• 25 Aprile 2024 18:07

Azione nonviolenta – Maggio 2002

DiFabio

Feb 4, 2002

Azione nonviolenta maggio 2002

– Nonviolenti a Congresso per cercare il varco della storia, di Mao Valpiana
– XX Congresso del MN Relazione introduttiva della Segreteria, di Daniele Lugli
– Le Mozioni approvate
– I poveri sono poveri ovunque e ovunque hanno bisogno di una banca. Intervista a Muhammad Yunus – a cura di Elena Buccoliero
– Il Santo di Assisi e il lupo di Gubbio, di Daniele Lugli
– Israele e Palestina, c’è una proposta della nonviolenza? Resoconto a cura di Elena Buccoliero
– Intervista di un israeliano ad un palestinese: c’è posto per la nonviolenza in Medio Oriente? Traduzione di Angela Dogliotti Marasso
– Marcia straordinaria Perugia-Assisi per la pace in Medio Oriente 12 maggio 2002

Nonviolenti a Congresso per cercare il varco attuale della storia.

A cura di Mao Valpiana

Oltre cento partecipanti, tre giorni di lavoro, molte le proposte e gli impegni emersi per i prossimi anni. E’ senza dubbio positivo il bilancio politico del ventesimo Congresso del Movimento Nonviolento (MN).
Il titolo dell’appuntamento ferrarese (12-14 aprile) era “La nonviolenza è il varco attuale della storia”; ovvio quindi che le energie del Congresso non potevano concentrarsi solo sugli aspetti interni della vita del MN, ma dovevano essere spese anche per gli impegnativi scenari circostanti: il conflitto israeliano-palestinese e la lotta alla povertà nel mondo.
Il Congresso si è aperto il venerdì sera con una affollatissima assemblea sulla possibilità di una soluzione nonviolenta per la crisi mediorientale. Abbiamo chiamato ad aiutarci nella riflessione tre amici che rappresentano altrettanti diversi punti di vista. Il confronto fra Mario Miegge (biblista), Giannina Dal Bosco (donne in nero) e Gianni Sofri (storico) trova spazio da pagina xx a pagina xx. In questo numero di Azione nonviolenta pubblichamo anche una bella intervista a Mubarak Awad, un ricercatore per la pace palestinese, che ci fa intravedere nuove vie e nuove prospettive per superare un conflitto che oggi sembra approdato ed un vicolo cieco.
L’intera giornata del sabato è stata dedicata ai lavori di commissione. Nove gruppi hanno elaborato analisi e proposte che poi l’assemblea degli iscritti al MN ha fatto proprie. Le mozioni sull’educazione alla pace, sui mezzi di comunicazione, sui corpi civili di pace, sulla difesa della democrazia, e molto altro ancora, sono pubblicate integralmente da pagina xx a pagina xx.
La domenica mattina, in assemblea plenaria, è venuto a portarci un saluto Muhammad Yunus, conosciuto in tutto il mondo come “il banchiere dei poveri”: ci ha parlato della sua Banca che vuole affrancare i poveri dalla schiavitù della miseria. Gli abbiamo fatto un’intervista, che trovate a pagina xx.
Il Congresso ha poi elaborato una iniziativa che ci accompagnerà per tutto il prossimo anno e che si concluderà nell’estate del 2003 con una marcia nonviolenta da Assisi a Gubbio: la strada che percorse Francesco per andare ad incontrare e ammansire il Lupo. E’ la metafora della risoluzione nonviolenta dei conflitti e della necessità di trovare una via politica per “amare i propri nemici”. Dal prossimo numero, con scadenza mensile, prepareremo questo evento con 12 parole chiave, che ci aiuteranno (insieme all’impegno di un giorno mensile di digiuno) nella preparazione di questo cammino. Questa iniziativa è il proseguimento ideale della nostra Marcia nonviolenta Perugia-Assisi del 2000, che infatti mantiene lo stesso titolo, ed è anche il nostro manifesto politico: “Mai più eserciti e guerre”. Ne parliamo a pagina xx.
Un buon Congresso si conclude bene solo se si riesce a darsi le gambe necessarie per camminare. Così, il nostro Congresso di Ferrara ha terminato i lavori (ri)eleggendo il nuovo (vecchio) Segretario che è il caro e bravo Daniele Lugli (a lui e al gruppo di Ferrara, Elena in particolare, i nostri ringraziamenti per l’ottima organizzazione congressuale e la squisita ospitalità) e nominando il nuovo Comitato di Coordinamento che dovrà dare corpo agli impegni presi dagli iscritti. L’assemblea, infine, mi ha riconfermato la fiducia affidandomi nuovamente la direzione di Azione nonviolenta. Grazie. Non spetta a me giudicare il prodotto che mensilmente offriamo agli abbonati, ma la crescita delle adesioni e il lavoro collettivo che insieme riusciamo a svolgere, sta a testimoniare che l’eredità culturale lasciataci da Aldo Capitini continua a riprodursi e rinnovarsi.
Se la nonviolenza è il varco attuale della storia, c’è bisogno della persuasione di tutti per oltrepassare questo difficile passaggio.

