• 29 Marzo 2024 11:42

Azione nonviolenta – Giugno 2002

DiFabio

Feb 4, 2002

Azione nonviolenta giugno 2002

– La nonviolenza è il varco attuale della storia? Intervista ad Adriano Sofri
– Una perizia psichiatrica per Francesco, figlio di Pietro Bernardone, di Cesare Persiani
– Poliziotti che ci picchiano, poliziotti che ci difendono, di Alessandro Marescotti
– Il movimento per la pace in Israele: obiettri di coscienza per la convivenza, di Francesca Ciarallo
– In Italia il meeting annuale dell’European Network for Civil Peace Service, di Karl Giacinti e Alessandro Rossi
– La violenza delle scritte ingiuriose e gli atti simbolici di riconciliazione, di Jean Pol Rocquet
– Pace, Amore e Rock’n’roll, intervista a John Lennon e George Harrison

Rubriche

– Cinema
– Economia
– Lilliput
– Alternative
– Storia
– Libri
– Lettere
– War Resisters International

La nonviolenza è il varco attuale della storia?
INTERVISTA AD ADRIANO SOFRI

A cura di Elena Buccoliero e Mao Valpiana

Beh, di cosa volete parlare? Io ho dei dubbi sulla nonviolenza, fortissimi. Voi?
Abbiamo dei dubbi sulla inadeguatezza dei nonviolenti; sulla nonviolenza in sé, forse meno.
No, questa è una scusa facile. Un’idea non è veramente buona se le persone non possono seguirla, applicarla.
Una nonviolenza che fa i conti con la storia, intendiamoci.
Sì, ma a furia di fare i conti con la storia, rischia di assomigliare alle cose che si dicono e che non hanno nessun rapporto con la realizzazione.
Per esempio una cosa su cui tu scrivi spesso, e che ogni volta ci fa sentire colpevolmente inadeguati, è la questione della Cecenia. I pacifisti in genere, e anche i nonviolenti, non si sono mai fatti veramente carico di questo problema.
Le persone hanno paura delle cose che non conoscono, giustamente. Di situazioni in cui il grado di violenza reciproca è molto forte, e appoggiando una causa giusta si rischia di farsi complici… È complicato. È una vergogna, però è complicato.
In che modo si potrebbe cominciare?
Informandosi un po’ sulla situazione. Uscendo dall’idea che si possa solidarizzare con delle vittime evidenti, scandalosamente evidenti, soltanto confidando nel fatto che loro saranno l’alternativa giusta alla sopraffazione. Questo in particolare mi sembra decisivo per incominciare a parlare di nonviolenza, cioè che ci si liberasse dall’illusione che la vittima di oggi sarà il liberatore dei domani.

I movimenti, il sindacato, la Rete di Lilliput

Pensiamo invece ai movimenti di protesta che si stanno sviluppando in Italia. Si può dire che il sindacato utilizza strumenti nonviolenti, se non direttamente che è una forza nonviolenta?
Mi sembra difficile parlare di nonviolenza nel caso delle grandi manifestazioni, salvo ridurre tutto ad un’ovvietà, cioè non si menano le mani, ma insomma, la nonviolenza mi sembra più complessa.
Forse un elemento interessante di quest’ultimo periodo è la posizione che non nasconde, anzi proclama, di essere riformista, o riformatrice. C’è chi ha riscoperto nella pratica, e comincia a rivendicare nella teoria, che il riformismo non è un modo di vedere il mondo – o, per altro verso, un modo di essere – moderato, grigio, spento, opportunista o comunque moscio. Il riformismo ha nella sua storia – e proprio nella storia del movimento operaio – combattività, forza…
Questo mi sembra interessante e promettente. Se vince l’idea per cui gli spaccatori di vetrine sono coerenti e gli altri sono viceversa pronti a calare le brache, la cosa va male.
Da qualche parte hai scritto che hai simpatia per la Rete di Lilliput.
Sì, molta.
Per molti giovani Lilliput è una occasione di rinnovato entusiasmo, voglia di approfondire… Il Movimento Nonviolento è entrato attivamente nella promozione della Rete, che fa esplicito riferimento alla nonviolenza specifica.
Io non ne so abbastanza – e sarebbe strano il contrario, stando chiuso qui dentro – ma prima e durante Genova ho avuto l’impressione che il peso molto forte, di qualità e di riferimento, della Rete Lilliput fosse sommerso da altro, non solo perché la Rete non aveva occasioni sufficienti per dire la sua, ma perché lasciava troppo spazio a cose non certo entusiasmanti che sarebbe stato meglio non sentire così stentoreamente. Stupidaggini, anche abbastanza forti.
Va considerato che Lilliput non ha un portavoce ufficiale; può avere dei riferimenti ideali –Zanotelli, Gesualdi – ma poi è davvero un movimento di base, di rete, appunto.
Ma questo è positivo. Per altri versi le voci che si sentono sono abbastanza tradizionali, tant’è che sono state subito accostate alla lunga lista di signori maschi in gara per diventare il nuovo leader per questa sinistra che non lo trova… Con il rischio molto forte di scegliere dei pifferai.
Mi sembra una di quelle fasi messianiche molto pericolose dove può passare di tutto, i profeti, il messia, poi magari dei ciarlatani… Forse Di Bella, non so, forse Di Pietro… Di tutto può capitare.
In questa fase periodo, entusiasmante e pericolosa, molti giovani si riavvicinano alla politica.
Suggerirei una sola cosa a un no global – anche se non si dovrebbe mai suggerire niente a nessuno, altrimenti ti dà un cazzotto appena ti volti, e giustamente – ma insomma l’idea sarebbe questa, di provare a esprimere quelle che ritiene le sue idee giuste come se fosse convincibile di quelle idee il primo dei suoi nemici, fosse anche il padrone della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale. La prima ragione è che questo ti costringe a esprimerti al meglio, poi perché effettivamente anche quei signori stanno sul Titanic e stanno andando a fondo. Ciò non toglie che tutti sappiano che fumare fa male e tuttavia fumino tre sigarette alla volta…

Amore e odio

Che cosa pensi di questo periodo storico? Quello che sta succedendo è interessante?
Mi sembra una grande occasione per provare a ripensare, se davvero si può immaginare qualcuno che usi gesti nuovi, parole nuove. Sembra una canzonetta, “ma piove piove”…
In particolare in occidente, le posizioni politiche e i contrasti si riattizzano in modo gratuito, cioè meno fondato che in passato, mostrando che la necessità di identificarsi si attua nell’opposizione ad un nemico. Ora, il dibattito può riprendere vigore solo se qualcuno saprà prendere la parola in modo imprevedibile, impensabile. Qualcuno che non sia il Papa – perché il Papa lo fa. Dopo aver vinto, cioè dopo aver contribuito decisivamente, sfruttando il suo essere polacco, a distruggere l’impero sovietico, cosa di cui non gli saremo mai abbastanza grati, ha cominciato davvero a seguire il Vangelo in modo scandaloso, con quelle ripetute richieste di perdono… quasi una furia…
E’ sorprendente che anche nel discorso politico, nel nostro paese torni a proporsi questo binomio, amore e odio, che chissà perché negli ultimi vent’anni era sembrato improprio, imbarazzante.
Forse per il solito contrasto tra razionalità e sentimentalismo…
Non direi che valga la contrapposizione passione/ragione, utopia/realismo. Da quando abbiamo capito che stiamo andando a rotoli, le scelte non sono facoltative.
Viviamo un doppio scenario: c’è la storia naturale che ha una sua mutabilità, una immemorabile capacità di movimento, talmente lenta che, come dice Leopardi, “sembra star”; e poi c’è una storia umana che ha un ritmo da teatrino dei burattini, botte da orbi, spadaccini, occhi cecati morte imminente e malattia. Come mettere in rapporto questi due scenari, che hanno fatto corto circuito tra loro, è il problema essenziale della politica.
Ormai i tempi della consumazione della terra sono creati dagli umani, non sono più quelli delle epoche geologiche. Stiamo riuscendo a far affondare tutto rapidamente, e la divisione a livello planetario non è tra noi umanità dell’amore contro i quattro quinti o cinque sesti di umanità dell’odio, ma tra noi, potenza del privilegio, che induciamo il resto nel mondo nell’odio – dopo di che il resto del mondo ci sguazza, non dobbiamo immaginarci troppo colpevoli, né loro così innocenti. Riprendere le parole della nonviolenza implica una scelta molto ragionevole. C’è chi st in terza classe, poi c’è la seconda e la prima classe, facciamo la lotta di classe. Però abbiamo già puntato contro l’iceberg e il naufragio ci sta davanti.

Una piccola digressione – e ritorno

Hai studiato alla Normale di Pisa negli anni in cui Capitini era insegnante di Filosofia Morale. Come lo ricordi?
L’unica cosa che si sentiva di lui in università era una benigna presa per il culo. Capitini era quello che, essendo Pisa famosa per le zanzare, cercava di convincerle ad andare fuori dalla finestra del suo studio senza ammazzarle. Figurati noi, a quell’epoca, che cosa potevamo pensare di uno così. Volevamo spiaccicare il mondo intero, contro il muro, figurati le zanzare di Capitini!
Hai parlato di praticabilità delle idee. Perché una proposta abbia senso, è indispensabile che abbia successo?
No. No, però non accetto nemmeno un principio di gratuità così generoso e inaccettabile, se no anche questo diventa retorica. La questione del successo non è un fatto di riconoscimento personale ma di efficacia, che si tratti di salvare uno che annega, una persona picchiata da dei farabutti o un popolo intero…
Ma questo in Gandhi c’è.
Certo, c’è. E difatti è stato sconfitto – ma non è che con la violenza le cose sarebbero andate meglio. La nonviolenza ha un fortissimo bisogno di prevenire le situazioni. Quando le cose sono ormai compromesse e ti misuri coi risultati, quando la prevenzione non è stata neanche tentata – come in Kossovo per esempio – anzi si sono lasciate precipitare le cose all’estremo, fino al macello fino al mattatoio, allora la nonviolenza rischia di essere esclusa, perfino idealmente. Certo, è ancora possibile evitare i voli di bombardieri, le distruzioni cieche, ottuse, una vera seminagione di odio, però tutto è ormai pregiudicato…
Forse allora non c’è speranza.
Considero che la storia del mondo funzioni, nei confronti di ciascun presente di volta in volta presente, come una specie di mancata prevenzione. Cioè che l’intera storia del mondo abbia accumulato una tale discarica di rovine, da pregiudicare le situazioni nelle quali ci muoviamo.
Forse la stessa cosa vale per la grande maggioranza delle nostre vite personali. La nostra storia passata è l’accumulazione di cose sbagliate, di prevenzioni mancate… – questo ci rende forti per la consapevolezza di ciò che abbiamo sbagliato, perché è un grandissimo patrimonio poterle usare, ma al tempo stesso ci costringe a muoverci con grandissima circospezione e cautela.

L’odio, la paura, la nonviolenza

Nell’odio c’è una fortissima naturalezza, chiunque si proponga di estirparlo dalla natura umana sarebbe un pazzo, bisogna solo tenerlo a bada, controllarlo, rendersi conto che è un sentimento talmente brutto che ti deforma perfino i lineamenti.
Sono convinto però che il contrario dell’amore non sia l’odio, ma la paura. La nostra tentazione di amare il nostro prossimo è arginata non dall’odio ma dalla paura, e la paura è fondata. Mentre l’odio è naturale ma orripilante, la paura è naturale ma ben fondata, e anche su questo bisogna cercare di trovare la misura.
E allora, la nonviolenza…?
Nella nonviolenza la capacità di rompere le righe è molto importante. San Francesco non è tanto importante che fosse nonviolento, ma che spiazzava gli avversari, aveva delle idee fantastiche. Cosa che Gesù faceva in modo inimitabile. Nessun altro avrebbe pensato di fare dei segni per terra mentre quelli lapidavano una poveretta. Uno stratagemma geniale, azzardatissimo. Se continuavano a tirare le pietre, l’ammazzavano…
L’espressione “amare i nemici” che cos’ha di più interessante e rivelatore, per uno come me che non ci aveva mai pensato? Non la parola amare ma la parola nemici. I nemici esistono, e quando li ami non cessano di essere tali. Quelli che ti buttano già Manhattan sono i nemici. Poi c’è il comandamento di farsi prossimo, e può darsi che chi va etichettato istituzionalmente come tuo nemico sia esattamente il tuo prossimo. Qui c’è la parabola del samaritano che è molto attuale, il samaritano è un nemico tribale e religioso, lo straniero, il fondamentalista.
Poi, una delle cose belle del vangelo è che non si preoccupa di armonizzare il tutto. Gesù, il Gesù dei Vangeli, non si preoccupa di essere troppo coerente. Dunque un nonviolento non deve preoccuparsi di essere troppo nonviolento. Perché se no diventa scemo, e prima o poi uccide uno di famiglia.

