. Abbiamo, infine, formulato l’ipotesi (ancora parzialmente da dimostrare) che ad un minore livello di consumi e di scelte di sobrietà quotidiana non corrisponda necessariamente un abbassamento della qualità di vita, ma anzi ne derivi un miglioramento, stiamo, quindi, cercando di indagare gli effetti che le nostre scelte di consumo hanno sulla qualità della nostra vita. E’ già un dato di fatto però che molti bilancisti si sentono più liberi e rilassati perché meno condizionati dai modelli di consumo standard. Quello che facciamo, in definitiva, è l’interrogarci sul nostro modo di stare al mondo e di come possiamo agire affinché si possa avere un impatto col pianeta non distruttivo. E’ per questo che non abbiamo un unico modo di agire, ma ne sperimentiamo molti. Il porsi delle domande, il compilare le schede permette l’attivazione di processi di coscientizzazione che sono già di per se un risultato importantissimo; ci permette di essere persone consapevoli.

Avete delle schede da compilare…come funziona?
Per poter capire l’entità degli spostamenti nei nostri consumi ci siamo dati degli strumenti che consentano di monitorare i reali cambiamenti delle famiglie aderenti. L’uso di questi strumenti permette alla famiglia di verificare il proprio comportamento e la raccolta e l’analisi di tutte queste schede, consentono di offrire un segno collettivo che evidenzia i cambiamenti sociali ed economici reali che ci sarebbero se il nostro stile di consumi si ampliasse a molte altre persone. Utilizziamo delle schede mensili, stagionali e un riepilogo annuale per rivedere i nostri consumi, i nostri comportamenti e per fare un bilancio di tutto questo. Ogni famiglia aderente all’iniziativa invia questo materiale alla segreteria nazionale che cura un’elaborazione statistica dei dati. Il rapporto annuale che ne scaturisce consente di far conoscere i comportamenti sperimentati dalla singola famiglia bilancista e di offrire il segno collettivo dell’iniziativa all’esterno, le singole esperienze raccolte sono infatti un segno pubblico di rilievo economico e politico. Ci permette di dire che le nostre scelte di vita sono possibili, che è possibile cercare di vivere seguendo un diverso stile e soprattutto che abbiamo i dati per dimostrarlo.

Usate molto termini come autoproduzione, riduzione dei consumi, sobrietà. Ricordano molto lo stile di vita proposto da Gandhi….
Gandhi è stato un precursore, ha parlato per primo di questi concetti, del punto di vista del Sud del mondo. Inoltre univa alla lotta politica attiva una profonda riflessione e ricerca di uno stile di vita che fosse sostenibile nel piccolo e proponibile su scala nazionale. Certamente la nostra campagna è in sintonia con quanto lui sosteneva, soprattutto quando metteva in discussione il fatto che il modello economico “occidentale” servisse al benessere delle persone, ma non possiamo dire che abbiamo attinto a Gandhi per l’ideazione di “Bilanci di Giustizia”.

Qual è l contributo dei Bilanci alla Rete di Lilliput?
Bilanci è uno dei promotori della Rete. La nostra campagna vi partecipa soprattutto contribuendo sui temi legati all’area della “impronta ecologica e sociale”. A volte nella Rete emerge, non senza ragione, maggiormente l’aspetto “di critica” e “protesta” più che non quello della proposta di alternative concrete, che partono anche dalla revisione dei propri stili di vita, e questo ha portato a volte a delle incomprensioni. Credo che nella Rete ci sia bisogno di trovare un giusto equilibrio tra queste due componenti, anche per essere più credibili e riuscire a “comunicare” con chi ancora non si è posto troppe domande sulla sostenibilità del modello attuale di produrre, consumare e scambiare…

Info:
Bilanci di Giustizia c/o MAG Venezia, Via Trieste 82/C, 30175 Venezia Marghera, Tel. 041/5381479 – Fax 041/5388190
e-mail: bilanci@libero.it – http://www.unimondo.org/bilancidigiustizia
Pubblicazioni:
“Bilanci di Giustizia: famiglie in rete per consumi leggeri” [Ed. EMI]
“Operazione Bilanci di Giustizia” – Rapporto 2000. [a cura della Segreteria Nazionale].