Ferrara, 12-14 aprile 2002

XX Congresso del Movimento Nonviolento “La nonviolenza è il varco attuale della storia”
Relazione introduttiva della Segreteria Nazionale

(fatta propria dal Congresso, come Mozione politica generale)

“La nonviolenza è il varco attuale della storia” è il titolo, tratto da Elementi di un’esperienza religiosa di Aldo Capitini, scelto per il nostro XX Congresso.

Nell’invito abbiamo ricordato che quello scritto si apre con un capitoletto intitolato Al centro dell’umanità. E’ un appello ad essere consapevoli del proprio tempo, a sentire e soffrire i bisogni dell’umanità, ad assumere il proprio impegno, con una serissima ricerca. E’ compito che riguarda tutti: “Non è privilegio né speciale condanna di nessuno”. Come prosecutori del Movimento da Capitini promosso, certamente riguarda noi.

Dall’ultimo Congresso sono passati due anni e un millennio e molte cose si sono succedute, che meriterebbero analisi non frettolose. Il Congresso vuole esserne un piccolo momento e questa ne è una modesta introduzione. Credo si possa dire che la sommaria analisi compiuta nel passato Congresso resti confermata e si siano accentuate tendenze che avevamo individuato.

Il processo di globalizzazione nella produzione e circolazione di merci, nella riduzione a merce di ogni bene già comune, immateriale, vivente si è esteso ed approfondito. Si continua a proporre un modello di sviluppo che rende sempre più ricca di beni e consumi una parte dell’umanità e povera, sfruttata, emarginata, la restante maggior parte. Sviluppo della tecnica e competizione sui mercati, senza alcun limite che non sia quello dell’interesse delle classi privilegiate e dominanti, sono la risposta ad ogni problema.

Trascurabili effetti collaterali, che l’applicazione della ricetta permetterà di superare, sono i disastri umani, sociali, ambientali, nel frattempo prodotti in giro per il mondo. La politica, anche nelle democrazie occidentali (ed esempi migliori non se ne vedono), sia a scala mondiale che locale, è ridotta al più ad amministrazione e garanzia, se necessario con l’impiego della massima violenza, del progresso tecnico-economico a vantaggio dei più forti.

La violenza crescente del modello unico

Nell’ultimo congresso abbiamo evocato il movimento del mondo evidenziandone la violenza strutturale. Già Horkheimer l’aveva descritta come un iniquo grattacielo settanta anni fa. Si continuano a sopraelevare i piani alti ed a scavare le cantine. Abbiamo richiamato le guerre multiformi, che i poveri inesorabilmente conducono tra di loro; il posto dominante degli U.S.A., come paese guida e modello, in pace ed in guerra; la guerra dagli Stati Uniti condotta: giusta, umanitaria ed ora duratura e globale; il ruolo subalterno della Nato; l’accettazione e la pratica da parte del nostro Paese di un nuovo modello di “difesa” aggressiva, in spregio e violazione della nostra Costituzione; la riduzione dell’Europa ad Euro; lo stravolgimento del patto costitutivo della nostra Repubblica; la miseria della politica e della vita pubblica nel nostro Paese.

Ci pare che le tendenze individuate siano confermate ed abbiano segnato anzi un’accelerazione. L’inarrestabile marcia del “turbocapitalismo” e del neo-liberismo, che ha il suo motore negli USA, ha segnato una tappa importante con l’ingresso della Cina nel WTO.

L’attacco terroristico al World Trade Center ed al Pentagono ha agevolato la propensione del governo americano, forte del consenso popolare, del sostegno delle multinazionali, di straordinari armamenti, ad adottare decisioni unilaterali di guerra. Ciò si vuole proseguire con ogni mezzo, non escluso il ricorso al nucleare, contro chiunque sia ritenuto attentare alla sicurezza ed agli interessi degli Stati Uniti, solo, sicuro, baluardo della democrazia e della civiltà contro dittatura e barbarie.

L’esercizio in prima persona, da parte della super potenza, del dominio oscura ogni sede condivisa. Il premio Nobel per la pace all’Onu rischia di essere alla memoria. Ben poco appaiono contare i vari G 7 o 8 e la stessa Nato: la parola decisiva spetta agli USA, quale che sia il tema in discussione. Anche l’Europa, pur formalmente impegnata in un approfondimento della sua costruzione unitaria (la Convenzione) ed in un allargamento a nuovi paesi, non riesce ad esprimere una propria posizione sui grandi temi. Si manifestano tendenze centrifughe e gare a chi è più fedele servitore dell’America. In questa competizione il nostro governo appare particolarmente impegnato. Il riemergere del terrorismo internazionale ed interno, il conflitto israelo-palestinese, migrazioni massicce e disperate, la demolizione delle protezioni sociali producono una diffusa insicurezza che, anche nelle nostre società privilegiate, può portare ad accettare, se non a richiedere, limitazioni delle libertà politiche, dei diritti di cittadinanza e soluzioni autoritarie.