verso la marcia nonviolenta assisi-gubbio del 2003. materiali di preparazione
Una perizia psichiatrica per Francesco, figlio di Pietro Bernardone

di Cesare Persiani

Ho avuto recentemente la fortuna di poter esaminare per alcuni giorni una parte dell’Archivio di Studi Medioevali della città di Buffalo, nello stato di New York, grazie alla benevole concessione del suo Direttore Emerito. Con mia grande sorpresa mi sono imbattuto, frugando in quella selva di documenti, in un manoscritto di estremo interesse che contiene una relazione medica sulle condizioni psichiche ed intellettive di San Francesco, stilata da un Suo contemporaneo. Vorrei leggere qui questo straordinario rescritto, dopo averlo tradotto alla meglio in italiano.
Dunque vediamo: il documento non reca una data, o, per lo meno, io non sono riuscito decifrarla; penso però che lo si potrebbe collocare verso la fine dell’anno 1215 o nel 1216.
Si tratta di una vera e propria “perizia psichiatrica” (oggi diremmo: una C.T.U. cioè una “ consulenza tecnica d’ufficio”) che era stata richiesta dai Rettori della città di Assisi su istanza di Angelo, il fratello minore di Francesco, pochi anni dopo la morte di Pietro di Bernardone che era scomparso senza poter affidare, come tanto aveva desiderato, l’amministrazione dei beni di famiglia al Primogenito, poiché questo si era fatto frate.
Io ho immaginato che la relazione venga letta personalmente dall’Autore davanti ad una magnifica riunione di maggiorenti della Città composta da magistrati, capitani, prelati e, soprattutto, da ricchi mercanti e commercianti, convenuti ad ascoltare, pieni di curiosità, ulteriori particolari su quel figlio di un loro concittadino e collega tanto eminente, su quel Francesco che poco tempo prima aveva sollevato uno scandalo di cui ancora tutta la città parlava…
Dunque leggiamo:

“Io, infrascritto messer Cesarius Bergomensis, medico, in utroque iure laureato, esperto in malattie della mente e dell’animo, con il presente scritto rispondo ai quesiti pòstimi dai Consoli di codesta nobile Città di Ascesi sulle condizioni psichiche di Giovanni detto Francesco, figlio di messer Pietro di Bernardone e di Madonna Pica provenzale, dopo che lo avessi interrogato ed esaminato.
Il Convenuto Giovanni detto Francesco appare, al nostro esame, giovane uomo di circa trent’anni, magro, o piuttosto macilento basso di statura, dal volto allungato e scarnito, barba e capelli malissimamente rasati, denti bianchi e regolari, occhi neri, luminosi, sempre sorridenti, spesso inquieti ed inquietanti…Ha un sacco sdrucito per veste, i piedi nudi nella polvere. Risponde alle mie domande con allegro tono, talora con ironia, talora persino cantilenando in versi, sempre un po’ sopra le righe. A parte l’esiguità del corpo dovuta di certo ad una insufficiente alimentazione, sembra persona di salute cagionevole. Si dice sia stato gravemente ammalato subito dopo la prigionia in Perugia, e che abbia avuto una prima crisi, diciamo così, “esistenziale” all’età di ventitre anni, durante la quale avrebbe deciso di acquistare rapidamente fama in qualche fatto d’arme o in qualche nobile impresa. Si arruola così al seguito di Gualtiero di Brienne che combatte per Papa Innocenzo III; ma, giunto a Spoleto, si ammala di nuovo e, se vogliamo credergli, ha una “visione”che gli ordina di non proseguire. E allora torna a casa.
Dopo qualche mese decide di recarsi a Roma pellegrino; ma, anche stavolta, l’avventura dura poco; e, quando Francesco ritorna, si è fatto mendicante, dopo aver regalato tutto il denaro del viaggio, ed anche le vesti, ai poveri. Rientra così alla sua avita dimora tutto sbrindellato, come un vero vagabondo, tra i lazzi e gli sberleffi della gente, lui, figlio di un dovizioso e tra i più potenti della città, e gran banchiere ed abilissimo mercante…Il padre lo rimprovera, lo minaccia, arriva ad imprigionarlo in uno dei suoi fòndaci, madonna Pica lo supplica, lo scongiura, tutto è vano: Francesco chiede ed ottiene di essere portato in presenza del Vescovo Guido e davanti a lui fa rinuncia perpetua ad ogni suo diritto sul patrimonio paterno, Dice che vivrà di elemosine, predicando, cantando e ballando per le strade, mangiando gli avanzi altrui e dormendo sulla nuda terra…
Questi sono fatti che già molti di Voi conoscono e che già dicono molto sulle condizioni psichiche del Convenuto…
Purtroppo, alcuni tipi balzani come lui lo ascoltano, gli danno retta, seguono il suo esempio; giovani di ottima famiglia, all’inizio: un notaio, un avvocato, ed in seguito, tanti e tanti altri della più diversa estrazione sociale…
Francesco arriva persino a dettare una “Regola” che impone ai seguaci la povertà assoluta, la rinuncia ad ogni bene materiale; essi non potranno accettare denari mai, nè làsciti :”I possedimenti- dice- creerebbero motivo di dispute e violenze: saremmo costretti ad armarci per difenderli, e ciò ci impedirebbe di amare il nostro prossimo, sempre”.
Sembra di assistere al sorgere di una delle tante correnti pauperistiche e pseudoriformistiche dei nostri tempi che sfiorano l’eresia…Ma, per dei motivi che rinunciamo a comprendere, Papa Innocenzo ha dato la Sua approvazione…
E gli accoliti aumentano, fino ad essere migliaia al giorno d’oggi, una folla di straccioni che per lo più si aggira intorno alla Porziuncola; abitano capanne di fango e vivono di espedienti; molti vanno in giro mendicando, altri sono andati per terre lontane, predicando e chiedendo un tozzo di pane.
E Francesco? Nonostante sia spesso ammalato ( soffre soprattutto di stomaco e di occhi ) dice di voler andare in Oriente, in Siria, in Egitto per predicare agli Infedeli; dice di voler fare ritiri e digiuni e penitenze nelle grotte delle montagne…e poi scendere nei villaggi per “portare il mondo all’Amore”. Si ostina a fare il contadino, il muratore, il carpentiere, costruendo casupole per i suoi frati, e cappellette per pregare (mai un convento!)…Vuole curare ed assistere personalmente i lebbrosi; ha spesso mangiato con loro, dalla stessa scodella!…
L’hanno visto parlare con gli uccelli, con i maiali; carezzare un lupo…Ha detto ad un asino che, con i suoi ragli, disturbava la predica: “Frate asino, ti prego di tacere e di lasciarmi parlare”…( bisogna dire che quello in effetti si è zittito)…E così ha messo a tacere anche uno stormo di rondini che volavano basse sulla folla che lo ascoltava…Lui mi ha anche raccontato, con la disarmante semplicità di chi delira e non dubita di essere creduto, che, talvolta, nella preghiera solleva talmente il suo cuore verso il Cielo, che persino il suo corpo si solleva materialmente dal terreno…E poi, e poi,…. va in giro ballando, fischiettando, fingendo di suonare con un bastoncino un violino invisibile; conosce a memoria diversi passi del Ciclo di Re Artù e delle Chansons de geste, e li recita, cantando come un menestrello…Siamo arrivati al punto che al comparire di quella sua figurina sgangherata, così poco sacra, la campana del villaggio chiama a raccolta gli abitanti, come per l’arrivo di un circo, e tutti si radunano ad ascoltarlo, ora con compunzione, ora con risa e lazzi, fino a creare un’ atmosfera carnascialesca …Oltretutto, ciò crea disturbi all’ordine pubblico! Uomini e donne si precipitano fuori casa, operai e impiegati lasciano il loro lavoro, mercanti abbassano le serrande, persino Sacerdoti chiudono i confessionali…
Signori! Tutte le cose che ho fin qui riferito sarebbero più che bastevoli per dare un’idea dello squilibrio psichico che agita il convenuto Francesco; ma non è tutto, anzi ,il peggio ancora non l’ho detto!…
Infatti, le anomalie più gravi della sua mente si manifestano nella sua concezione dei rapporti interpersonali, nella sua idea di “amore” e di “amicizia”.
Giovanni di Ascesi detto Francesco afferma che i “nemici” non esistono!
Nemici suoi personali, nemici dei frati, della Città, della Santa Chiesa, niente, non esistono! L’inimicizia, dice lui, è solo frutto di non-conoscenza reciproca. Per lui, non sono nemici i ladri, i grassatori, gli assassini…Lui non vuole far distinzione tra l’agnello ed il lupo, tra la tortorella ed il serpente…Tutti uguali, per lui , tutti figli del Signore…Non sono nemici neanche gli infedeli, e vorrebbe mandare alcuni suoi frati nel Marocco a predicare ( e, magari, li ammazzeranno!..); vorrebbe, lui stesso, in persona, recarsi davanti al Sultano negli accampamenti dell’Africa per convincerlo, per persuaderlo con belle paroline, a restituire il Santo Sepolcro alla Cristianità…favole e canzonette, in luogo di balestre e spadoni! E i Catari, e gli Albigesi, e tutti gli eretici… blandirli, accoglierli, ascoltare le loro ragioni, anziché annientarli, sterminarli, bruciarli vivi !… E tutto ciò, mentre i nostri Papi guerrieri armano contro il Saraceno valorosissimi Crociati, mandano eserciti nell’Europa francese e germanica ad estirpare le gramigne dell’eresia, e partono loro stessi in persona, ricoprendo le bianche vesti di lucenti corazze…
Si dovrebbero invece usare, secondo il convenuto Francesco, le maniere dolci verso i nemici, gli esempi di umiltà, di comprensione; cercare di capirli, anziché di distruggerli…
Per Francesco, insomma, non esiste una “guerra giusta”!!!
Ma si potrebbe dire una bestialità più grande!!??
Del resto, cosa vi volete aspettare da uno che arriva a dire (cito testualmente):
“Quando noi giungeremo a santa Maria così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, o frate Lione iscrivi che qui è perfetta letizia …E quando bussando noi alla porta, ne uscirà fuori il portinaio adirato, con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e getteracci a terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone…o frate Lione iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia…”

A questo punto, prima che l’illustre relatore tiri le conclusioni ed emetta la sua diagnosi, osserviamo la nobile assemblea di ‘majores’ così dotti, così pasciuti, ora un po’ annoiati ed anche infastiditi da quella tiritera che sta diventando una concione; si sentono un po’ sprecati a star lì, così’, in silenzio, ad ascoltare le vicende di un povero frate strambo…;ed è ormai l’ora di pranzo, gli ascoltatori sono ormai stanchi. Dietro le fronti imperlate di sudore si muovono lentamente sensazioni diverse e pensieri lontani; le elucubrazioni si appannano, i sillogismi pèrdono sostanza e vigore, si mescolano in una greve nebulosità con le immagini più gratificanti delle domestiche cucine, odorose di vivande in preparazione, dove i servi cominciano a togliere i piatti ed i calici dalle massicce credenze…La pianti, dunque, questo dottissimo rompiscatole, e concluda una buona volta!

Ad finem, eccellentissimi signori, la diagnosi dei disturbi del convenuto apparirà evidente dai fatti esposti finora: siamo in presenza di una personalità psicopatica di tipo isterico-esibizionista, con atteggiamenti fatui e misticheggianti ma, soprattutto affetta da ‘ paranoia delirante ‘.
Giovanni di Pietro da Ascesi è proprio matto, insomma, e matto da legare. Ho finito.

Finalmente. L’illustre consesso è percorso da un sospiro liberatorio. Già alcuni scranni scricchiolano sotto i poderosi deretani che si alzano per avviarsi all’uscita…Si borbotta: ”E ci voleva tutta questa tirata per una simile conclusione?” Si sussurra: “Che fosse matto l’avevamo sempre sospettato!..” “E non lo dice lui stesso, quel frate, che vuole essere il ‘novello pazzo nel mondo’? “
I lessi e gli arrosti sono ormai prossimi, le secrezioni gastriche già sono in movimento…Fuori da questo salone fa più fresco, c’è il verde, ci sono i fiori…-“ e che i matti li mettano in manicomio e ci lascino in pace…Noi la nostra strada la sappiamo, noi ! “

Ma proprio in quel momento, in Paradiso, le schiere degli Angeli e dei Santi, dei Cherubini, dei Serafini, degli Arcangeli tutti, che hanno ascoltato anch’essi in profondo silenzio la dotta relazione, prorompono in esultanza a festeggiarne la conclusione: alzano grida gioiose, in risate ironiche e compassionevoli; guardandosi l’un l’altro con visi lieti volano cantando a preparare un posto a Francesco, quando arriverà, un seggio tutto d’oro luccicante, e tempestato di rubini e diamanti e smeraldi, nel più alto dei Cieli….e cantano, e volano…
Ma il Padrone di Casa, tutto sorridente anche Lui dietro la grande barba, dolcemente li dissuade: “Ma no, cari, lasciate stare! Il posto a quel Francesco glielo cedo io, io gli darò il mio seggio. Tant’è, io mi sono un po’ stancato di star lì, su quel trono da tanto tempo!…A dire il vero, non sono più neanche sicuro di essere ancora indispensabile, io, ora che una nuova e così grande scintilla d’amore si è accesa sulla terra!…Sì, metteremo lì quello straccione, quel mattacchione di Francesco, quando arriverà; se lo merita, quel trono è suo, poiché :
UBI CARITAS ET AMOR DEUS IBI EST.
E così sia.