MUSICA
A cura di Paolo Predieri

Mille papaveri rossi
La pace nella canzone italiana

Poiché abbiamo storicizzato il nostro itinerario – prima con la Grande Guerra, poi con l’ultima – arriviamo al 1946. La guerra finalmente è finita, anche se si presenta con un aspetto sinistro di rovine e macerie: “un paesaggio che non va”, come dice Paolo Conte. E credo che nessuno in fondo come Paolo Conte abbia saputo rendere meglio la ripresa della vita, lo sforzo di guardare in su anziché all’intorno, per poter tornare a vivere ed amare, con la sua Topolino amaranto, piccolo consolante simbolo della rinascita economica:“Oggi la benzina è rincarata/ è l’estate del Quarantasei/ un litro vale un chilo d’insalata/ ma chi ci rinuncia? a piedi chi va?/ l’auto che comodità/ Sulla Topolino amaranto/ dai siedimi accanto che adesso si va”.
Pur dando per scontato ciò che ho detto prima (che la pace è comunque migliore della guerra), tuttavia essa può anche deludere. Quella che canta Franco Battiato in “Il Re del Mondo” è in pratica la pace attuale: una pace appunto di pessima qualità. Battiato nota innanzitutto come una volta la guerra “stonava” di più, per così dire, ed ora ci si è più abituati (e già questo è un sintomo pericoloso). Poi rileva come questa pace sia fittizia, perché controllata e condizionata da un “re del mondo” e scadente, perché scadente è la qualità della vita. Infine, è una pace inutile, perché nemmeno la protezione delle grandi potenze ci salverà dalla fine…: “Un giorno in cielo fuochi di Bengala/ la Pace ritornò/ ma il Re del Mondo/ ci tiene prigioniero il Cuore/ nei vestiti bianchi a ruota/ echi delle Danze Sufi/ nelle metro giapponesi oggi/ macchine d’Ossigeno”.
Una pace, quella attuale, che contiene purtroppo in sé il presagio della guerra, ossia il pericolo nucleare. Sono molte le canzoni che, più o meno seriamente, vi fanno riferimento. Di Lucio Dalla, per esempio, ve ne sono diverse, anche molto belle. Di lui, però, vorrei segnalarne una, su questo tema, molto meno nota e molto più vecchia (fra le sue prime): nel 1966 scritta e “1999” intitolata. Il testo di Sergio Bardotti prefigura che dopo la distruzione nucleare “scoppierà la pace”: una pace lugubre, senza vita; non ci si odierà più perché non ci sarà più nessuno da odiare e all’unico superstite non resterà che riprendere irriducibilmente la guerra… ma con se stesso. “Aspettavo che venisse il momento/ ora parlo solamente col vento/ finalmente questo mondo è più bello/ il fratello più non odia il fratello”.
La situazione cantata da Dalla è l’opposta di “Noi non ci saremo” di Francesco Guccini (un altro che ha dedicato più d’una bella canzone alla bomba atomica e in generale alla violenza politico-militare). Qui infatti la vita riprende a poco a poco dopo la distruzione; anche se non potrà mai più riprendere la vita di coloro che ne saranno stati vittime dirette: “Vedremo soltanto una sfera di fuoco/ più grande del sole, più vasta del mondo/ nemmeno un grido risuonerà/ (…) E catene di monti coperte di neve/ saranno confine a foreste di abeti/ mai mano d’uomo le toccherà/ e solo il silenzio come un sudario si stenderà/ fra il cielo e la terra per mille secoli almeno/ ma noi non ci saremo…”.
Detto tutto ciò, è tanto più comprensibile lo svilupparsi in questi anni di un movimento pacifista attivo, militante, “praticante”, da contrapporre a quello astratto e ipocrita di molti uomini di potere. Dire semplicemente… “Viva la pace” è troppo facile e già nel 1959 lo rilevava Michele L. Straniero, intitolando così ironicamente questa satira su musica di Sergio Liberovici: “Io li credo e benedico/ ma un gran dubbio, ve lo dico, mi costerna:/ che la pace tanto pia di costoro poi non sia quella eterna!”.
A questo punto devo confessare che, se il materiale “pacifista” da cui ho dovuto scegliere era enorme, altrettanto enorme sarebbe stato il repertorio di canzoni militariste, eroiche e guerrafondaie. In molti casi, peraltro, l’effetto tragicomico di queste canzoni avrebbe potuto benissimo funzionare in chiave opposta e cioè pacifista. C’è per esempio un personaggio in Italia, Paolo Poli, il quale questa operazione di rovesciamento ha condotto in maniera sistematica su questo tipo di canzone e in genere sulla canzone “cattiva”. Se vogliamo dare alla pace il valore di un’ironia sulla guerra, ebbene, anche quella di Paolo Poli è una civile lezione di pace. A lui affidiamo sorridendo il “gran finale”:
“Soldatini di ferro così/ questi marciano e quelli stan lì/ Chiede il bimbo: papà per favor/ sono fatti di ferro anche lor?/ Serio in viso il papà dice no/ son di ferro ma in petto hanno un cuor/ I soldati d’Italia oggidì/ son di ferro e son tutti così!”(Soldatini di ferro)