Le sorti magnifiche e progressive del capitalismo ci sono quotidianamente decantate: generatore di una straordinaria forza produttiva, con il miglior impiego della tecnologia ed assicurazione di alti standard di vita materiale per gran parte della popolazione, stimolatore di mobilità ascendente in una società stratificata in classi, condizione per la democrazia, promotore di una cultura dell’autonomia e della responsabilità individuale, unica possibilità di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo, attraverso la loro inclusione nel sistema capitalistico internazionale.

La carenza di alternative credibili

Anche a dubitarne per le sempre più evidenti iniquità, contraddizioni, insostenibilità del modello economico, sociale e politico proposto, bisogna riconoscere che l’assenza di credibili alternative gli ha conferito fin qui una grande forza anche sul piano culturale (una cultura anch’essa sempre più merce tra le merci, prodotta e distribuita da potenti multinazionali). E’ un pensiero semplice, se pensiero si può chiamare: non ci sono alternative e dunque l’unica possibilità è percorrere disciplinatamente la strada che i padroni del mondo indicano. Dopo tutto in questo mondo ci stanno anche loro e non vorranno certo la loro rovina, visto che dispongono del massimo delle informazioni e della tecnologia, visto che sono quelli che ci stanno meglio. Che il mondo sia sostenibile ecologicamente, economicamente, socialmente è loro precipuo interesse: salvando sé stessi salveranno anche il resto dell’umanità.

Ad opporsi sembravano restare solo relitti, statuali o politici, del socialismo reale (che non possiamo rimpiangere per la burocrazia opprimente e privilegiata, l’inefficienza economica, l’autoritarismo, il totalitarismo) ovvero stati dittatoriali, movimenti fondamentalisti o peggio (che propongono alternative che ignorano i più fondamentali diritti dell’uomo, e soprattutto della donna).

Un movimento ampio, da Seattle in poi, e il varco necessario della nonviolenza

Ma da Seattle in poi, per indicare un luogo ed un tempo, le cose sono cambiate. Un complesso movimento è venuto affermando che un altro mondo è possibile. Svolge in forme inedite la sua opposizione e la sua ricerca. Collega gruppi sociali, culture, generazioni, esperienze, sensibilità diverse, in differenti luoghi del mondo. Sembra rappresentare, seppure embrionalmente, quella risposta che Capitini indicava con chiarezza concludendo il suo scritto testamentario, “Attraverso due terzi di secolo”, alla vigilia dell’operazione alla quale non è sopravvissuto:

L’Europa, unita al Terzo Mondo e al meglio dell’America, elaborerà la più grande riforma che mai sia stata comune all’umanità, quella riforma che renderà possibile abolire interamente le diseguaglianze attuali di classi e di popoli, e abolire le differenze tra i “fortunati” e gli “sfortunati”.

Non è il primo, grande movimento internazionale che si pone questo ambizioso obiettivo. Importante sarebbe evitare errori che in passato hanno decretato il fallimento.

Un punto cruciale è La scelta dei mezzi. E’ il titolo anche del capitoletto che segue il già citato Al centro dell’umanità nel libro di Capitini. L’autore osservava, si era negli anni ’30, il diffondersi della violenza in cui confluivano l’impazienza di ottenere e la non considerazione degli altri che sembrano del tutto estranei a noi, per il successo che essa procura a più breve scadenza. Ed aggiungeva: resta da vedere a che cosa si riduce la mia vita dopo, e se non sorgeranno prima o poi cinquanta al posto di quello che ho ucciso.

Analisi ed interrogativi sembrano attuali. Resta da vedere se sapremo dare la risposta che così Capitini indicava: salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un’apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza un’unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia.

E’ il varco della nonviolenza, che è sotto i nostri occhi oggi, come lo era settanta anni fa per il giovane Capitini (che dietro spessi occhiali vedeva con straordinaria precisione). Il passaggio è faticoso e richiede rinunce, messe in discussione di privilegi, sicurezze materiali e culturali. E’ davvero lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe alle capre duro varco (Dante).