Relazione presentata al Congresso dei Medici scrittori, 2002, Rieti.

Dott. Cesare PERSIANI
Medico chirurgo- Specialista in Neuropsichiatria
Sorisole-(Bergamo) Via Madonna dei campi 3
Tel.035/572014

Poliziotti che ci picchiano
Poliziotti che ci difendono

Ho due amici: Gianni che è difeso dai poliziotti, Salvatore che è stato picchiato. Il primo fa parte di Libera e ha promosso coraggiose iniziative per la confisca dei beni ai mafiosi: ora passa la volante sotto casa sua per proteggerlo. Il secondo – uno psicologo gentile che organizza corsi per educare alla democrazia e al dialogo – fa parte di Attac. Lui un anno fa era a Napoli, alla manifestazione antiglobalizzazione del marzo 2001. Lì venne ripetutamente colpito al capo mentre cercava di spiegare (invano) ai poliziotti che accanto a sé aveva un disabile. Ma perché stavano lì, se le stavano cercando le mazzate? La verità è che non potevano fuggire, erano state bloccate dalla polizia tutte le vie di fuga e i manifestanti si aspettavano solo di ricevere delle botte che sono puntualmente arrivate con un’insolita violenza. Questo mio amico – colpito a sangue mentre copriva con il suo corpo il disabile – ha rischiato di finire sulla sedia a rotelle. Non tutti i manifestanti erano pacifici, ma Salvatore lo era di sicuro. Allora non c’era la “polizia cilena” di cui ha parlato D’Alema dopo il G8: c’era il centrosinistra al governo. La notizia del poliziotti arrestati a Napoli per le violenze compiute in quella giornata napoletana ci obbliga pertanto ad un riesame più generale dei sistemi di addestramento dei poliziotti che non sembrano essere variati con il variare dei governi e del loro orientamento politico.
L’arresto dei poliziotti può scandalizzare chi non sa o fa finta di non sapere cosa è avvenuto un anno fa a Napoli. La solidarietà manifestata dai quei poliziotti che si sono platealmente ammanettati e hanno inveito contro la magistratura non fa che avvelenare gli animi.
Noi nonviolenti che ruolo possiamo svolgere in questa circostanza?
Dobbiamo saper compiere la paziente opera di chi vuole e sa distinguere, in una impopolare ma benefica azione di dialogo.
Non possiamo “mettere insieme” chi ha picchiato Salvatore e chi ora protegge Gianni. Dobbiamo distinguere il poliziotto che picchia e il poliziotto che difende, il poliziotto che scredita lo Stato democratico e il poliziotto che lo incarna.
Noi sappiamo quanto è importante l’azione delle forze dell’ordine in città a forte penetrazione mafiosa. La presenza e l’efficace azione di contrasto degli uomini in divisa è premessa di legalità, è la base stessa per parlare di partecipazione democratica e di rottura delle logiche dell’omertà. Ecco perché smarrire il dialogo significa smarrire la prospettiva stessa di vittoria comune contro i poteri mafiosi. Ma proprio perché abbiamo a cuore la legalità non possiamo non tacere sull’addestramento dei poliziotti, un addestramento che sembra sottrarsi – almeno per alcuni aspetti essenziali concernenti l’uso della forza – al controllo democratico.
Faccio un esempio.
Un breve ma interessante filmato di Alberto Angela del 13 aprile scorso ci ha fatto scoprire le analogie di addestramento fra le legioni romane e le squadre di polizia nella gestione degli “scontri di piazza”. Come spiegava il barbuto figlio di Piero Angela, i legionari romani dovevano avanzare contro i barbari battendo sullo scudo ritmicamente la spada e cercando di incutere paura al nemico; il filmato riprendeva gli istruttori di polizia nel fare lo stesso.
“Dobbiamo incutere paura”, diceva l’istruttore in tuta nera nel cortile di addestramento, mentre in aula, lì dove si fa la “teoria”, un altro poliziotto istruttore sorridente spiegava con chiarezza: “Chi ci sta di fronte deve pensare che siamo bestie. Ma noi dobbiamo sapere che siamo bestie addestrate”. Il filmato era relativo all’addestramento della polizia francese e sarebbe interessante sapere se in Italia vengono applicati gli stessi principi con cui i legionari romani si addestravano per ricacciare indietro i barbari.
I manifestanti non sono barbari da ricacciare indietro e la funzione dei poliziotti deve essere quella di proteggere le persone e non di “punirle”. Qualunque sia la manifestazione a cui partecipano, giuste o sbagliate che siano le loro idee (ma chi può giudicare le idee?), le persone che i poliziotti hanno di fronte sono cittadini da proteggere e da rispettare. E’ qui la differenza fra un’azione di guerra (come quella che conducevano i legionari romani) e un’azione di polizia. L’azione di guerra ha come fine la sconfitta del nemico e la sua capitolazione. L’azione di polizia ha l’obiettivo di difendere i cittadini, la loro sicurezza e i loro beni. L’azione di guerra aumenta la violenza fino a piegare l’avversario, l’azione di polizia riduce la violenza usando la forza come mezzo di protezione della società; l’esercito obbedisce ad una logica violenta, la polizia deve obbedire ad una logica nonviolenta. Ecco perché Gandhi nella nuova India indipendente non voleva l’esercito ma voleva la polizia.

Alessandro Marescotti
www.peacelink.it
Il movimento per la pace in Israele: obiettori di coscienza per la convivenza

Sergio Yahni è il co-direttore dell’Alternative Information Center (www.alternativenews.org), un’organizzazione israelo-palestinese, fondata da Michail Warchawski, che diffonde informazioni, ricerche e analisi politiche sulle società israeliana e palestinese e sul conflitto in corso, cercando di promuovere una cooperazione “dal basso” tra i due popoli, basata sui valori della giustizia sociale, della solidarieta’ e del coinvolgimento comunitario.
Sergio, oltre che giornalista e attivista di Taayush, è anche un riservista che si rifiuta di fare il servizio militare, e per questo è già stato in carcere quattro volte.

Qual è lo scenario attuale della politica israeliana dopo la conclusione dell’operazione militare “Muraglia di difesa”?
Siamo in uno stallo completo. Il governo vorrebbe portare a compimento la distruzione delle infrastrutture dell’Anp, ma si è fermato perché dopo l’assedio al campo di Jenin non sa quale potrebbe essere la reazione della Comunità Internazionale. L’operazione “Muraglia difensiva” non è finita, è solo stata ristretta.
L’11 settembre è cominciata la “Guerra globale contro il terrorismo” degli Stati Uniti. E mi sembra abbastanza chiaro che il governo israeliano ha visto una grande opportunità per poter risolvere militarmente il conflitto con i palestinesi, approfittando dell’appoggio americano (ancora più di prima gli americani “devono” sostenere Israele) e del lampante silenzio dell’Unione Europea. L’esercito ha dato il via a una tremenda escalation di violenza con l’obiettivo di distruggere l’Anp, la sua autorità militare, di polizia, e le infrastrutture civili e sociali dei palestinesi, per distruggere in realtà qualsiasi sogno di uno stato, di un’unità nazionale palestinese. Ma la resistenza di Jenin ha messo in qualche modo in crisi questo disegno, per due motivi. Da una parte la perdita di 20 soldati a Jenin (più che in tutte le battaglie e in tutte le operazioni dall’inizio della seconda Intifada) ha scosso l’opinione pubblica israeliana; d’altra parte ha aperto una finestra critica nella Comunità Internazionale. Forse è una sensazione che voi in Italia avete poco, ma nell’esercito israeliano il fatto che l’Onu volesse aprire un indagine sui fatti di Jenin ha creato non poco scompiglio, ha fatto paura. In più la pressione dei paesi arabi sugli Stati Uniti porta un’ulteriore implicazione: gli Usa non possono più supportare in modo indiscriminato la violenza israeliana.
Questi sviluppi hanno creato un grande vuoto nella politica israeliana. Il processo di Oslo è chiaramente morto. La soluzione finale militare di Sharon all’apparenza continua, ma qualche giorno fa il Comitato centrale del Likud ha votato contro la proposta di Sharon a favore della creazione di un futuro stato palestinese. In realtà la partita in gioco non era tanto lo stato palestinese, ma l’egemonia all’interno del Likud. Il partito del primo ministro che gli vota contro, privilegiando la posizione di Netanyahu: questo è un dato politico importantissimo.
Il ciclo di violenza poi ha come conseguenza un generale spostamento a destra della società israeliana. I Laburisti sono spariti, e il Meretz non sa capitalizzare questa scomparsa. L’estrema destra promuove l’idea della deportazione dei palestinesi: il partito dei coloni attua una pressione ideologica fortissima in questa direzione. Per quanto il Likud sia frammentato, anche al suo interno sta crescendo l’appoggio alla deportazione.
E’ una situazione di caos politico e sociale contraddittoria, schizofrenica. Nel 1996 votammo per la prima volta il primo ministro con l’elezione diretta, ma la Knesset ha emanato una legge per cui nelle prossime elezioni, nel 2003, si tornerà al sistema precedente, dunque sarà il partito di maggioranza a scegliere il primo ministro. E in questo totale vuoto politico la partita sarà tra Sharon e Netanyahu, che hanno già cominciato a giocarsela…

E il movimento pacifista come si colloca in questo quadro?
Dopo Jenin anche la protesta israeliana è cambiata, sia quantitativamente che qualitativamente. E’ cresciuta, da poche decine a molte migliaia. Ma quando parliamo di movimento pacifista dobbiamo fare delle differenziazioni. In primo luogo c’è “Peace Now” che è l’espressione di una classe media israeliana confusa e addormentata, e non ha un reale disegno politico. L’idea di base è quella del ritiro di Israele entro i confini del 1967, ma poi vuole la sostituzione di Arafat e la democratizzazione dell’Anp, esattamente come Sharon. Non cerca di andare alle radici, alle cause dei problemi, non fa un analisi. Io leggo in tutto questo una logica coloniale, tesa a condizionare l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo palestinese. C’è alla base una contraddizione, un circolo vizioso: no alla violenza dell’esercito, ma d’altra parte la violenza è necessaria per costringere i palestinesi a democratizzarsi.
Peace Now è il movimento più ampio, l’altra parte è costituita dal “Movimento anticolonialista”, di cui fanno parte Gush-Shalom, L’Aic, Taayush, L’Icahd (Israeli committe against house demolition). Questo movimento non accetta la “pace a ogni condizione”, la pace deve avere delle condizioni! E’ un movimento misto, di arabi israeliani e di ebrei. Cerca di mettersi su un piano di parità con i palestinesi, senza imporre le proprie logiche, cercando di parlare lo stesso linguaggio. Si preferisce provare a dialogare non tanto con i partiti politici, ma con comitati popolari, cercando di ascoltare le voci “dal basso”.
C’è una grande differenza tra la concezione paternalistica di pace che ha Peace now e quella del movimento anticolonialista. Peace Now vuole sicuramente la pace, ma specifica sempre “per il bene degli israeliani”, lo ripetono anche nei loro slogan; per il movimento anticolonialista la pace è soprattutto solidarietà con il popolo palestinese.

E utilizza metologie di lotta nonviolenta, mi pare…
Sì, soprattutto Taayush (in arabo, convivenza), un’organizzazione nata nel 2000, all’inizio della seconda Intifada, quando in una manifestazione furono uccisi 13 arabi-israeliani. Il fatto di unire insieme in uno stesso gruppo arabi ed ebrei su un piano di assoluta parità, senza gerarchie, per noi è davvero nuovo. Taayush in quest’ultimo anno ha fatto molte azioni nonviolente, proteste ai check-point, presidi nelle case palestinesi, manifestazioni di accompagnamento di convogli umanitari. I gruppi di Taayush utilizzano il metodo del consenso per prendere decisioni, e se vuoi far parte di quest’organizzazione una precondizione è proprio quella di essere obiettori di coscienza.

Non hai parlato dei riservisti… sono anche loro parte della protesta…
Sì, certo, ma il discorso è un po’ diverso… La maggior parte dei riservisti che si rifiutano di fare il servizio nei Territori occupati hanno un’idea sionista dello stato ebraico, e ritengono che l’occupazione violi la democrazia, una delle basi fondamentali del sionismo. Non sono per la smilitarizzazione, ritengono che lo stato vada militarmente difeso, e non sono contro la guerra in assoluto; ritengono però che questa guerra non sia la loro guerra.