“Quando la bella tua ti ha salutato/ ha colto tante rose nel giardino/ ne ha fatto un grande mazzo profumato/ perché lo porti in dono all’abissino!/ Le rose io le porto/ son belle ed ottobrine/ ma se vorrai le spine/ le spine ti darò!” (Canto dei volontari)

Enrico de Angelis
(2° parte – Fine)

Dagli anni Ottanta ad oggi
di Enrico de Angelis

A 18 anni dal lavoro sulla canzone d’autore e la pace che abbiamo ripubblicato, alcune riflessioni dell’autore su questo periodo e sulle evoluzioni che hanno avuto i rapporti fra guerra, pace e musica.

Gli anni Ottanta ce li ricordiamo tutti: anche su questo fronte ci fu una caduta di sensibilità generale ai temi di impegno civile, risollevatasi per fortuna, pian piano, nel decennio successivo. La degenerazione globale del pianeta sempre più evidente negli ultimi anni e ahimè molti atroci conflitti anche vicinissimi come quelli nella ex Jugoslavia hanno riportato diversi autori a battersi anche in canzone per una più pacifica qualità della vita. Sui fatti della Jugoslavia, per esempio, ricordo toccanti canzoni come “Cupe vampe” dei Csi, “Gli ultimi fuochi” di Alice e “Sarajevo” di David Riondino.
Alcuni degli autori che hanno continuato nel loro cammino antimilitarista sono i grandi cantautori di sempre: De Gregori, Guccini, Nannini, Jannacci, Paoli, Dalla, Vecchioni, Bennato, Battiato, De Sio, e forse sopra ogni altro Fossati. Ma, tanto per citare anche un artista per così dire “minore”, ricordo il bel ritratto di un disertore in “Clochard” di Grazia Di Michele. Per una particolare sensibilità su questi temi vanno poi citati i nomi delle generazioni più giovani, a cominciare da Jovanotti, ma anche altri meno popolari come Giancarlo Onorato, Pippo Pollina, Luca Bonaffini. Si sa però che negli anni ’90 i fermenti più vivi e innovativi nella canzone d’autore sono venuti dai cosiddetti gruppi, i quali – un po’ eredi di predecessori quali i sempiterni Nomadi, il Banco, i Litfiba, i Tazenda – si sono fortemente distinti anche sul terreno di cui ci stiamo occupando, o per motivata grinta antibellicista o anche solo per una più generica vocazione pacifista; e sono questi i Pitura Freska, gli Almamegretta, gli Agricantus, gli Avion Travel, gli Ustmamò, i Modena City Ramblers, il Parto delle Nuvole Pesanti, i Calicanto, i Zum Teufel, ecc.
Una cosa va rilevata nel repertorio antimilitarista degli ultimi anni: le canzoni hanno assunto sempre più una piega narrativa, anziché ideologica o addirittura sloganistica. La maggioranza di questi brani consiste in racconti molto precisati e storicizzati intorno a vicende, momenti, personaggi ed episodi di guerra (in questo filone un autore che primeggia per prolificità creativa è senz’altro Massimo Bubola). Trovo questo un orientamento molto interessante. Sono convinto che per alimentare una consapevolezza intorno alla vera natura delle guerre, più che mille parole astratte serva molto meglio una storia concreta, fatta di luoghi, date, drammi personali e volti umani.