Si comprende così che, nonostante la sua accresciuta visibilità e, diremmo, evidenza, si tenda ad evitarlo. Si ritiene, anche in buona fede, di averlo già varcato, come se bastasse proclamarsi nonviolenti, adottare una o più delle numerose tecniche che alla nonviolenza si richiamano, senza mettere in discussione l’atteggiamento profondo nei confronti del “nemico”, senza tenere sempre al centro l’obiettivo dell’iniziativa di liberazione, per tutti, che si è intrapresa. L’esperienza ci mostra che pratiche violente, inizialmente limitate e quasi simboliche, hanno inquinato e distrutto movimenti importanti, dei quali si era sopravvalutata la capacità di autodepurazione. Di fronte alla repressione, che c’è e ci sarà, da parte di chi vede minacciati i propri privilegi è importante che sia mantenuto il massimo di coerenza tra fini perseguiti e mezzi praticati. La violenza culturale, strutturale e diretta, che caratterizza il nostro mondo e che si pretende la difesa delle conquiste della civiltà umana, è solo alimentata, per nulla scalfita, da dirottatori che abbattono torri, da ragazze e ragazzi che si fanno esplodere cercando di uccidere quanta più gente possibile, da assassini che sparano in nome delle B.R.. Chi pensa diversamente più che essere andato alla scuola di qualche cattivo maestro, sembra aver fatto i compiti con il bidello di Nanterre.

E’ un varco che non si vuole passare. Lo abbiamo detto nell’invito. Neppure alla fine guerra fredda, ed alle guerre per procura di quel periodo, è seguito un serio impegno di pace. In modi nuovi, ma non meno preoccupanti ed inquietanti che nel passato, si riafferma, il diritto del più forte: might is right, per dirlo nella lingua dell’impero. E’ l’imperativo categorico, veramente globale, che trova applicazione all’interno dei paesi ricchi e dei paesi poveri, nei rapporti tra i paesi, le classi, le persone. Si ribadiscono diritti umani universali, a quelli di prima generazione se ne aggiungono altri, si disegna faticosamente una giurisdizione planetaria di tutela, ma questa difficile costruzione appare fragile quando i potenti sanciscono impunità ed improcessabilità proprie e dei loro servi, inventano, fuori di ogni garanzia, procedure e pene per colpire il terrorismo o ogni comportamento che al terrorismo si ritenga di poter collegare. Conquiste del diritto internazionale sono spazzate via e liberticide legislazioni di emergenza si fanno strada un po’ in tutti i paesi.

Tanto più importante è dunque il sorgere di un movimento, caratterizzato dall’impegno personale e diretto, dal sentirsi interpellato da ogni momento internazionale in cui si discutono i temi della fame, della povertà, dei commerci, dell’ambiente, della pace e della guerra, per far sentire una voce diversa, spesso critica ed alternativa, rispetto a quelle dei governi e delle istituzioni sovranazionali.

Le diversità di formazione, di analisi, di proposta all’interno di questo movimento sono grandi. La sua larga diffusione ed il suo progressivo radicamento in vari paesi evidenziano anche più le assenze importanti. I contatti progressivi, la costruzione di momenti di confronto globali e locali, l’esperienza di iniziative e manifestazioni condotte in diversi contesti sono tuttavia incoraggianti elementi di una formazione comune, di una analisi che si va precisando, di una strategia non contradditoria. La consapevole opposizione a questo “liberismo” ed all’uso della guerra come solutrice dei conflitti è già una acquisizione ed una realtà operante, della quale governi e multinazionali debbono sempre più tener conto.

Il contributo, che come amici della nonviolenza siamo chiamati a dare, è quello di valorizzare il patrimonio di lotte, esperienze e tecniche alla nonviolenza ispirate, e collaborare a che mai si smarrisca lo stretto legame tra fini da raggiungere e mezzi impiegati.

E’ perciò di somma importanza l’ulteriore estensione e radicamento del movimento. Porto Alegre ne è stato un momento importante. Altri ne seguiranno. E’ necessario che a questi appuntamenti e nell’azione e riflessione del movimento le organizzazioni, che si richiamano al pensiero ed alla pratica della nonviolenza, avanzino la loro proposta. Sappiano portare un’aggiunta importante e forse decisiva allo sviluppo, quantitativo e qualitativo, del “movimento dei movimenti”.

Per una internazionale violenta

Le notizie che abbiamo delle riflessioni ed attività che War Resisters’ International e Ifor (come MN e MIR ne siamo le espressioni in Italia) svolgono a partire dagli USA, contrastandone la deriva bellicista, sono incoraggianti. E’ un invito per il nostro piccolo Movimento ad assumere con più decisione il compito di un più stretto legame internazionale, con una maggiore presenza, intanto, alle iniziative di War Resisters’. Da non perdere la conferenza che l’organizzazione terrà in agosto a Dublino: Storie e strategie – Resistenza nonviolenta e cambiamento sociale.

Utilissimo per il nostro lavoro sarà il confronto e le relazioni con attivisti nella promozione della giustizia sociale, provenienti da tutto il mondo, per discutere insieme su come rendere il mondo meno violento e militarizzato. Soprattutto dopo l’11 settembre, il livello di violenza tra le nazioni, ma anche all’interno delle società, è cresciuto enormemente, come dimostrato dal ricorso sempre più frequente e massiccio all’impiego della forza militare. Paura ed incertezza sono all’ordine del giorno. La costruzione di una società pacifica e giusta è estremamente difficile. L’approccio nonviolento ai problemi sociali è compito straordinario che implica seri rischi personali. Impegno della Conferenza è lo sviluppo di nuove strategie nonviolente per porre fine alla minaccia del terrore, ma anche per svelare e scardinare la violenza istituzionale.