Quali sono i referenti politici della protesta all’interno della Knesset, se ci sono?
In realtà questo è il grande problema… il movimento pacifista non ha referenti politici. Peace Now prima aveva un filo diretto con i laburisti. Il movimento anticolonialista sta cercando proprio in questi giorni di iniziare un processo di costruzione di una possibile alternativa politica, insieme ai verdi e ad alcuni movimenti che potremmo definire simili ai social forum Italiani, per creare un’alternativa politica “olistica” all’attuale governo. E’ certo un discorso molto difficile da fare. Nel formare un movimento politico spesso tutti sono d’accordo nel dire verso cosa si è contro, ma nel momento in cui si cercano degli obiettivi comuni, iniziano difficoltà, scontri, vengono fuori tutte le differenze. Si sta preparando un congresso nazionale per il mese di settembre o ottobre, al quale parteciperanno i vari movimenti regionali che si sono già creati. Proprio in questi giorni a Gerusalemme si sta svolgendo un iniziativa molto particolare, un “seminario di attivismo”, nel quale si stanno cercando di raccogliere le diverse esperienze e per arrivare il più possibile uniti al congresso di ottobre. Io sono ottimista e penso tutto sommato che sia un buon momento per un progetto simile, perché la crisi nella politica israeliana è così radicata che c’è un bisogno fortissimo di creare un movimento politico nuovo e alternativo.

Francesca Ciarallo
francesca@peacelink.it
Associazione Papa Giovanni XXIII
impegnata in Israele/Palestina con due progetti, il Go’el e l’Operazione Colomba.

 

In Italia il meeting annuale dell’European Network for Civil Peace Services (EN.CPS)
Corpi di Pace europei in missione speciale a Milano

Lo scorso aprile si è tenuto, per la prima volta in Italia, il meeting annuale dell’EN.CPS (European Network for Civil Peace Services).
La Casa della pace di Milano, l’Associazione per la pace e il Centro Studi Difesa Civile (CSDC) hanno fortemente voluto questo meeting, intitolato Civil Peace Services in EU politics: streghthening non-military options (I servizi civili di pace nelle politiche comunitarie: sostenere le prospettive della scelta non-militare), proprio per permettere alle organizzazioni componenti della rete europea di entrare in contatto diretto con la realtà italiana.
L’EN-CPS lavora per la creazione a livello europeo di contingenti di caschi bianchi (o Corpi Civili di Pace (CCP) o peace services) da inviare in zone di conflitto, ed è in quest’ottica che nel corso del meeting sono stati affrontati i problemi e le prospettive del percorso per far implementare all’Unione Europea le ormai numerose raccomandazioni parlamentari per istituzionalizzare l’opzione non-militare (civile) dei Corpi civili di pace. Per la prima volta è stata poi presentata la possibilità di una missione internazionale congiunta del network, probabilmente a Cipro.

In particolare il dibattito sulle strategie per sostenere l’opzione non militare nelle politiche dell’Unione ha sollevato le seguenti questioni.
Dal punto di vista della comunicazione al grande pubblico, si è riscontrata l’opportunità di non confondere la costruzione nel breve periodo di strumenti professionali per la costruzione della pace con l’obiettivo dell’abolizione degli eserciti. Il caso Svizzero (due referendum persi per questo motivo,vedi box) ha dimostrato chiaramente la difficoltà di perseguire contemporaneamente uno sforzo verso il riconoscimento istituzionale dell’intervento civile nei conflitti e l’opposizione tout court agli strumenti militari.
D’altro canto, per individuare comuni modalità d’azione, si cercherà di creare un codice di buona condotta che possa funzionare anche da parametro per stabilire dei criteri di valutazione comuni alle varie esperienze di CCP/caschi bianchi. In quest’ottica c’è bisogno di uno studio a livello europeo, che sistematizzi le “buone pratiche” e possa essere utilizzato per costruire ulteriore reputazione e credibilità all’approccio dei CCP. In questa direzione il CSDC, in accordo con altre organizzazioni interessate, sta avviando un’indagine che permetta di trarre il meglio dalle esperienze italiane, facendo seguito alla ricerca (in arrivo in libreria) su “ONG e la trasformazione dei conflitti.” (a cura di F.Tullio, Edizioni Associate Editrice Internazionale, pagg. 500 circa).
Il piano di lavoro che ne è uscito è alquanto denso:
un gruppo di lavoro avrà il compito di elaborare un questionario da sottoporre alle varie organizzazioni per giungere a degli obiettivi operativi comuni;
un gruppo di lavoro cercherà di verificare la possibilità di organizzare da parte del network una conferenza sui CCP europei che aggiorni pubblico e istituzioni sugli sviluppi, da tenersi probabilmente a Bruxelles tra ottobre e novembre;
si potrebbero realizzare scambi di stagisti tra le varie organizzazioni attraverso lo European Volunteers Service;
la prossima riunione annuale nella seconda metà di Marzo 2003 in Austria.
Il lavoro europeo potrà ora portare nuove energie e prospettive anche al movimento per la pace italiano.

Karl Giacinti
Alessandro Rossi

CSDC- Associazione per la Pace

Cos’è l’European Network of Civil Peace Services

L’EN.CPS è una rete di coordinamento di organizzazioni che lavorano per creare “Servizi Civili di Pace” in molti paesi europei. Queste organizzazioni hanno in comune l’obiettivo di sviluppare gli strumenti di interventi civili nei conflitti, attraverso peace teams adeguatamente addestrati, ma anche attraverso campagne di informazione e lavoro di lobby per accrescere la consapevolezza pubblica e delle istituzioni verso la risoluzione nonviolenta dei conflitti. Maggiori informazioni riguardo al network sono disponibili sul sito www.4u2.ch

Alcune esperienze significative
Associazione per la pace, riportando di Action for Peace, e l’Associazione Papa Giovanni XXIII, testimoniando della Operazione Colomba e di “Anch’io a Bukavu”, hanno attirato l’attenzione degli ospiti, sorpresi dalla dimensione di massa di queste iniziative.
Si sono anche confrontati gli approcci formativi che si stanno attuando in materia: il Centro Studi Difesa Civile, col corso di formazione professionale di 500 ore organizzato insieme al Comune di Roma, che applica un approccio comprendente la gestione delle emozioni; l’ASPR, che nei pressi di Vienna forma gli osservatori internazionali supportato dal Ministero degli Esteri austriaco; lo Stichting Burger Vredes Teams Nederland in Olanda; la Fondazione Alexander Langer con le scuole estive multinazionali.
Anche l’aspetto di “lobbyng pacifista” era rappresentato, con la responsabile dello European Prevention Liaison Office- EPLO, che a Bruxelles difende il punto di vista di 14 grandi ONG e reti europee.
Altre esperienze dai vari paesi:
– Austria: Austria Peace Service, un coordinamento di varie organizzazioni pacifiste austriache di cui fa parte anche l’ASPR. Entrambe le organizzazioni, benchè fortemente strutturate, stanno attraversando un periodo difficile dovuto al taglio dei finanziamenti pubblici deciso dal governo di destra.
– Germania: Il forum ZFD è una delle realtà più organizzate tra i partecipanti al network, raccoglie molte organizzazioni e lavora soprattutto grazie a fondi dei ministeri degli esteri e della cooperazione. Il ZFD, nonostante storicamente sia nato da organizzaizoni politiche e ecclesiastiche, ha deciso di separare l’attività politica contro la guerra dall’organizzazione professionale dei corpi civili di pace, in modo da proseguire l’opera di lobbying per l’istuzionalizzazione dei CCP.

– Inghilterra: Peaceworkers UK funge da segretariato di un network di 4 grandi organizzazioni non governative inglesi per le attività che concernono l’intervento civile nei conflitti. Attualmente l’organizzazione sta promuovendo a livello istituzionale la creazione del servizio civile di pace in Inghilterra ed è il nodo britannico della nascitura Nonviolentpeaceforce. ….
Il progetto Nonviolent Peaceforce: nasce da un’esperienza americana, ma aspira a divenire di respiro mondiale attraverso la creazione di una ONG internazionale, federazione di organizzazioni regionali presenti in tutti i continenti, che promuova un corpo civile multinazionale e multiculturale completamente autofinanziato. Nonviolentpeaceforce ha aperto da poco anche un ufficio europeo a Bruxelles. Altre informazioni su www.nonviolentpeaceforce.org

– Svizzera: Le organizzazioni svizzere Gruppe für eine Schweiz ohne Armee (Svizzera), stanno attraversando una crisi profonda in seguito alla bocciatura di due referendum ( 80 per cento di no e un’astensione molto alta) a cui avevano lavorato negli ultimi mesi. I referendum in questione riguardavano: l’abolizione dell’esercito e la creazione di un contingente civile di caschi bianchi.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
La violenza delle scritte ingiuriose e gli atti simbolici di riconciliazione

In una scuola dell’obbligo, l’ultima settimana prima delle vacanze estive, nell’intervallo di pranzo, qualcuno col pennarello rosso scrive sui muri e sulla lavagna di una classe degli insulti a un insegnante. “Il professore è un pedofilo” “X…. sputa dappertutto”. Si può immaginare il dispiacere dell’insegnante quando vede queste scritte al momento del rientro in classe. La direttrice e qualche collega interrogano gli allievi, ma nessuna testimonianza consente di individuare il colpevole. Alcuni allievi che sono stati indicati in questi colloqui rifiutano le accuse. Nulla permette di stabilire un sospetto fondato. Gli insegnanti sono premuti dal tempo: vorrebbero che questa questione fosse conclusa prima della festa di fine anno, prevista per l’ultimo giorno di scuola. Chiedono ai colpevoli di autodenunciarsi; la direttrice comunica la sanzione che sarà applicata:
-1- lavoro di pubblica utilità a titolo di riparazione: pulizia di muri (la pulizia dei muri della classe era già stata effettuata immediatamente);
– 2- colloquio riservato con la direttrice;
-3 – scuse presentate al professore nell’ufficio della direttrice.
Malgrado la leggerezza della pena, nessuno si presenta. L’equipe degli insegnanti e dei delegati degli studenti riflette su questa situazione: non si può dare una punizione collettiva nonostante questa sia richiesta da molti allievi; è meglio lasciare un colpevole impunito che condannare ingiustamente. Bisogna definire la questione prima delle vacanze, spiegando che si tratta di un fatto elementare di giustizia. E’ infatti in gioco un lavoro delicato che concerne la memoria e l’oblio. Poiché nessuno vuole lasciare la cosa in sospeso, si decide di inquadrare i fatti nella prospettiva della mediazione. Non solo il tempo è limitato, ma è posta in questione la festa di fine anno: possiamo ancora fare una festa dopo questo atto? Se non si fa ciò che si è previsto si mostra la debolezza dell’organizzazione , che ne risulta così penalizzata. Così si prendono alcune decisioni per realizzare la mediazione. In un primo tempo la direttrice affigge un calendario dei giorni che rimangono prima delle vacanze e la festa di chiusura dell’anno scolastico: esso indica in questi termini le scadenze “Finchè il/i responsabile/i delle scritte ingiuriose non saranno identificati non è possibile vivere serenamente a scuola. Non ci restano che 4 giorni per ritornare a vivere insieme serenamente” Tutte le mattine, durante la settimana, davanti a tutte le classi riunite la direttrice incolla un’etichetta cambiando il numero dei giorni: 3-2-1.
Gli insegnanti pensano che i colpevoli non resisteranno alla pressione. Invece così avviene.
L’ultimo giorno, mentre le classi sono in cortile, gli insegnanti e i delegati degli studenti si riuniscono per trovare un atto simbolico che segni la riconciliazione, al di là della giustizia, poiché non è emerso nessun colpevole, che possa riparare l’affronto. Si decide che, prima della festa, tutta la comunità degli allievi, personale insegnante e non insegnante, si riunirà nel cortile, attorno ad una siluette , una sorta di spaventapasseri fabbricato alla veloce, con un attaccapanni vestito con una giacca e con una maschera bianca. La direttrice chiede il silenzio e , molto solennemente, il maestro si rivolge al fantoccio: “Io non ti conosco e può darsi che nessuno ti conoscerà mai, ma sappi che mi hai ferito e che questo è intollerabile, per me e per tutti. Noi allora ti diciamo ciò che pensiamo di te, quando tu agisci così. Poi ti espelleremo. Colui che stiamo per espellere non è una persona, è soltanto un fantoccio, una parte di una persona che non vogliamo vedere tra noi. Poiché sappiamo che la persona che ha scritto queste ingiurie vale ben più di quel che ha fatto, vale ben più di questo atto di cui lei stessa non vuole neanche parlare. Quando ti avremo espulso, potremo divertirci”. Poi ciascun delegato passa davanti al fantoccio, diventato capro espiatorio, dicendo: “Noi condanniamo ciò che tu hai fatto. Sparisci dalla nostra festa”.
Dopo che ciascuno ha parlato, il fantoccio, sempre molto solennemente e in presenza di tutti , è portato in un luogo oscuro, non dimenticato, ma escluso dalla festa.
Poiché non si poteva rendere giustizia e dato che tutta la comunità scolastica era stata ferita, bisognava che l’atto ingiurioso fosse ripreso e sanzionato in qualche modo. Bisognava integrare questo atto, attraverso il lavoro della parola, nella vita della scuola, perché si trasformasse in atto educativo.
Ciò che è stato rilevante è stato tutto il lavoro dei delegati con gli insegnanti e con i compagni allorché rendevano conto di quanto discusso. Tutto il lavoro di analisi dei fatti, i sentimenti provati per l’offesa, i valori della persona, della sanzione e della riparazione, i riferimenti al diritto (definizione della questione, sanzione individuale e non collettiva…), ruolo del linguaggio verbale nel quadro di uno scambio autentico. Si erano stabilite regole di discussione perché ciascuno potesse parlare ed essere ascoltato; perché, a partire dalla pluralità delle opinioni, si potesse costruire una soluzione condivisa collettivamente. L’organizzazione del dibattito, naturalmente, è stata impostata dagli insegnanti.
Un’altra fonte di riflessione è il valore degli atti simbolici che possono essere posti per sfuggire alla rottura del legame sociale e al sospetto generalizzato, per riconciliare le persone, colpite dalla violenza. La violenza, i conflitti trovano sovente la loro risoluzione nell’immaginario; bisogna trovare degli spazi di comunicazione organizzata perché la creatività possa svilupparsi collettivamente. Le assemblee generali diventano presto il regno della demagogia e del terrorismo intellettuale ; ciò di cui abbiamo bisogno è di istituzioni capaci di innescare e organizzare il dibattito pubblico. Le tecniche di brainstorm, l’uso di metafore e altri accorgimenti, sono serviti a costruire in poche ore, nel corso di questa settimana di lavoro della parola, nello spazio di una scuola, un atto altamente simbolico. Le frasi che sono state pronunciate con solennità sono state concepite, scritte, e riscritte, sono state pesate, perché non potevano essere improvvisate. Sono state condannate le scritte ingiuriose, così come quella parte della persona che ne era l’autore, e non la totalità della persona. Ed è questa parte che è stata simbolicamente esclusa. Credo, per parte mia, al valore degli atti simbolici che sono costruiti nello spazio della mediazione. Sono essi che rappresentano una prospettiva di soluzione. Quando la giustizia, le sue leggi e regole stabilite non riescono a funzionare, o quando la giustizia si è realizzata, è necessario in ogni caso ritessere dei legami, riconciliare le persone. In questa situazione anche la violenza, i conflitti aggressivi possono essere integrati nella vita sociale e delle istituzioni e diventare anch’essi educativi.