Uomini senza terra

Con questo nuovo cd (che esce a due anni di distanza dal precedente “Profondo nord”) Paolo Bergamaschi ha raggiunto la sua piena maturità musicale. Musica e parole si sposano in perfetta sintonia. Lo stile è sempre quello delle sonorità folk legate all’impegno civile. La musica, eseguita dai bravissimi “…e i suoi suonatori” (si tratta di 6 ottimi musicisti: Marcello Bergamaschi, polistrumentista, nonché fratello del nostro; Lorenzo Bellini, Massimiliano Savioli, Stefano dell’Amico, che ha curato gli arrangiamenti; Simone Guiducci e Fausto Beccalossi), è in piena armonia con l’ambientazione descritta dai testi.
Sono storie, poesie, istantanee, racconti, quadri, quelli che ci fa ascoltare Paolo con questa sua opera. Alcuni motivi sono immediatamente orecchiabili, altri più “difficili”, ma tutti molto curati.
Il pezzo che dà il titolo al cd, Uomini senza tempo, è un gioiello. Particolarissima, e struggente, il Tango di Parma, che insieme a La nebbia del Po (un’ottima reinterpretazione di Fog on the Tyne di Alan Hull) ci fanno “vedere” quelle terre padane dove Paolo è nato e mantiene la sua àncora, da dove parte e ritorna per quel suo girovagare in Europa e nelle terre dei conflitti dove ha visto gli sguardi di troppi uomini senza terra.
Mi trovavo ad Amman, in Giordania. Un giorno mi portarono a visitare un campo di rifugiati palestinesi. Quella sera, al ritorno in hotel, smanettando con il telecomando il mio occhio cadde su un documentario sui profughi italiani che abbandonavano l’Istria in nave verso Venezia durante il secondo conflitto mondiale. Nei loro volti le stesse espressioni che avevo notato durante il giorno fra i Palestinesi più anziani…Ho provato le stesse sensazioni, ho sentito le stesse storie nella ex-Jugoslavia, in Caucaso, in Israele.
Palo Bergamaschi e i suoi suonatori, Uomini senza terra, testi e musiche di Paolo Bergamaschi.
Richiedere alla Redazione di Aziona nonviolenta.
www.paolobergamaschi.it

STORIA
A cura di Sergio Albesano
L’antimilitarismo ai tempi del fascismo

Il fascismo fu impregnato di militarismo e di retorica guerrafondaia e perciò durante il ventennio le prese di posizione a favore della pace furono estremamente poche. La condanna del pacifismo fu codificata nell’articolo “Dottrina del fascismo” dell’Enciclopedia Treccani (vol. XIV, 1932) firmato da Mussolini stesso. Vi si leggeva: “Il fascismo (…) non crede alla possibilità né all’utilità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta – una viltà – di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla.” In particolare l’obiezione di coscienza diveniva improponibile perché un cittadino non poteva appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di adempiere ai doveri fissati per legge dallo Stato” 1. Non si ebbero, pertanto, obiezioni in senso classico. Uno dei pochi casi di rifiuto di indossare la divisa fu quello di Claudio Baglietto, che nel 1932 decise di restare all’estero per non essere costretto a svolgere il servizio militare in Italia. In una lettera del 5 dicembre 1932 egli chiarì il suo gesto: “Quello che io penso non si possa ammettere è il servizio militare, dato quello che esso implica (…) nella forma presente. Per lo meno il servizio militare obbligatorio. E quindi io in Italia non tornerei qualunque regime ci fosse, anche liberale o di sinistra quanto si può pensare, quando ci fosse il servizio militare obbligatorio. E così non tornerei in patria, essendone fuori, se fossi cittadino francese, o svizzero, o belga e di quasi tutti gli Stati del mondo. L’inammissibilità e l’utilità pratica di agire in tal modo saranno da vedere a parte, ma così di fatto penso.”
Benedetto Croce in diverse occasioni con la sua caustica penna derise le correnti e le aspirazioni pacifiste, considerandole idee di uomini in ritardo con la storia. Nella Filosofia della pratica, ad esempio, scrisse che la guerra è “intrinseca alla realtà” e “insita alla vita”. Perciò una responsabilità morale del clima di esaltazione della violenza tipica della retorica fascista va messa in conto a quella corrente filosofica e culturale italiana dei primi decenni del secolo che fu definita idealismo o neohegelianismo crociano o gentiliano, dal nome dei loro autori. Dobbiamo però anche aggiungere che Croce seppe tener testa alla tirannia e che il regime lo avrebbe volentieri eliminato se non fosse stato per la sua fama mondiale.
La tradizione antimilitarista del movimento operaio e dei comunisti rimase viva anche durante il ventennio, ma mancarono risultati concreti, perché la repressione fascista riuscì a soffocarne i tentativi. Il dibattito fu ricco ed energica la lotta clandestina, ma la situazione politica contingente spinse il P.C.d’I. a rompere i rapporti con le altre forze antifasciste (liquidate con l’etichetta di socialfasciste). La durezza della repressione, le difficoltà obiettive e le divisioni del fronte avverso al fascismo portarono l’attivismo generoso dei comunisti all’insuccesso. Dobbiamo però evidenziare che per il P.C.d’I. non si può parlare di antimilitarismo, poiché, anche se esso combatté l’istituzione militare del regime fascista, formò una sua struttura militare organizzata gerarchicamente. Più correttamente possiamo dire che esso fu antistatalista e che all’interno dell’esercito perseguì una linea disfattista. Così “Stato operaio”, la rivista teorica del P.C.d’I., nel 1932 scriveva: “Condizione essenziale per disarmare la borghesia e per armare il proletariato è il lavoro nell’esercito, per portarvi la lotta di classe, per rendere coscienti i giovani operai e contadini che vestono la casacca militare dei loro interessi e doveri di classe e quindi portarli a lottare a fianco dei lavoratori tutti. E’ per questo che il lavoro antimilitarista è uno dei compiti essenziali dei comunisti. (…) I socialfascisti non mancano di farsi anche loro tutori dell’integrità dell’esercito, perché essi sanno benissimo che disgregarlo vuol dire colpire a morte quello Stato borghese che essi vogliono salvare” 2.
Una personalità che si impegnò in campo pacifista fu il fondatore del Partito Popolare don Luigi Sturzo. Per diversi anni andò ripetendo a livello europeo la necessità di rifiutare il servizio militare attraverso l’obiezione di coscienza sia in tempo di pace che in quello di guerra, come mezzo indispensabile per far cessare ogni conflitto armato. Egli scrisse: “L’obiezione di coscienza non è che una negazione pratica e cosciente del diritto dello Stato a fare la guerra. (…) Si dirà: – Così si fomenta la ribellione e l’anarchia. – Inesatto: se la gran parte dei cittadini fossero ‘obiettori’ di coscienza, cesserebbero le guerre” 3.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
La mostruosità di una mostra d’armi….