Occorre trovare nuovi modi per ascoltare ed entrare in dialogo con tutte quelle persone che, nelle nostre società, trovano l’approccio pacifista e nonviolento troppo difficoltoso. Dobbiamo realizzare l’internazionale della nonviolenza e renderla un modello di globalizzazione dal basso. Diversi gruppi tematici sono stati programmati: – Economia, militarizzazione e globalizzazione – Violenza nella società e potere della nonviolenza – Violenza interetnica e violenza all’interno degli stati – Sessismo e razzismo in relazione al militarismo e alla guerra – Obiettori di coscienza, veterani e antimilitarismo – Strategie per l’apertura dei confini: asilo ed emigrazione – Introduzione alla nonviolenza – A colloquio col passato.

Saranno inoltre tenute assemblee plenarie, con alcuni casi di studio per stimolare il dibattito tra i partecipanti. Scopo delle assemblee è far luce su rilevanti questioni politiche e strategiche. Argomenti previsti sono: – Che ruolo giocano le storie nelle nostre strategie? – Il processo di pace in Irlanda – Il collegamento tra la violenza nella vita quotidiana e la violenza a livello globale – Militarismo, antimilitarismo e società civile – Impegno popolare e strategie nonviolente.

Si è insistito su questo aspetto internazionale giacché le speranze di costruttivo contributo alla soluzione dei sanguinosi e complessi conflitti in atto, a partire da quello forse più inestricabile e, per molti motivi, sommamente doloroso tra israeliani e palestinesi, sono in gran parte affidati alla capacità di mettere in campo iniziative ispirate al pensiero ed all’esperienza nonviolenta.

Ciò è vero a partire dall’obiezione di coscienza, dal rifiuto della demonizzazione del nemico e della santificazione delle stragi, magari accompagnate dal martirio, dalla costruzione e mantenimento di relazioni tra le parti su temi e valori comuni. E’ importante che questa consapevolezza cresca anche nelle parti non direttamente impegnate nel conflitto. In tal modo possono farsi strada alternative alla violenza estrema tra i confliggenti o ad un, sia pur preferibile, compromesso imposto. Sono soluzioni che non affrontano e non avviano a composizione, ma esasperano ed approfondiscono le ragioni del conflitto e ne preparano ulteriori e più distruttivi.

I corpi civili di pace, una aggiunta per l’Europa

Anche in ambito europeo è necessario che la “nonviolenza europea” trovi un punto di incontro, non casuale e sporadico, a partire dal rilancio dell’idea dei corpi di pace. C’è un grande lavoro da compiere: di conoscenza, di contatti, di momenti di riflessione e di azione comuni. La costruzione dell’Europa non può che migliorare con l’aggiunta della nonviolenza. E’ un ambito nel quale molto è da fare e sperimentare.

Anche per questo aspetto è importante che il Movimento si faccia promotore di iniziative condivise tra tutte le forze che, sul piano nazionale e locale, si richiamano alla nonviolenza. In questa direzione avevamo ritenuto già nel passato Congresso di offrire un esempio significativo con un rapporto, che avevamo indicato come federativo, tra noi ed il MIR. Qualche passo è stato fatto, ma è ancora molto limitato. Ci auguriamo che un contributo venga anche da questo Congresso.

Dalla Marcia per la Nonviolenza, lo stimolo per una iniziativa specifica

Nella stessa direzione si collocava anche la Marcia per la nonviolenza, che abbiamo realizzato con un buon successo, nonostante incomprensioni e difficoltà sulle quali non è il caso qui di tornare. Si pone anche a questo Congresso l’interrogativo aperto se e quale iniziativa possa costituire un momento di unità e visibilità della costruzione di un progetto degli amici della nonviolenza, che si ritrovano sotto sigle differenti, in gruppi locali, operanti in diverse realtà. E’ nostra convinzione che un lavoro comune, con obiettivi chiari e condivisi di quanti si richiamano al messaggio della nonviolenza non sia orgogliosa separazione dal generico pacifismo, né rottura di più ampie unità, ma necessaria aggiunta e proposta costruttiva al rifiuto, nel nostro paese ancora largo e diffuso, della guerra come strumento di soluzione dei problemi.

Il contributo nella Rete di Lilliput

In questo ambito un rilievo tutto particolare assume l’impegno che i componenti del Movimento danno nella Rete Lilliput. Si tratta di un progetto del quale siamo stati tra i primi e convinti promotori, anche se non risultiamo nelle “tavole di fondazione”.