Jean Pol Rocquet, inspecteur de l’éducation, Champagne
In Courrier Aéré, n.95, 2001/3, Rennes riportato da « Generation Mèdiateur » n.5, dicembre 2001

MUSICA
A cura di Paolo Predieri

Intervista (impossibile) a John Lennon e George Harrison
Pace, Amore e Rock’n’roll

…sono emozionatissimo, peggio che all’esame di maturità, o alla discussione della tesi…. Un vecchio sogno della mia infanzia prende corpo: sto per incontrare John e George, sì proprio loro, due dei Beatles. Di passaggio in Italia per un viaggio, hanno concesso un’intervista ad Azione nonviolenta. I contatti li abbiamo presi tramite la War Resisters Internationale, alla quale Lennon e Harrison ogni tanto lasciano un finanziamento. Ci incontriamo in una saletta riservata dell’aeroporto Malpensa. Il tempo concesso è di mezz’ora.
Arrivo e loro sono già lì. Un sorriso, una stretta di mano; io sono evidentemente imbarazzato, non riesco ad iniziare. John mi prende in contropiede e fa lui la prima battuta: “Ti chiami come il Presidente cinese, che non era proprio un nonviolento… era meglio se ti chiamavi come Gandhi” ride, e l’atmosfera immediatamente si scioglie.

Arriviamo subito al dunque, e al motivo del nostro incontro. Cos’è per voi, oggi, la nonviolenza?

JOHN. Per me vale ancora quello che ho scritto più di trent’anni fa in Revolution, quelle parole esprimono bene ciò che provo tutt’ora nei confronti della politica. Non contate su di me se di mezzo c’è la violenza. Non aspettatevi che salga sulle barricata se non con un fiore. E per quanto riguarda rovesciare qualcosa in nome di qualche ideologia, voglio sapere cosa si farà dopo averla abbattuta. Intendo dire: non si potrebbe tenere buono qualcosa? A cosa serve mettere le bombe a Wall Street? Se vuoi cambiare il sistema, cambia il sistema, non serve a niente ammazzare la gente. Se vuoi la pace non la otterrai mai con la violenza. Ditemi quale rivoluzione violenta ha funzionato. Certo, qualcuna ha conquistato il potere, ma dopo cosa è successo? Lo status quo. La storia di abbattere il sistema va avanti da sempre. L’hanno fatto gli irlandesi, i russi, i francesi, i cinesi, e questo dove li ha portati? Da nessuna parte. E’ sempre lo stesso vecchio gioco. Chi guiderà il crollo? Chi prenderà il potere? I peggiori distruttori. Sono sempre loro ad arrivare primi. Quello che ho detto in molte mie canzoni è: cambiate la vostra testa. Se pensiamo a chi ha il potere, dobbiamo ricordarci che sono loro i malati. E, se hai un bambino malato in famiglia, non lo butti fuori di casa: cerchi di prenderti cura di lui e gli porgi la mano. Quindi prima o poi si deve trovare un punto di incontro con ciascuno, anche con i potenti. Se davvero noi siamo la generazione consapevole, dobbiamo stendere la mano al bambino ritardato e non dargli un calcio sui denti. L’unico sistema per assicurare una pace durevole è cambiare la nostra mentalità: non c’è altro metodo. I fini non giustificano i mezzi. La gente ha già il potere; tutto quello che noi dobbiamo fare è prenderne coscienza. Alla fine accadrà, deve accadere. Potrebbe essere adesso o fra cento anni, ma accadrà.

GEORGE. Gandhi dice di creare e conservare l’immagine della propria scelta. L’immagine della mia scelta non è il Beatle George: perché vivere nel passato? Sii qui ed ora. L’unica cosa importante della vita è il karma; la nostra vera natura consiste nel ristabilire ciò che sta dentro. La meditazione serve a districare tutta la confusione del tuo io, così quando te ne sei liberato diventi ciò che comunque sei. Ecco lo scherzo: siamo già ciò che vorremmo essere. Tutto ciò che dobbiamo fare è districarlo. Attraversiamo la vita trascinati dai sensi e dall’ego, cercando sempre nuove esperienze. Ma lungo il percorso ci invischiamo con l’ignoranza e l’oscurità, così sebbene siamo fatti di Dio non riusciamo a riflettere Dio. La nonviolenza è la strada che ci porta verso questa ricerca dell’assoluto in noi stessi.

Molte vostre canzoni hanno affrontato il tema religioso. Come parlereste oggi ai giovani della fede e della morte?

JOHN. Ho sempre sospettato che ci fosse un Dio anche quando pensavo di essere ateo. Sono credente e mi sento pieno di compassione. Lui è il potere supremo, Lui non è né buono né cattivo, né bianco né nero: è e basta.
Non ho paura di morire. Sono preparato alla morte perché non ci credo. Penso che sia solo uscire da un’auto per salire su un’altra.

GEORGE. Tutto può attendere, tranne la ricerca di Dio. Se Dio esiste io voglio incontrarlo. La prima volta che andai in India uno yogi dell’Himalaya mi disse “non puoi credere a nulla senza averne una percezione diretta”. Fantastico –pensai- finalmente qualcuno che parla in modo sensato. Per tutta la vita avevano cercato di educarmi come cattolico, ma a me veramente non interessava. Tutto l’atteggiamento dei “cristiani” sembra dirti invece di credere in ciò che essi ti dicono e non di avere un’esperienza diretta. Per questo oggi desidero approfondire sempre di più. Quando muori avrai bisogno di una guida spirituale e di una certa conoscenza interiore che vada oltre i confini del mondo fisico. Con queste premesse direi che non ha molta importanza se sei un re, un sultano o uno dei Beatles. Alcune delle migliori canzoni che conosco sono quelle che non ho ancora scritto, e non ha importanza se non le scriverò mai, perché sono niente rispetto al grande quadro.

Una domanda banale, ma inevitabile: cosa resta vivo dei Beatles? Riguardando il vostro album fotografico, sentite della nostalgia?

JOHN. Non rimpiango niente di quello che ho fatto, davvero, a parte forse aver ferito altre persone. Non rinnego niente. Noi siamo stati insieme molto più a lungo di quanto il pubblico sappia. E’ impegnativo vivere insieme in quattro per anni e anni, ed è questo che abbiamo fatto. Tutti i miei amici comunque erano i Beatles. C’erano i Beatles e forse altri tre con i quali ero veramente intimo. Penso che i Beatles fossero una sorta di religione. I Beatles sono finiti, ma io voglio ancora bene a quei ragazzi…
Credo che i sessanta siano stati un grande decennio. I grandi raduni di giovani furono per alcuni solo un concerto pop, ma sono stati ben di più. Sono stati la gioventù che si è riunita e ha detto: crediamo in Dio, crediamo nella speranza e nella verità, ed eccoci tutti insieme in pace. I giovani hanno speranze perché sperano nel futuro e se sono depressi per il loro futuro allora siamo nei guai. Noi dobbiamo tenere viva la speranza tenendola viva fra di noi. Io ho grandi speranze per il futuro.

GEORGE. E’ stata una storia d’amore unilaterale. La gente ci ha messo i soldi e le urla, ma i Beatles ci hanno messo il loro sistema nervoso, che è una cosa molto più difficile da dare. Tutti vedevano l’effetto Belates, ma nessuno si è mai preoccupato di noi come persone. La gente ci chiamava Beatles, e non si rendeva conto che noi eravamo quattro persone, quattro individui. Tutto questo, comunque, è stato un accumulo enorme di esperienza. Il karma è: raccogli quello che hai seminato. Non puoi essere in nessun posto che non sia dove intendevi essere, perché sei tu stesso a forgiare il tuo destino con i tuoi comportamenti. I Beatles erano tutto quello che è capitato. Alti e bassi sono la stessa cosa. Ogni cosa continua a cambiare, ma c’è sempre un equilibrio. La morale della storia è che se accetti gli alti, dovrai passare anche attraverso i bassi.
Oggi mi piacerebbe pensare che i vecchi ammiratori dei Beatles siano cresciuti, si siano sposati, abbiano tutti dei figli e siano molto più responsabili, ma che nei loro cuori ci sia ancora un posto per noi.

Dopo i Beatles, dopo le vostre carriere soliste, ora che avete superato la soglia dei 60 anni, cosa potete dire di aver imparato da tutte queste esperienze?

JOHN. La mia filosofia di vita è piuttosto semplice: pace, nessuna violenza, e tutto in armonia con il resto del mondo. E’ ovvio che in tutti noi c’è della violenza, però si deve essere capaci di incanalarla o di gestirla in qualche modo. Se voglio un mondo in pace mi limiterò a proporre al prossimo questa visione, non forzerò nessuno a volere la pace come me. D’altra parte bisogna essere consapevoli che o ci si sforza di combattere per la pace, oppure si è destinati a morire in maniera violenta.

GEORGE. Guardando indietro probabilmente cambieremmo tutto quello che abbiamo fatto a partire dal primo giorno. Ma va bene come è andata, le cose non si possono cambiare. Ma non è andata male, se si pensa che eravamo solo quattro ragazzi di Liverpool. Nell’insieme non avrebbe importanza se non avessimo mai fatto dischi o cantato una canzone. Non è importante quello. Qualsiasi cosa abbiamo fatto c’è ancora e ci sarà sempre. Quel che c’è, c’è, non è poi così importante. La mia vita non è cominciata con i Beatles, e non è finita con loro. Eravamo solo un complessino rock, ha significato molto per tanti, ma non era poi così importante.
Adesso, sto trascorrendo il resto della mia vita.

Ci resta solo un minuto. Qual è l’ultimo messaggio per i lettori di Azione nonviolenta?

JOHN. Non sono più alla ricerca di un guru. Non sto cercando niente. Le cose sono semplicemente così come sono. Ho sempre avuto l’idea della pace: si poteva già intuire dalle nostre prime canzoni.

GEORGE. La nostra musica è positiva. Il messaggio di fondo è sempre lo stesso: Amore.

… l’intervista è finita. John Lennon e George Harrison mi salutano e se ne vanno con un sorriso sereno. Quarant’anni fa erano un mito ed hanno infiammato la mia generazione; oggi sono due signori saggi, dai modi pacati e gentili. Per me restano dei fratelli maggiori.