Cos’è Exa
Exa è la più grande esposizione al mondo di armi sportive, da caccia e da tiro, comuni da sparo; si svolge annualmente a Brescia e nel 2002, dal 13 al 16 aprile, se ne terrà la ventunesima edizione. Exa si propone come un evento tutto centrato sull’idilliaca passione per le armi da caccia, sportive, da collezione; in realtà, scorrendo la lista degli espositori dell’ultima edizione della mostra (e di quelle precedenti), si potrà comprendere come dietro la facciata dell’esposizione di armi sportive si nasconda una realtà diversa e ben più complessa. Grandi industrie che espongono a Exa destinano una parte rilevante della loro produzione alle armi da guerra, alle armi leggere e di piccolo calibro, alle dotazioni antisommossa, a sistemi di addestramento per operatori alla sicurezza.

Gli espositori
Primo tra tutti la Beretta, industria armiera bresciana a conduzione familiare con una storia plurisecolare, il cui profilo è quello di un’industria militare almeno in parte convertita al civile. La Beretta deve la propria fortuna alla prima guerra mondiale, e poi alle grandi forniture militari del periodo fascista; dopo una rapida riconversione postbellica ai fucili da caccia, la Beretta tornò alle commesse governative con l’adesione dell’Italia alla Nato, acquistando diverse aziende bresciane del settore come Uberti e Franchi.
Oggi la Beretta dichiara ufficialmente un fatturato militare pari soltanto al 25-30% della sua produzione, ma non è azzardato ipotizzare che nel 2000 la produzione militare abbia raggiunto il 40-50% del fatturato consolidato (valutabile in 500 miliardi), e che almeno la metà sia stata prodotta in Italia e da qui esportata. E poiché queste cifre sono lontanissime da quelle ricavabili sulla base delle autorizzazioni all’esportazione, si può ragionevolmente affermare che il gruppo Beretta aggira di fatto, anche se probabilmente del tutto legalmente, la legge 185/90, che sancisce il divieto di esportazione di armi verso paesi in stato di conflitto, in via di sviluppo, e verso quelli i cui governi sono responsabili di violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo.
Assediata negli USA da diverse azioni legali (Chicago, New Orleans, Los Angeles, Miami) condotte dai gruppi di pressione che invocano il divieto di commercio di armi al pubblico (azioni che hanno già portato colossi come Colt e Smith&Wesson ad uscire dal settore), Beretta in Italia gode invece di una tale immagine positiva da permettergli di commerciare anche abiti e spumante. Croce al merito della Repubblica Italiana, l’attuale proprietario Ugo Gussalli Beretta ha dovuto rinunciare solamente alla nomina di cavaliere del lavoro, a causa della sua attività giudicata non politicamente corretta.
Altri produttori espongono a Exa strumenti ad alta tecnologia e dotazioni in uso alle forza antisommossa delle polizie di paesi “democratici” e non; si va dalle cosiddette “armi meno che letali” ai gas lacrimogeni, dalle munizioni speciali agli spray irritanti, ecc. Gli espositori di Exa, quindi, coprono tutta la vasta gamma degli impieghi della produzione armiera.
Exa rappresenta dunque una vetrina per alcune tra le più importanti fabbriche d’armi al mondo; promuove l’uso delle armi a scopo ludico, sportivo, di difesa, ma costituisce occasione d’incontro e di affari anche per tipologie di armi a uso bellico e antisommossa. Le ragioni per boicottare Exa sono quindi molteplici e attraversano diversi temi tutti interni alla dimensione della globalizzazione capitalista.