L’opzione nonviolenta ha mostrato di essere una scelta comune e da approfondire nelle sue implicazioni e traduzioni. Il rafforzamento della rete, la valorizzazione delle diversità delle sue componenti, il dialogo che nei gruppi di lavoro tematico intreccia diverse esperienze, conoscenze, sensibilità, l’attenzione nella costruzione dei nodi locali sono essenziali perché il progetto della rete si sviluppi con quella serietà, autorevolezza e capacità di coinvolgimento che ne hanno caratterizzato l’avvio. Altre, diverse, rispettabili aggregazioni, come quelle che più o meno si riconoscono in social forum, possono dare e ricevere utili contributi nella costruzione di comuni strategie proprio in ragione della capacità delle Rete Lilliput di essere sé stessa. Cioè una rete capace di mettere a frutto la complessità degli interessi dei suoi componenti, la continuità di azione, la forza di attrazione nei confronti di realtà organizzate, e anche di singoli interessati, in un percorso caratterizzato da uno stretto e sempre verificato rapporto di coerenza tra fini e mezzi e cioè in un percorso di nonviolenza. Perchè l’altro mondo possibile possa cominciare a concretarsi occorre un profondo mutamento sociale, e noi siamo convinti, con Capitini, che La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata. Non occorre di meno. Anche per questo la nonviolenza si presenta come varco.

Un movimento dal basso, per la difesa e l’allargamento della democrazia

Anche nel quadro politico italiano, la cui mediocrità ci pare di confermare, emergono elementi di novità. Questo è vero non solo nella resistenza tenace che donne ed uomini della politica hanno pure manifestato, in parlamento e fuori, nei confronti di scelte di guerra, spese militari, repressione, limitazione di diritti, nuovi privilegi concessi ai già privilegiati, peggioramento delle norme e dei comportamenti nei confronti degli immigrati… Si è manifestata anche una volontà di protagonismo di altri soggetti, spesso dal basso, un’uscita dalla delega rassegnata, in manifestazioni di massa che i disumani comportamenti di Genova non hanno scoraggiato, in grandi assemblee, inedite marce aperte da professori universitari, inviti a resistere di magistrati, girotondi in vari luoghi ed una straordinaria e partecipatissima manifestazione promossa dal maggior sindacato italiano.

Si tratta di cose molto differenti tra loro e che richiedono analisi. Qui solo si sono richiamate per confermare ancora una volta che si avverte l’esigenza di strumenti di integrazione della democrazia rappresentativa e della sua rappresentazione/sostituzione mediatica. Questi strumenti si intravvedono nella partecipazione diretta, nei forum, nelle assemblee. Si avverte il vuoto lasciato da una pur deficitaria democrazia fondata sui partiti, che, da strumento di partecipazione ed espressione, si erano fatti sequestratori del potere del cittadino “sovrano”.

Già all’indomani della liberazione Capitini aveva indicato quel rischio ed avviato l’importante esperienza dei COS, scuola di capacità critica e di autogoverno. E’ un terreno di ricerca da esplorare con attenzione ed apertura. Abbiamo conosciuto stagioni di assemblearismo, promosso dal basso e dall’alto, da destra a sinistra che non hanno lasciato eredità sempre convincenti. Vediamo ora proposte più strutturate di “agende” e bilanci partecipati. Questo ci spinge a cercare ancora, con intelligenza e passione.

Augurale per il Congresso potrebbe essere il tenersi a Ferrara dove, in un convegno del maggio del ’48, Capitini formulò la proposta di una comunità aperta, internazionalmente federata, e nelle singole sue parti decentrata, articolata e atta a dissolvere ogni forma di privilegio e di oppressione.

La trasformazione dell’economia

Anche sul terreno dell’alternativa economica, del modo di produrre e di consumare, dove il neoliberismo celebra i suoi fasti in assenza di credibili concorrenti, siamo chiamati a dare un contributo. Anche qui sembra di poter cogliere l’esigenza di un cambiamento profondo del modello dominante.

Il breve ma denso saggio di Nanni Salio Elementi di un’economia nonviolenta costituisce un utile punto di riferimento. Dobbiamo promuovere approfondimenti e confronti, sia sulle diagnosi di fondo che sulle proposte di resistenza e transizione ad un nuovo modello. Sbaglieremmo a crederlo, come in passato è avvenuto, già dato nelle sue linee essenziali. Esperienze microeconomiche, riflessioni su quanto avviene a livello macro resteranno al centro della nostra attenzione e ci attendiamo un contributo di proposta dalla commissione. Uno stimolo per tutti sarà certo il saluto che Yunus porterà alla nostra seduta domenicale.

Un cambiamento negli stili di vita è certo possibile a partire da noi. Al centro dell’agire sono persone, ci ricordava sempre Capitini. Ma sono necessarie sponde istituzionali e l’avvio di processi di grande mutamento economico. Pensiamo “solo” all’uso dell’automobile, alla violenza che vi è connessa: culturale (l’automobile rende stupidi e aggressivi), strutturale (consumi energetici, stravolgimento delle città e degli spazi urbani, incubatori di violenza), diretta (le migliaia e migliaia di morti amazzati sulle strade, di invalidati e di asfissiati nelle città. Ferrara, città delle biciclette, vanta un triste primato).