A cura di Mao Valpiana

(testi liberamente tratti dall’autobiografia “The Beatles Anthology” Ed. Rizzoli, 2000)

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

Una religiosità laica per la libertà di pensiero
L’ORA DI RELIGIONE
di Marco Bellocchio – Italia 2001

Sono passate già diverse ore dalla visione in anteprima del nuovo film di Marco Bellocchio e ancora non riesco a distogliere il pensiero dalle sequenze che più mi hanno coinvolto emotivamente; una in particolare, quella che sicuramente provocherà le reazioni scomposte del mondo clericale più reazionario, non riesco proprio a cancellarla dalla mente: la stretta in un abbraccio carico di disperazione ma, allo stesso tempo, di tenerezza e di amore compassionevole da parte di Ernesto al fratello psicotico che, sottoposto ad una violenta e tremenda tortura psicologica, aveva appena bestemmiato al cielo la propria ribellione e il proprio grido di rabbia e di dolore. Sconvolgente! Ermanno Olmi, intervistato in merito, ha parlato di invocazione religiosa rievocante l’urlo disperato di Cristo sulla croce. Ed è proprio “religioso” l’orizzonte tematico di riferimento che sostanzia il nuovo film del regista de I pugni in tasca e Nel nome del padre, presentato nelle sale con il titolo L’ora di religione e il sottotitolo Il sorriso di mia madre. Religioso sì, ma nel senso della rivendicazione di una religiosità del tutto laica ed immanente, protesa nell’ affermare per l’essere umano la totale e coerente libertà di pensiero, estranea a qualsiasi dogma e precetto. L’ora di religione incarna nel suo personaggio principale, il pittore Ernesto Picciafuoco straordinariamente interpretato da Sergio Castellitto, il confronto-scontro tra una visione laica dell’esistenza e l’imbarbarimento di una certa pratica religiosa connessa alla mercificazione della fede e della dottrina.
Il film sviluppa tali tematiche, nel suo asse narrativo principale, con intelligenza, rigore e profondità, a partire dalla sorprendente rivelazione che, nella seconda sequenza, giunge inaspettata a sconvolgere il già turbato e combattuto animo del suo protagonista: un prete della Congregazione per le cause dei santi comunica a Ernesto Picciafuoco che è ormai in fase conclusiva il processo di canonizzazione di sua madre, assassinata anni prima dal fratello di Ernesto, Egidio, in un raptus provocato da gravi disturbi psichici di cui da tempo soffriva. Il laico ed ateo artista è chiamato a fornire il proprio contributo di testimonianza sulle virtù cardinali e teologali della futura Santa. La ormai da anni disgregata famiglia Picciafuoco, percepisce gli enormi vantaggi economici e di immagine che una tale evenienza potrebbe scatenare e, subito, ritrova la perduta unione, ricompattandosi attorno al fausto evento: fioccano le “conversioni” dei fratelli Picciafuoco, stupefacente soprattutto quella che “folgora” sulla via di Damasco il fratello impersonato da Gigio Alberti, ex terrorista dai trascorsi non proprio edificanti; spunta sulla scena persino l’immancabile miracolato il cui pseudonimo, prima dell’intercessione salvifica della Santa, era Filippo Argenti, l’arrogante figuro che Dante affossa nella palude Stigia tra gli Iracondi. A completare l’opera complessiva di “redenzione” e a dare un impulso decisivo al procedimento di canonizzazione mancherebbero solo la conversione di Ernesto e l’ammissione da parte di Egidio di aver ucciso la madre con un atto violento causato dai suoi continui inviti a non bestemmiare. Di qui la sua reazione descritta in incipit.
Un figlio laico ed ateo, dunque, si confronta con una madre della quale la famiglia vorrebbe santificare il sorriso; quel sorriso apparentemente gentile, cortese, quasi aristocratico , specchio di un modo di essere, di una disposizione d’animo che tradisce l’aridità che spesso si combina con il fervore religioso. Un sorriso dispensato a larghe mani a tutti, figli compresi, ma che rivela una drammatica assenza affettiva. Un sorriso che Ernesto sente di aver ereditato, con il suo valore anaffettivo, segno di un’ incapacità di amare che lo tortura ed ossessiona.
L’ambientazione delle scene, girate quasi tutte in interni di abitazioni borghesi e di sontuosi e opprimenti palazzi ecclesiastici, e la voracità meschina di quasi tutti i personaggi che le animano, contribuiscono a restituire l’immagine di una esistenza pervasa, in tutti i sui ambiti, da una soffocante bruttezza contrapposta alla bellezza abbagliante della “pseudo” insegnante di religione (interpretata dalla splendida Chiara Conti) della quale si innamora perdutamente Ernesto. Ed è proprio la nascita di un amore come “…forma più matura di ateismo…” – così afferma Ernesto – l’ultimo e definitivo gesto di ribellione del protagonista nei confronti della perversa religiosità familiare: quell’amore che la madre “santa e devota” non era riuscita a trasmettere né a lui né al suo più sfortunato fratello, Egidio.

Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte…

Come negli anni scorsi, anche quest’anno la Parmalat ha trovato il modo di porsi all’attenzione del movimento dei consumatori critici. E’ di due anni fa lo stupefacente annuncio della “scoperta” del latte Omega3 (a questo proposito andate a visitare il sito di Beppe Grillo www.mondomania.com/cervello/BeppeGrillo/Ga3.htm), rivelatosi in pratica un latte modificato con l’aggiunta di olio di pesce. L’anno scorso invece l’azienda parmense aveva tentato il colpaccio di sbarcare nel proficuo mercato delle acque minerali, inventando un sistema di filtraggio artificiale che trasforma miracolosamente le normali acque di rubinetto in “acqua pura”, come se gli acquedotti municipali fornissero ai cittadini acqua mefitica ed inquinata. Il tutto è ora sul tavolo dell’Antitrust, dopo la denuncia per pubblicità ingannevole da parte dell’Aduc.
La questione nata agli inizi dell’anno è nota: Parmalat commercializza da alcuni mesi il latte “Fresco blu”, prodotto in Polonia a basso costo, trasferito in Germania per sottoporlo a speciali filtraggi ed infine venduto con la dicitura “latte fresco” con scadenza 8 giorni dopo la mungitura, nonostante una legge italiana (più restrittiva di altre legislazioni europee) imponga tale dicitura al latte con scadenza di 4 giorni.
Questo comportamento si presta a notevoli critiche: innanzitutto il latte prodotto in Polonia non rispetta le rigide normative sanitarie richieste dalla normativa italiana; i metodi di filtraggio e pastorizzazione utilizzati sottraggono poi all’alimento diverse componenti nutritive. I produttori italiani sono così insorti richiedendo l’intervento del ministro per le Politiche Agricole Alemanno e facendo ricorso al Tar del Lazio.
Volendo rivangare un passato meno recente, si ricorda ancora come, in piena Guerra del Golfo, una trionfante pubblicità proclamava la Parmalat come “il latte preferito dalla Sesta Flotta” statunitense che in quel momento bombardava gli inermi civili iracheni.
Nata 40 anni fa a Parma e miracolata dalla doppia invenzione del tetrapack e della tecnologia UHT per la conservazione del latte a lungo termine, grazie ad un articolato piano di sviluppo e di espansione geografica nell’arco degli ultimi dieci anni il gruppo emiliano ha più che decuplicato il proprio fatturato, passando dai 1.110 miliardi di lire del 1990 agli oltre 14.000 miliardi di lire del 2000 ed espandendo la propria presenza operativa in trentuno Paesi. In Italia, oltre ai marchi Streglio, Giglio, Polenghi, Matese e Sole, lo shopping ha riguardato le attività lattiero-casearie della Cirio ed alcune centrali ex-municipalizzate come quella di Cremona, Monza, Bovisio e Genova.
L’espansione ha comportato un’infinità di tensioni lavorative con minacce di licenziamenti, chiusura di stabilimenti, trasferimenti di produzione: la questione non è ancora conclusa, anche se nel febbraio 2000, grazie all’intermediazione del Ministero dell’Industria, è stato raggiunto un accordo sindacale che mira a ridurre gli effetti devastanti della razionalizzazione della produzione.
Ma è soprattutto all’estero, ed in particolare in America Latina, dove si concentrano le peggiori accuse all’azienda parmense: oltre ad essere denunciata nel 1999 dall’OIL (www.transnationale.org /italien/fiches/-1550659065.htm) per violazione dei diritti lavorativi in Nicaragua, Brasile e Paraguay, la Parmalat ha premuto l’acceleratore della sua oliata macchina da profitti in quell’area geografica, puntando ad allargare la forbice tra il costo della produzione e quello della vendita. Il quotidiano Il resto del Carlino, il 2 febbraio 2001 (http://ilrestodelcarlino.quotidiano.net/chan/32/ 4:1777633:/2001/02/02), riportava l’ennesima denuncia da parte di un sacerdote reggiano missionario in Brasile, don Piero Medici, che accusava l’azienda di aver ridotto drasticamente e d’imperio i prezzi d’acquisto del latte dai produttori, costringendo alla fame i contadini della sua missione nello stato di Bahia.
Parmalat è sostenuta da una arrembante strategia di comunicazione coordinata dal 1999 da Bates Italia, che curiosamente ha tra i suoi clienti anche Amnesty International (per il quale ha curato la campagna “Tutti giù per terra”) e Manitese, per il quale ha coniato lo slogan “Solo per i soldi”. Affermava Cesare Casiraghi, direttore creativo di Bates Italia: “Mi spiego meglio, noi lavoriamo per voi per “soldi”, e cioè per far aumentare i fondi di Manitese. Per cui si lavora per soldi che non andranno a noi, ma a voi, permettendovi di finanziare più progetti, di pubblicare più libri e di essere ancora più presenti in Italia e nel mondo” (www.manitese.it/mensile/1299/ interviste.htm).
Dopo la sponsorizzazione negli anni ’80 di Real Madrid e Brabham, la Parmalat ha cambiato strategia indirizzando i propri sforzi sul calcio con particolare interesse per il Parma. La strategia commerciale si è così intrecciata a quella sportivo-economica portando l’acquisto di giocatori e la sponsorizzazione di società sudamericane allo scopo di migliorare l’immagine della società. Un’idea sicuramente non originale, ma che risulta essere sempre meglio della sponsorizzazione alle portaerei americane.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Il Gruppo di Lavoro Tematico Nonviolenza e Conflitti

Il Gruppo di Lavoro Tematico Nonviolenza e Conflitti (in sigla GLT-NV) nasce da una doppia esigenza scaturita di approfondire la teoria e la pratica della nonviolenza in quanto metodo proprio della Rete Lilliput e di introdurre tra le mobilitazioni lillipuziane una campagna di contrasto alla guerra ed alla sua preparazione. Due avvenimenti hanno accelerato questo processo. Da un lato, le giornate di Genova – con la tragica escalation di violenza che le ha contraddistinte – hanno evidenziato all’interno del “movimento dei movimenti” un deficit di cultura nonviolenta, tanto nella propria prassi mobilitativa quanto nella capacità di prevenzione e contenimento della violenza altrui, anche nella maggior parte di quei soggetti che pur si richiamano genericamente alla nonviolenza. Ciò significa che proprio la Rete Lilliput, che ha compiuto la scelta della nonviolenza fin dal proprio manifesto fondativo, ha la responsabilità di approfondire e praticare i principi, la strategia e il metodo della nonviolenza a beneficio dell’intero “movimento dei movimenti”. Dall’altro, gli scenari di sempre maggiore violenza diretta, strutturale e culturale, manifestatisi, dopo l’11 settembre, nella forma estrema della guerra che, oltre ad essere fortemente distruttiva essa stessa, alimenta in un circuito perverso le altre violenze e nasconde le profonde ingiustizie globali che ne sono concausa, impongono alla Rete Lilliput – anche in un’ottica di lavoro per “un’economia di giustizia” – di non poter trascurare l’impegno di contrasto alla guerra ed alla sua preparazione.
Il GLT-NV opera quindi su due fronti che ovviamente si intrecciano tra loro:
1)l’approfondimento, l’elaborazione e l’organizzazione per Rete Lilliput del metodo nonviolento per cercare di farlo passare da nonviolenza dichiarata a forma di azione politica praticabile con cui la Rete agisce nel conflitto quotidiano del territorio in cui è radicata. Per fare questo il GLT-NV sta lavorando affinché ogni nodo della Rete abbia dei momenti di formazione alla nonviolenza con il fine di creare al suo interno dei Gruppi di Azione Nonviolenta (vedere AN 12/01: “Per una strategia Lillipuziana, reticolare e nonviolenta” di Pasquale Pugliese).
2)L’opposizione integrale alla guerra attraverso l’introduzione tra le tipiche mobilitazioni della Rete Lilliput di una apposita campagna a tema. Per fare questo il GLT (e di conseguenza la Rete) sta lavorando assieme ai movimenti promotori alla Campagna Quadro di Obiezione del Cittadino e della Cittadina per un Disarmo Economico e Militare. La Campagna Quadro è uno dei primi esperimenti nel quale si cercherà, in un’ottica puramente lillipuziana di coordinare varie campagne e iniziative nuove o già attive nel campo dell’opposizione alla guerra e alla sua preparazione. Ecco quindi che la nuova Campagna di Obiezione del Cittadino proposta da MIR e Movimento Nonviolento si coordinerà tra le altre con la Campagna Banche Armate e con la Campagna di Obiezione alla Spese Militari e tutto questo per non disperdere in mille rivoli e mille iniziative l’impegno contro la guerra delle lillipuziane e dei lillipuziani.
Il Gruppo di Lavoro Tematico Nonviolenza e Conflitti è quindi lo strumento che la Rete di Lilliput si è data per approfondire, discutere, elaborare e deliberare sulle tematiche inerenti la pace, la nonviolenza e l’opposizione alle guerre. Il GLT-NV è stato fortemente voluto e richiesto dai movimenti e dalle associazioni che lavorano da anni su questi aspetti (in prima fila, tra gli altri, il nostro Movimento Nonviolento).
Ora sta a noi, persuase e persuasi dalla nonviolenza cogliere questa preziosa occasione che abbiamo per dare il nostro apporto e per portare le nostre idee e proposte al di fuori di quella piccola nicchia dove troppo spesso ci siamo relegati. Nella Rete Lilliput si trova tanta gente molto attenta e pronta ad ascoltare e accogliere il nostro contributo; il GLT Nonviolenza è il posto giusto dove possiamo muoverci e essere propositivi. Come partecipante ai lavori di questo gruppo non posso quindi non invitare tutte le iscritte e gli iscritti del Movimento Nonviolento e le lettrici e i lettori di Azione nonviolenta a parteciparne attivamente.