Amnesty International fornisce dati, relativi all’anno 2000, secondo i quali l’Italia è il terzo paese esportatore di armi di piccolo calibro (dopo U.S.A. e Gran Bretagna), con valori che superano i trecento milioni di dollari. Tra i destinatari delle esportazioni legali di armi e munizioni si trovano stati coinvolti in conflitti, tra cui India, Pakistan, Eritrea e Etiopia, l’Uganda, la Sierra Leone, il Congo, l’ Algeria. Molti dei paesi destinatari sono teatro di violazioni dei diritti umani, come Turchia, Arabia Saudita, Cina e Indonesia. Si sottraggono invece a ogni controllo i traffici illegali, che nella maggior parte dei casi hanno all’ origine un trasferimento legale e poi, attraverso triangolazioni tra Stati e intermediazioni di organizzazioni criminali e trafficanti senza scrupoli, sfuggono agli embarghi e fanno perdere ogni traccia di sé.
Le armi leggere e di piccolo calibro sono le armi delle guerre moderne, provocano l’esacerbazione dei conflitti e rendono più difficili le soluzioni diplomatiche, ma aumentano anche il tasso di criminalità e le violazioni dei diritti umani. Exa quindi, dietro la facciata rassicurante che attira decine di migliaia di visitatori ogni anno, nasconde il suo vero volto di vetrina dei fabbricanti di strumenti di morte.

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Gruppo Abele, Torino 1997, pagg. 84, £ 12.000.

Da più parti si sente affermare che l’islam è una religione di pace, che nulla ha a che vedere con il fanatismo omicida degli integralisti e in questo filone si inserisce anche questo volumetto, che il Gruppo Abele ha stampato nel 1997 e che ora, sulla scia di quanto è accaduto l’11 settembre, ripropone con intelligenza e anche con fiuto commerciale. Sembrerebbe un istant book e invece si tratta di un testo già sedimentato. L’autore, professore alla Thammasat University di Bangkok in Thailandia, ci spiega con dovizia di citazioni che la jihad è ingiustamente interpretata come “guerra santa”, mentre in realtà il Corano insegna che non ci deve essere “alcuna coercizione in fatto di religione”. E allora com’è, viene da chiedersi, che in nome di un vero o fittizio islam si continuano a perpetrare attacchi terroristici, dominazioni crudeli di interi popoli e distruzione di opere d’arte che appartengono a tutta l’umanità?
Una sorte simile, a ben vedere, è stata riservata al cristianesimo, fondato da un uomo che si è lasciato uccidere in croce anziché combattere con le armi e che ha insegnato, fatto unico nella storia dell’uomo, ad amare i propri nemici. Eppure i suoi successori, in nome di quel Dio morto nell’ignominia, hanno scatenato guerre e tante altre ne hanno avallate. Si può forse dire che il cristianesimo sia una religione di pace? No, non lo si può dire, perché l’interpretazione dei Vangeli è affidata al Magistero e non al buon senso dei singoli. Quindi dobbiamo attenerci alla prescrizioni della Chiesa, che non esclude la pena di morte e non ha mai detto a parole chiare e ineludibili: “mai più guerre nel mondo”. Certo, il papa è preciso nel denunciare le guerre, ma immediatamente sorgono una accolita di porporati a spiegare che intendeva dire un’altra cosa.
Ritornando all’islam, come dobbiamo interpretarlo? Come una religione di pace, ripassandone la dottrina insieme a Satha-Anand, o come una religione violenta, come ci appare aprendo un quotidiano un giorno qualsiasi? Se non fosse troppo riduttiva, verrebbe da ricordare la frase pronunciata da un non credente: “Gli atei non faranno mai guerre di religione!”.
Il libro è formato da tre saggi, di cui molto interessante è l’ultimo, in cui l’autore affronta la contrapposizione fra la nonviolenza pragmatica e quella per principio, proponendo la tesi che entrambe sono necessarie. Infatti il nonviolento pragmatico dovrà essere coerente nei suoi pensieri e nel suo stile di vita se vuole operare efficacemente per un cambiamento in senso nonviolento della società, mentre un nonviolento per principio dovrà essere anche uno stratega, se non vuole che il suo ideale si areni fra i bei sogni irrealizzabili.