Il decennio per l’educazione alla pace e alla nonviolenza

Violenza crescente avvertiamo anche nelle nostre realtà privilegiate. Il disagio di gruppi emarginati e delle giovani generazioni si esprime troppo spesso in forme violente, che trovano quale risposta accentuazione della repressione e inasprimento di pene. La ricomparsa del terrorismo spinge ancor più in questa direzione. Anche importanti conquiste, come l’abolizione dei manicomi, tendono ad essere rimesse in discussione, come non ricordassimo i guasti e gli orrori della segregazione. C’è una violenza diffusa e crescente nella nostra società dai banchi di scuola, ai luoghi di lavoro, di svago, familiari: violenze grandi e piccole (ma ogni dose può essere una overdose) nei confronti dei soggetti deboli , violenza degli emarginati, violenza degli uomini nei confronti delle donne e l’elenco potrebbe continuare. Sono ambiti nei quali molto c’è da lavorare per riconoscere, prevenire, trasformare i conflitti, affrontare disagi e sofferenze. Molti tra noi sono già impegnati in questa azione, che è collegata ad un quadro più generale. Il decennio per l’educazione alla pace e alla noviolenza per le giovani generazioni non si è aperto certo sotto buoni auspici. E’ cessata persino la pubblicazione del Corriere internazionale dell’Unesco, promotore dell’iniziativa. E’ una ragione di più per accrescere il nostro impegno, sicuri di trovare volonterosi e capaci operatori che lavorano con i medesimi obiettivi.

Mi preme ringraziare, concludendo, quanti hanno collaborato più intensamente a mantenere presente ed operante il nostro Movimento tra molte difficoltà. Un ringraziamento particolare, che è un abbraccio, va al nostro Presidente, che da tempo ci chiede di sollevarlo da questo impegno.

Il coordinamento credo abbia assolto con responsabilità il mandato congressuale ed affrontato i temi nuovi che gli avvenimenti hanno proposto. Non sempre siamo riusciti a trovare la soluzione più convincente. Penso in particolare ad un importante confronto, tra noi avviato, sul valore della laicità ed il senso dell’aggiunta religiosa, nel pensiero e nella pratica nonviolenta, al quale non abbiamo saputo dare sede e modalità adeguate di svolgimento. E’ un impegno, non il solo, consegnato al prossimo coordinamento. Buon congresso !
Le Mozioni approvate

Le commissioni di lavoro del sabato mattina e pomeriggio, si sono concluse con un testo di sintesi, che è stato sottoposto all’attenzione e al dibattito del Congresso.

La formazione alla nonviolenza
(Luciano Capitini)

La Commissione “Formazione alla Nonviolenza” ha espresso, indirizzandole al Comitato del Movimento Nonviolento perché curi la diffusione e l’applicazione ma anche ai gruppi che intendono iniziare il percorso di formazione, la seguente riflessione e alcune raccomandazioni.
L’attuale situazione di violenza in cui viviamo,il dialogo personale in cui molti si trovano a dibattersi, col rischio di implosione, rendono necessari l’avvicinamento alla nonviolenza (e pertanto una formazione adeguata) che infatti viene richiesta da molti.
Preliminarmente dovrà essere data adeguata informazione, sulla strutturazione dei percorsi formativi (pensiamo che sia da costruire una alternativa nonviolenta capace di raggiungere chiunque).
L’azione della formazione è un processo unico, ma ha due facce: una fase riguarda la costituzione del gruppo, la comunicazione all’interno dello stesso, il supermanto delle negatività (con particolare attenzione ai linguaggi e al metodo maieutico).
La base, a livello individuale, di questo lavoro collettivo, è il senso di responsabilità che ognuno trovi nel proprio profondo.
In un certo senso questo progetto vuole essere una ideale continuazione dell’esperienza capitiniana dei COS.
Si tratta di confrontare se stessi con la nonviolenza.
Tutto ciò porta ad una formazione autodiretta (senza escludere apporti esterni) che indicherà anche gli obiettivi della formazione stessa.
Deve essere chiaro a tutti che si tratta qui di acquisire gli elementi della cultura nonviolenta, sia come “summa! Di un pensiero già acquisito, sia come un processo in divenire.
Una seconda fase, consiste nella preparazione alle azioni nonviolente.
Anche in tale fase il confronto con la cultura nonviolenta deve essere continuo. Una particolare importanza sarà data ai training, alle simulazioni, ecc…
In tutto il processo potrà essere particolarmente utile il testo di Aldo Capitini “Le tecniche della nonviolenza”.