Per contatti:
mail to: glt-nonviolenza@retelilliput.org
per approfondimenti: http://www.retelilliput.org/glt/

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Mille segnali di speranza nella politica italiana

Nei mesi scorsi ho avuto l’opportunità di venire in Italia e di vivere in prima persona questo periodo non facile. Sono rimasto scosso dall’intensità della violenza verbale nella vita politica italiana. Mi ha scioccato soprattutto l’editoriale, firmato da un noto opinionista, che è apparso sul Giornale subito dopo l’assassinio per mano di terroristi del prof. Biagi a Bologna. Senza usare mezzi termini, questa persona accusava gli avversari politici dell’attuale governo di fare il gioco dei terroristi e anzi di esserne più o meno consapevolmente complici. La carica di odio e di disprezzo di quelle parole mi ha profondamente colpito.
Il nostro paese vive una stagione difficile. Tuttavia (o forse proprio per questo!) nella società ci sono mille segnali di speranza per una trasformazione che renda il nostro modo di vivere un po’ meno violento. In poche settimane gruppi di comuni cittadini hanno inventato una tecnica della nonviolenza semplice e suggestiva: il girotondo intorno a luoghi simbolo della democrazia e della società italiana, per dimostrare visibilmente che noi, di quei luoghi, vogliamo prenderci cura. Ho avuto modo di partecipare all’assemblea del “Laboratorio per la democrazia”, promosso dai docenti universitari fiorentini: è stata una bella sorpresa vedere che l’assemblea, per quanto organizzata in maniera classica (con il podio, gli oratori, gli interventi dal pubblico), era attenta, aperta e per nulla violenta. Da qui ad assemblee veramente “di tutti”, con comunicazione orizzontale, elaborazione collettiva delle idee, metodo del consenso, il passo sarà davvero breve.
Oggi i movimenti spontantei dei mesi scorsi stanno cercando di darsi delle strutture più solide e delle modalità di azione durature. Mi auguro che tanti cittadini e cittadine indignati/e scoprano la nonviolenza, e che tanti amici e amiche della nonviolenza si mettano a dialogare con i nuovi movimenti.
Poi, naturalmente, c’è la splendida novità della rete di Lilliput… Ho avuto modo di incontrare tre gruppi di lavoro sulla nonviolenza (dei nodi di Firenze, Prato e Roma), e mi hanno colpito la serietà della ricerca e la ricchezza di esperienze individuali che confluisce in questi gruppi. A Firenze abbiamo trascorso una giornata di riflessione comune. È venuto fuori che di “come fare nonviolenza” c’erano almeno dieci idee diverse – una ricchezza tumultuosa di progetti e di voglia di agire! Azioni dirette nonviolente nello spirito della DPN; atti simbolici o dimostrativi, come il teatro di strada; la conduzione di campagne di pressione e sensibilizzazione; il mettere in moto un meccanismo “a cascata” di diffusione della nonviolenza nella società; la coltivazione della cittadinanza attiva per i problemi sociali e politici più pressanti; lo sviluppo di stili di vita alternativi e nonviolenti; la promozione della mediazione in conflitti di diversa natura; il lavoro di formazione alla nonviolenza; l’approfondimento teorico; lo sviluppo dell’assertività individuale.
La ricerca continua. Qualche tempo fa ho ricevuto un messaggio da Yukari, una amica “lillipuziana” di Pistoia. Lei propone di “adottare un nemico”: “Ciò che intendo è cercare tra nostri amici/conoscenti una persona con cui non si condivide per nulla le posizioni politiche ma si ha un rapporto di fiducia umana consolidato, quindi c’è una possibilità di dialogo. Facendo leva sull’amicizia (per così dire), non si potrebbe aprire un confronto maieutico?”
Mi sembra che “adottare” sia una pratica nonviolenta dall’impatto fortissimo. Adottare significa prendersi cura, gratuitamente, di qualcosa o di qualcuno; fare questo per l’altro/a e tendenzialmente per tutti, non per sé; infine, significa agire con calma nel tempo, costruire passo dopo passo una relazione. Saper stare nel conflitto in maniera nonviolenta significa puntare sulla relazione, su tutto ciò che unisce, anche con l’avversario.
Forse potrebbe essere utile trasformre quest’idea in un’azione collettiva: lanciare ad esempio una campagna per “adottare” un giornale, o un telegiornale. Cioè seguire pazientemente una testata cartacea o radiotelevisiva, pubblica o privata, e intervenire puntualmente, in maniera documentata, sulle eventuali distorsioni e mancanze che si dovessero riscontrare, invitando anzitutto i responsabili ad adottare provvedimenti, e segnalando poi le mancanze (e le cose fatte bene), ai diretti interessati, ai competenti organi di controllo e all’opinione pubblica. Anche sui temi della TV e dell’informazione un’“aggiunta nonviolenta“ potrebbe trasformare in maniera decisiva il conflitto.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
L’antimilitarismo italiano durante il ventennio fascista

Un’altra figura di antimilitarista da ricordare è quella di Piero Martinetti, che con il suo libro Gesù Cristo e il cristianesimo, pubblicato nel 1934, portò un contributo al pacifismo in tempi in cui non era facile farlo. Tuttavia egli ammetteva in certi casi la legittimità della resistenza violenta. Nel 1931, quando uscì il decreto legge che imponeva ai professori universitari il giuramento di fedeltà al regime fascista, Martinetti fu uno dei soli undici docenti che lo rifiutarono e che per questo subirono il licenziamento immediato.
Le difficoltà che incontrarono i pacifisti ad esprimere e a vivere le loro idee durante il ventennio fascista divennero ancora più ardue durante il periodo bellico. Non siamo a conoscenza di casi di obiezioni di coscienza in Italia durante la seconda guerra mondiale, ma possono essere considerati tali molti episodi di diserzione o di rifiuto. Tra i tanti casi citiamo quello del soldato delle SS Leonhard Dallasega di Proves in val di Non che si rifiutò di uccidere un innocente e per questo venne fucilato nel 1945.
Nel dicembre 1944 in Sicilia scoppiò una rivolta che fu in seguito definita “dei nonsiparte”. Essa ebbe inizio quando ai giovani di età compresa tra i venti e i trent’anni cominciarono ad arrivare le cartoline precetto con le quali dovevano presentarsi ai rispettivi distretti per essere arruolati e mandati al fronte a combattere contro i tedeschi. Era un’operazione che avrebbe consentito la ricostruzione dell’esercito, dopo la sua dissoluzione seguita all’8 settembre, e si decise di reclutare anche gli ex sbandati, in modo da ricambiare le classi di combattenti più anziane, alcune delle quali avevano raggiunto anche i cinque anni di servizio. La maggior parte dei giovani, però, non voleva più sentir parlare di guerra, anche per la fame e la disoccupazione che non concedevano tregua, e non si presentò ai distretti. Per la sola Sicilia, secondo le stime più ottimistiche, lo stato maggiore dell’esercito disponeva di circa quindicimila unità, appena un quinto di quante ne erano state previste. I richiamati non si nascosero, ma dimostrarono pubblicamente il loro rifiuto, organizzando cortei di protesta davanti alle prefetture, ai distretti militari e alle caserme dei carabinieri e chiesero che il governo fosse informato della loro intenzione di non obbedire agli ordini impartiti. La fine della fase pacifica della rivolta e l’inizio dell’insurrezione popolare si ebbero a Catania il 14 dicembre 1944, quando i militari del distretto spararono su un gruppo di dimostranti, uccidendo uno studente. L’esercito impiegò due giorni per ristabilire l’ordine a Catania, ma focolai di rivolta si estesero immediatamente a Ragusa, Comiso, Avola, Scicli, Giarratana, Rosolino, Noto, Modica e Vittoria. A Giarratana e a Comiso i ribelli proclamarono addirittura una repubblica, con tanto di governo provvisorio, di proclami e di distribuzione giornaliera di viveri alla popolazione. Se il motivo della rivolta nacque con la chiamata alle armi dei giovani, i tumulti in seguito si estesero per motivazioni più ampie. “A mio parere”, ricorda Giacomo Cagnes, deputato comunista che partecipò da studente ai moti insurrezionali di Comiso “il movimento di rivolta, specie a Comiso, fu assolutamente spontaneo e popolare, stimolato dal richiamo alle armi, ma alimentato dalle antiche esasperazioni proprie delle popolazioni del Sud.” La rivolta dei nonsiparte fu una dimostrazione dell’incapacità della sinistra di comprendere i motivi di avversione del popolo, già sottoposto ad enormi sacrifici durante la guerra, alle strutture militari. Sintomatico è il giudizio politico che la Direzione del Partito Comunista applicò nel 1945 ai moti: “Si tratta di un vero e proprio rigurgito di fascismo che in collusione con certi gruppi del movimento separatista, sfruttando le tragiche condizioni di esistenza del popolo lavoratore (…) vuole impedire la partecipazione alla guerra di liberazione dei siciliani per mantenerli nell’attuale stato di prostrazione e aggravare la disgregazione politica e sociale dell’isola. I criminali fascisti tanto del ventennio mussoliniano quanto promotori dei torbidi recenti vanno dunque ricercati e puniti col massimo rigore come traditori della Patria in armi” 1. Ma che la rivolta fosse un “rigurgito di fascismo” è improbabile e lo dimostra la grande presenza degli anarchici, soprattutto a Ragusa dove diffusero un periodico manoscritto dal titolo “La scintilla darà la fiamma” 2. Caduto il fascismo, riconquistata la libertà, finita la guerra per il Sud, per chi e per che cosa le popolazioni locali sarebbero dovute tornare a combattere? Per quel re e per quella classe che avevano imposto la guerra fascista e che ora ne volevano un’altra? Questa volta – era la parola d’ordine – se una guerra sarà necessaria, sarà quella contro i padroni e gli sfruttatori. La rivolta, però, alla fine fu repressa militarmente e le denunce per renitenza e diserzione furono centinaia di migliaia 3.

LIBRI

A cura di Sergio Albesano

Pat Patfoort, Io voglio, tu non vuoi. Manuale di educazione nonviolenta, EGA, Torino 2001.

Pat Patfoort è piuttosto nota in Italia per aver tenuto diversi seminari di formazione alla nonviolenza, dal Piemonte alla Sardegna, dalla Sicilia al Trentino Alto Adige.
Il suo originale approccio strutturale alla nonviolenza è perciò conosciuto e usato da diversi formatori, ma ogni volta che lei lo ripropone si scopre qualcosa di nuovo, di più profondo e vero.
Lo schema concettuale da cui parte è semplice e chiaro: l’origine della violenza nelle relazioni è data dal modello “M-m”, in cui “ciascuno cerca di presentare il suo punto di vista o comportamento o caratteristica come migliore di quella dell’altro”. Ciascuno dunque afferma di essere nel giusto e cerca di vincere sull’altro, imponendogli la propria volontà o convincendolo con argomentazioni stringenti.
La violenza può essere sottile o brutale, ma la sua essenza non cambia e il suo significato profondo è il non riconoscimento dell’altro.
L’ottica della nonviolenza tende invece a superare il sistema bidimensionale e manicheo che separa e distribuisce nettamente ragioni e torti, ricerca il colpevole, si illude di risolvere il problema etichettando i buoni e i cattivi, rigorosamente distinti, e va invece alla ricerca di quella “visione doppia”, capace di svelare le connessioni, di costruire i ponti, di individuare i fondamenti comuni che consentono di andare al di là del conflitto, trasformandolo e aprendo prospettive nuove di soluzione e di relazione.
E’ il modello dell’equivalenza, che interrompe la violenza mimetizzata contro l’altro o l’aggressione rivolta verso se stessi e si fonda sull’ascolto, sull’empatia, sulla comunicazione profonda che nascono dal riconoscimento e dal rispetto di sé e dell’altro, non dell’uno a scapito dell’altro.
Il Manuale di educazione alla nonviolenza è frutto di questa ricerca costante e della sperimentazione quotidiana in mille contesti diversi di conflitto, dal micro al macro.
I casi esaminati rendono vivo il racconto ed esemplificano il modello in modo convincente e concreto.
Il messaggio di speranza che si ricava dal testo è sintetizzato nella potente similitudine posta in apertura e richiamata dall’immagine di copertina:
“Così come ogni sorgente sempre, di continuo, cerca di rendere l’immensa risorsa d’acqua sulla terra un po’ più pulita, più potente e più ricca di vita, allo stesso modo, per ogni vita umana, l’educazione nonviolenta può rendere l’anima della società un po’ più pura, più vera e potente e l’esistenza più pacifica e vivibile, arricchita di dignità umana”.