Jacques Sémelin, La non violenza spiegata ai giovani, Archinto, Milano 2001, pagg. 62, £12.000.

L’autore è noto in Italia soprattutto per il testo Senz’armi di fronte ad Hitler, ottima analisi delle lotte non armate avvenute durante il periodo della seconda guerra mondiale affrontata dall’ottica sociologica.
In questo nuovo libro, organizzato sotto forma di domande e risposte, egli spiega che cos’è la nonviolenza alle sue due figlie di tredici e otto anni.
Nel dialogo le ragazze pongono quesiti semplici: che cosa devo fare se qualcuno mi aggredisce? Come reagire alla violenza a scuola? E contro il razzismo? Una delle risposte offerte riguarda la formazione di alcuni studenti-mediatori e sarebbe auspicabile che nelle nostre scuole questa figura iniziasse ad essere presente e operante. Il genitore-autore risponde citando esempi storici e soprattutto essendo attendo a far capire che nonviolenza non significa passività. Quindi fornisce un elenco di principi dell’azione nonviolenta: 1) porsi obiettivi concreti e realistici; 2) agire in molti; 3) compiere azioni che abbiano la più ampia visibilità; 4) utilizzare la forza delle parole, che nasce quando si è uniti e si parla con una sola voce; 5) non usare la violenza nemmeno di fronte alle provocazioni.
Dopo gli attentati di New York e Washington e la reazione guidata dagli Stati Uniti, che ha preso la forma, considerata l’unica praticabile, di una guerra internazionale, c’era bisogno di un libro agevole come questo per guidare i giovani verso una concezione diversa della gestione del conflitto. Il vantaggio di questo volume è che, a differenza di quelli che in genere sono pubblicati sull’argomento, questo è stato stampato da una casa editrice che ha una distribuzione nazionale e quindi sarà un viatico importante per diffondere il nostro ideale fra tanti giovani lontani dai nostri ambienti.
Peccato per quel “non violenza” del titolo: evidentemente non si è ancora capito appieno il significato positivo del termine “nonviolenza” che, come insegnava Aldo Capitini, non si limita ad essere un rifiuto della violenza.

Sta per uscire
Quaderni Satyagraha
il metodo nonviolento per trascendere i conflitti e costruire la Pace.

Il tempo è maturo anche in Italia per una rivista scientifica di studi sulla Pace.
L’Agenda per la pace di Boutros-Ghali del 1992 prevedeva l’istituzione di corpi di Caschi Bianchi per l’interposizione non armata nei conflitti.
Nel 1998 l’approvazione della legge n.230 di riforma dell’obiezione di coscienza ha aperto un varco importante verso la sperimentazione e l’istituzione di forme di “difesa civile, non armata e nonviolenta” (cfr.- art. 8).
Ora l’istituzione presso le Università di Pisa e Firenze di corsi di laurea in Scienze per la Pace, offre l’opportunità per un lavoro sistematico di studio e formazione di personale capace di agire nei compiti della gestione, mediazione, trasformazione nonviolenta dei conflitti.
Il Movimento per la Pace ha di fronte a sé il compito di dotarsi, secondo l’invito di Gene Sharp, di una strategia che porti ad alternative funzionali agli eserciti e agli armamenti nel compito della difesa, della gestione delle crisi internazionali e del mantenimento della Pace.
In questa ottica sentiamo impellente l’urgenza di uno strumento di approfondimento e di formazione al metodo nonviolento.
Satyagraha, la testata della nostra rivista, esprime immediatamente il richiamo al paradigma sperimentale, creativo e costruttivo della nonviolenza gandhiana: Sat è l’essere, la verità intesa non come dogma da imporre, ma come ricerca, tensione verso la verità; Agraha è la forza della nonviolenza che agisce nei conflitti per trasformarli e trascenderli verso realtà di Pace.
La nonviolenza si presenta come metodo sperimentale di una scienza dei conflitti.
Nel sottotitolo, il riferimento al metodo indica, secondo l’etimologia del vocabolo greco méthodos, la ‘via’ (hodós) che conduce oltre (metá) il conflitto, che “lo trascende”. Il metodo nonviolento nel porre l’attenzione sul rapporto mezzi-fini si afferma come una nuova razionalità nella gestione dei conflitti più efficace delle strategie militari. A partire dalla consapevolezza che il conflitto di per sé non è distruttivo, il metodo di approccio al conflitto è decisivo per trasformare in modo creativo e nonviolento le realtà strutturali che generano l’ingiustizia e la guerra.
Alla pubblicazione di una rivista specifica di approfondimento scientifico della nonviolenza arriviamo con un ritardo quasi cinquantenale rispetto all’Europa del Nord e agli Stati Uniti, che hanno avuto come battistrada studiosi come Johan Galtung, Kenneth Boulding e Gene Sharp. L’Italia ha avuto innumerevoli maestri della nonviolenza (Capitini, don Milani, Lanza del Vasto, Danilo Dolci, ecc.), ma la loro azione è stata emarginata dalle grandi istituzioni culturali e ciò ha per lungo tempo impedito il passaggio a una riconoscimento istituzionale dei Peace Studies, trattati con diffidenza dal mondo accademico, perché giudicati incapaci di assumere uno statuto di oggettività e avalutatività che deve sempre contraddistinguere la ricerca scientifica.
Johan Galtung nella sua magistrale opera di precursore ha ampiamente confutato questo tipo di perplessità e ha delineato con chiarezza i caratteri del paradigma scientifico degli studi sulla Pace, facendo ricorso all’efficace immagine della prassi medica nei termini del triangolo diagnosi-prognosi-terapia. Alla fase dello studio e della conoscenza, segue l’acquisizione di capacità funzionali per intervenire con una cura appropriata alla malattia, di cui la violenza è la manifestazione sintomatica.
La distinzione tra violenza diretta e violenza strutturale, l’indagine sulle cause profonde della violenza radicata nelle culture dei popoli, i nessi tra conflitto e sviluppo, tra sicurezza e disarmo, il discorso sulle alternative tra modelli di sviluppo diversi, il legame inscindibile tra pace e giustizia, la distinzione tra pace positiva e pace negativa, l’approfondimento teorico del metodo gandhiano per trascendere i conflitti , sono le tante acquisizioni di un percorso intellettuale da cui non si può prescindere e che costituirà la base ispiratrice della rivista che intendiamo realizzare.
“Quaderni Satyagraha” pubblicherà saggi dei maggiori studiosi di tutto il mondo ma si propone anche di stimolare e promuovere l’emergere di gruppi di ricerca e di giovani studiosi italiani nell’ambito dei Peace Studies.
Uscirà quest’anno come semestrale, sperando di poter presto assumere la periodicità quadrimestrale o trimestrale, in rapporto al successo che incontrerà tra i lettori ed i ricercatori.

Per richiedere la copia saggio basta inviare un messaggio di posta elettronica con oggetto (Subject) “Prenotazione Rivista Satyagraha” e contenente il proprio indirizzo postale completo a: pdpace@interfree.it.
In alternativa potete inviare una lettera (o meglio una cartolina) con gli stessi dati a: Centro Gandhi, Largo Duca D’Aosta 11, I-56123 Pisa
Per versamenti o contributi: conto corrente postale 19254531

Nel primo numero:

Mohandas K. Gandhi sul Satyagraha. Uno scritto inedito in italiano: Forza dell’anima e Tapasya ( 2 sett. 1917)
Gli Studi sulla Pace in Italia. (Rocco Altieri).
L’11 SETTEMBRE 2001 : Diagnosi, Prognosi, Terapia.( Johan Galtung, trad. a cura di Anna Barducci )
I maestri della nonviolenza ed il crollo delle due superpotenze (Antonio Drago)
Satyagraha e Duragraha : i limiti della violenza simbolica (Joan V. Bondurant, trad. a cura di G. Mandorino )
Comunicazione e ascolto per la trasformazione nonviolenta dei conflitti: un percorso (Angela Dogliotti Marasso).
Il Mahatma Gandhi, Amartya Sen e la povertà. (Romesh Diwan)
Il secolo nucleare. (Giovanni Salio)
Un modello matematico per la corsa agli armamenti: le equazioni di Richardson. (Leila Lisa D’Angelo)
La violenza delle armi rende smemorati (Olivier Maurel)
Fucili e Rivoluzione (Brian Martin)
Servizio civile, Obiezione di coscienza, Pace e Nonviolenza. (Pierluigi Consorti).
Silone e Simone Weil ( Margherita Pieracci Harwell)

Di Fabio