Angela Dogliotti

F. SCAPARRO (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Guerini e Associati, Milano 2001.

«Non si deve negoziare per paura, ma non si deve mai aver paura di negoziare». Da questa affermazione di John F. Kennedy nasce il titolo del volume curato dallo psicologo Fulvio Scaparro Il coraggio di mediare.
Aiutare le parti a negoziare sta diventando sempre più un bisogno ineludibile in un ambiente culturale, quale è il nostro, più portato allo scontro che al dialogo, dove la tensione sociale ha spesso oltrepassato il livello di guardia ed è sempre più evidente l’incapacità di affrontare e gestire i conflitti in modo costruttivo. A questo aumento della conflittualità si accompagna un crescente bisogno di risoluzioni alternative delle controversie.
La mediazione, che è un processo attraverso il quale un terzo neutrale facilita l’incontro tra le parti permettendo loro il confronto e la ricerca di una soluzione condivisa, rappresenta proprio una di queste alternative. Sviluppata negli anni Sessanta negli Stati Uniti – i primi tentativi di introduzione si ebbero nell’ambito di training per la difesa dei diritti civili e per la promozione della nonviolenza – la pratica della mediazione è approdata dapprima in nord Europa e negli ultimi anni, con sempre maggiore attenzione, anche nel nostro Paese.
Lo studio del conflitto, contrariamente alla realtà del mondo anglosassone, stenta a trovare una collocazione nel panorama delle scienze sociali in Italia. Considerando quindi lo scarso numero di pubblicazioni scientifiche in italiano su questo tema, la presente opera offre un importante servizio di divulgazione e di approfondimento. I sedici articoli che compongono il libro puntano proprio ad indagare l’ampia gamma di ambiti nei quali la mediazione ha oggi trovato applicazione, dalla politica locale a quella nazionale e internazionale, dai tribunali alla scuola, dalla famiglia all’azienda.
I conflitti non sono di per sé distruttivi, bensì possono rappresentare la presa di coscienza di una crisi ed essere motore di cambiamento e di crescita. Pertanto è opportuno suscitare il conflitto quando esso stenta ad emergere per arrivare alla consapevolezza che i conflitti si possono gestire trasformandoli creativamente e costruttivamente, se adottiamo una strategia dove ambedue le parti possano risultare vincitrici. Conflitto quindi come luogo di relazione dove si scopre che “le vere relazioni umane consentono il conflitto, ossia il confronto, lo scambio, la divergenza e l’opposizione” (D. Novara).

Andrea Valdambrini

LETTERE

Spegni il cellulare

Caro direttore,
qualche consiglio su come difendersi dai maniaci del cellulare.
Vi capita, in treno, di avere nel vostro scompartimento qualche maleducato/a che, telefonando a ripetizione e a voce alta, vi impedisce di godervi il viaggio leggendo o riposando?
Purtroppo a me capita spesso. Cosa fare?
Potete far presente, con cortesia, che il Regolamento delle Ferrovie prevede che il telefonino possa essere usato negli scompartimenti solo se non reca disturbo agli altri viaggiatori.
Se il cellulare-dipendente non vi da retta, potete far intervenire il controllore o il capo-treno, che hanno l’obbligo di farlo, se richiesto.
Se però non volete aspettarli, o non passano mai, potete allora usare una tecnica nonviolenta, che di solito ha efficacia immediata: invece di voltarvi dall’altra parte cercando di non ascoltare, vi mettete in posizione di evidente ascolto ed interesse, rispondendo col suo stesso volume di voce alle domande o alle affermazioni del/la telefonista folle.
Oltre che divertirvi alla grande, vedrete crescere l’ilarità generale nello scompartimento, con l’immediata sospensione della serie di telefonate o l’allontanamento della causa di disturbo verso la zona servizi.
Provare per credere. Naturalmente sempre restando nei binari dello scherzo garbato, in modo da non provocare reazioni esagitate, da crisi di astinenza.

Michele Boato
Mestre

Rifiuta il francobollo

Caro direttore,
ho ricevuto oggi una lettera dalle Poste Italiane firmata dalla signora Luisa Chizzola, specialista in prodotti filatelici, nella quale mi si offre l’acquisto di un francobollo in uscita che raffigura la faccia della ex Regina Elena ( sottolineo ex perché a leggere la lettera non sembra che la monarchia sia defunta poiché viene definita “la Regina Elena”!).
Mi sembra davvero impossibile che vengano messi in vendita immagini della casa regnante che ha tradito il nostro Paese e in particolare della donna, definita “esponente di Casa Savoia”, di cui sono innumerevoli le prove di adesione al partito fascista. Penso che se l’immagine doveva servire a fin di bene per raccogliere fondi, ben altre figure rappresentative dovevano essere scelte a meno che non si voglia far coincidere maliziosamente questa raccolta di fondi per il maggior trionfo dell’entrata degli ultimi Savoiardi in Italia. I latini dicevano “mala tempora currunt”: corrono cattivi tempi….
Cordiali saluti.

Sandro Canestrini
Rovereto

La guerra è terrorismo

Caro direttore,
ho già detto in passato che considero l’espressione “guerra al terrorismo” errata e fuorviante, perché la parola “terrorismo” significa, in effetti, “attività che genera terrore”; sicchè la guerra, che genera terrore su ogni campo di combattimento, non è altro che una forma intensa ed estrema di terrorismo.Tutto ciò che si ottiene è un tentativo apparente di combattere un male con un altro dello stesso genere, però più intenso e più grande. In conclusione una contraddizione in termini, come se si pretendesse di spegnere un incendio usando un lanciafiamme.
Tuttavia, pochi giorni fa, ho trovato citata sul “Manifesto” un risoluzione dell’Onu che definisce il “terrorismo” nella seguente, particolare, accezione: “attività militare che genera vittime tra i civili”. In questo senso si può pacificamente dire che tutte le guerre moderne combattute dagli eserciti sono forme di terrorismo certo. E’ noto, infatti, che la guerra moderna provoca più vittime tra i civili che non tra i militari. Secondo Gino Strada le vittime sono, ormai, il 90% civili (e già Don Milani faceva osservare che fin dalla 2°guerra mondiale il numero di vittime civili superava quello di militari).
Non sono guerre in difesa dei popoli, bensì guerre contro i popoli, e sono, a tutti gli effetti, manifestazioni di terrorismo di stato, premeditate e pianificate.
Non si può combattere la violenza ed il terrorismo con una violenza ed un terrorismo ancora maggiori. Il fuoco si spegne con l’acqua. Il terrorismo e la guerra si sconfiggono con iniziative civili di pace.

Vincenzo Zamboni
Verona

Errata Corrige

Caro Direttore,
mi chiamo Laura Coppo e sono una collaboratrice del Centro Sereno Regis. Vi scrivo perchè parlando con Vittorio Merlini ci siamo resi conto di un errore nel numero 1-2/2001 di Azione nonviolenta.
L’intervisa a Sri Jagannathan che avete pubblicato con il titolo “Cosa farebbe Gandhi se fosse vivo? Intervista all’ultimo dei gandhiani”, non è del caro Vittorio ma invece è mia! Questa intervista sarà parte di una biografia da me curata su Jagannathan e la moglie Krishnammal che sarà presto pubblicata dalla EMI, e per questo vi sarei grata se potreste pubblicare una rettifica.

Laura Coppo
Torino

LUTTO

Sabato 1 giugno è serenamente spirata, nella sua casa di Firenze, Birgitta Ottosson, amica del Movimento Nonviolento fin dalle origini, e moglie fedele di Pietro Pinna. Donna sensibile, generosa, compassionevole, buona, Birgitta lascia una presenza viva in tutti coloro che le hanno voluto bene. Raggiunge il figlio Per che l’ha preceduta nei cieli.
Gli amici del Movimento Nonviolento si stringono attorno a Pietro, la figlia Anna e il nipotino Michele.
La resistenza nonviolenta e il cambiamento sociale

Conferenza Triennale della War Resisters’ International
Dublino, Irlanda, 3-10 Agosto 2002

La War Resisters’ International terrà una conferenza in Irlanda, a Dublino, dal 3 al 10 agosto 2002, dal titolo “Storie e strategie – Resistenza nonviolenta e cambiamento sociale”. Saranno presenti pacifisti e attivisti impegnati sul fronte della giustizia sociale, provenienti da tutto il mondo, per discutere insieme su come rendere il mondo meno violento e militarizzato, soprattutto dopo che, dall’11 settembre, il livello di violenza tra le nazioni, ma anche all’interno delle società, è cresciuto enormemente, come dimostrato dal ricorso sempre più frequente e massiccio all’impiego della forza militare. Eventi, questi, che nel loro insieme hanno creato un clima diffuso di paura ed incertezza.

Occorre sviluppare nuove strategie nonviolente per porre fine alla minaccia del terrore, ma anche per svelare e scardinare la violenza istituzionale. Occorre trovare nuovi modi per ascoltare ed entrare in dialogo con tutte quelle persone che, nelle nostre società, trovano l’approccio pacifista e nonviolento troppo difficoltoso. Dobbiamo rafforzare la nostra rete internazionale e renderla un modello di globalizzazione dal basso. La conferenza sarà occasione per un forum in cui confrontarsi sui passi da intraprendere per raggiungere questi obiettivi.
Il titolo e il tema “Storie e strategie – Resistenza nonviolenta e cambiamento sociale” assume un nuovo significato in questi tempi di mutati scenari politici. Narrare storie permette alle persone di imparare le une dalle altre, le mette in relazione e le aiuta ad affrontare situazioni complesse e dolorose; fa sì che ogni persona si senta valorizzata e parte del tessuto sociale. Chi sarà presente verrà incoraggiato a portare le proprie storie da condividere, rendendo partecipi tutti delle proprie campagne e degli sforzi individuali di resistenza nonviolenta per la costruzione della pace.
In parte questi argomenti verranno sviluppati attraverso GRUPPI TEMATICI, ovvero gruppi di discussione che si incontreranno per alcune ore al giorno. Saranno utilizzate diverse metodologie per far emergere le esperienze dei partecipanti: giochi di ruolo, presentazioni ed esercitazioni di gruppo.
I diversi gruppi tematici programmati per la conferenza sono i seguenti:
Economia, militarizzazione e globalizzazione
Violenza nella società e riconoscimento della forza sociale della nonviolenza
Violenza interetnica e violenza all’interno degli stati
Sessismo e razzismo in relazione al militarismo e alla guerra
Obiettori di coscienza, veterani e antimilitarismo
Strategie per l’apertura dei confini: asilo ed emigrazione
Introduzione alla nonviolenza
A colloquio col passato
“Operazioni di Pace” internazionali: cosa sono e cosa potrebbero essere

Al termine di ogni giornata avrà luogo un’ASSEMBLEA PLEANARIA in cui i relatori condivideranno alcuni casi di studio per stimolare il dibattito tra i partecipanti. Lo scopo di tali assemblee è di far luce su questioni politiche e strategie che abbiano rilevanza per gli attivisti nonviolenti. Ogni assemblea sarà gestita da relatori, provenienti da diversi paesi, con esperienza e competenza relative al tema in questione.
Gli argomenti previsti per le assemblee plenarie sono:
Che ruolo giocano le storie nelle nostre strategie?
Il processo di pace in Irlanda
Il collegamento tra la violenza nella vita quotidiana e la violenza a livello globale
Militarismo, antimilitarismo e società civile
Impegno popolare e strategie nonviolente

Ogni pomeriggio sono infine previsti dei WORKSHOP. Alcuni di questi avranno per tema specifiche campagne, altri saranno utili per acquisire abilità nell’addestramento nonviolento mentre altri serviranno ad introdurre tematiche specifiche.

Contemporaneamente avrà luogo un CAMPO DI LAVORO PER GIOVANI, in collaborazione con il Servizio di Volontariato Internazionale e con la sezione irlandese del Servizio Civile Internazionale.

Nella lunga storia della WRI le Conferenze Triennali sono state spesso occasione per progettare piattaforme internazionali da cui lanciare nuove campagne pacifiste e discutere nuove idee e proposte relative alla nonviolenza.

ADESIONI E ISCRIZIONI
Il termine per l’iscrizione è il I° LUGLIO 2002 (anche se sarebbe meglio iscriversi il più presto possibile). Oltre tale scadenza gli organizzatori non saranno in grado di garantire la possibilità di alloggio né, in generale, quella di partecipare ai lavori del congresso.

E’ possibile effettuare l’iscrizione on-line attraverso un modulo predisposto a tale scopo, che però può anche essere scaricato in formato pdf, compilato, ed spedito all’ufficio della Triennale della WRI di Dublino:

WRI Triennal Office
84 Templeville Drive
Templeouge, Dublin 6W
Ireland

Tel./fax +353 1 406 3060
Email Dublin@wri-irg.org
http://www.wri-irg.org/tri/2002/index.htm

COSTI
– Iscrizione al seminario: 350 euro
– Quota giornaliera: 40 euro

Di Fabio