Approvata all’unanimità con 3 astenuti

Nonviolenza e movimento dei movimenti
(Pasquale Pugliese e Massimiliano Pilati)

Mai come oggi vaste reti di associazioni e militanti per la giustizia e la pace globali si sono dette, sempre più consapevolmente, nonviolente: si pensi in Italia alla Rete Lilliput.
Le drammatiche giornate del G8 di Genova hanno costituito, in questo senso, per gran parte del cosiddetto “movimento dei movimenti” italiano un’accelerazione e una doppia rivelazione: da un lato la rivelazione della brutalità che può manifestare il potere e dall’altro quella della propria debolezza strategica. Quella parte di movimento che, pur dichiarandosi non violento, è rimasto schiacciato e vittima tra tre opposte violenze – verbale e simbolica, diretta vandalica e repressiva – ha cominciato tanto a capire la necessità di non rincorrere i potenti nei loro vertici, quanto, e soprattutto, a percepire il bisogno di passare dal “dire nonviolenza” al “fare nonviolenza”, ossia di passare da una generica aspirazione ideale alla nonviolenza – proclamata su tutti i documenti – alla specifica prassi di azione politica nonviolenta.
Il Movimento Nonviolento, impegnato attivamente nella Rete Lilliput, – e nei cui confronti, per la sua storia, vi sono attese, e dunque responsabilità, come vi sono attese, e dunque responsabilità, per la Rete rispetto all’intero “movimento dei movimenti” – deve più che mai in questa fase non far mancare il proprio modesto ma insostituibile contributo, centrato in maniera specifica sull’approfondimento e la divulgazione del metodo nonviolento, ossia di quell’insieme di principi, strategie e tecniche volte non solo a fare la rivoluzione ma a rivoluzionare il modo stesso di fare la rivoluzione.
Questo significa aiutare la Rete Lilliput a lavorare in profondità per favorire l’acquisizione diffusa tra i lillipuziani, e sui loro territori, del metodo nonviolento – che non s’improvvisa ma è fatto di apertura e rigore, di formazione e sperimentazione, di lotta e di programmi costruttivi – privilegiando l’aumento della consapevolezza piuttosto che dei numeri, della qualità piuttosto che della quantità, dei tempi lunghi piuttosto della rincorsa agli avvenimenti mediatici. Perché la forza della nonviolenza è quella d’incidere sui processi strutturali piuttosto che sugli eventi di superficie.
In questa prospettiva il Movimento Nonviolento approva e sostiene la scelta della Rete Lilliput di non aderire all’Italian Social Forum e, soprattutto, la decisione di costituire i “Gruppi di azione nonviolenta” (GAN) presso i nodi locali della Rete, quali elementi fondamentali di formazione e azione della strategia lillipuziana e nonviolenta.
Pertanto, il XX Congresso del Movimento Nonviolento:
1)impegna il MN, nei suoi organismi centrali e territoriali, a promuovere attivamente la formazione dei GAN presso i nodi locali della Rete Lilliput;
2)impegna il Comitato di Coordinamento, a tal fine, ad organizzare momenti nazionali di formazione alla nonviolenza come metodo, rivolti a tutti i lillipuziani;
3)impegna il Comitato di Coordinamento a seguire lo sviluppo e la diffusione dei GAN all’interno del “Gruppo di Lavoro Tematico (GLT) Nonviolenza e Conflitti” della Rete Lilliput;
4)impegna il Comitato di Coordinamento a farsi promotore presso il “GLT Nonviolenza e conflitti” e presso i movimenti nonviolenti europei della preparazione di uno o più laboratori di approfondimento del metodo nonviolento all’interno dell’incontro dell’European Social Forum di Firenze.

Approvata all’unanimità con 3 astenuti

Il Decennio per l’educazione alla Nonviolenza
(Angela Marasso)

La concretizzazione della risoluzione ONU ha costituito uno dei due obiettivi fondamentali della Marcia Nonviolenta del settembre 200; Ed il Movimento ha posto tale questione al centro del proprio più recente impegno nei confronti della politica e delle istituzioni.

Anche sulla base della dichiarazione ONU del 13/0971999, e del Manifesto UNESCO 2000 “Per una cultura della pace e della nonviolenza” sottoscritto da oltre 65 milioni di persone, è stato predisposto un programma di attuazione operante in altri paesi, che potrà utilmente essere adottato dalla Commissione e dal congresso.

Esistono per tale azione, e si sono riscontrate, forti convergenze con altri Movimenti ed Associazioni, segnatamente ed in primo luogo il MIR, e la Tavola per la Pace.
La Commissione congressuale dovrà elaborare una risoluzione per l’assunzione di una campagna di studio, di lavoro, e di attività.

La sua articolazione dovrà essere programmata su diversi livelli: istituzionale, associativo, culturale, e di attività. I suoi caratteri specifici dovranno essere insieme la globalità e la specificità di settore, l’unitarietà territoriale, e la progettualità di area, il coordinamento nazionale ed internazionale e l’autonomia di ogni movimento, di ogni associazione, di ogni singolo, di ogni attività.

I suoi obiettivi di fondo potrebbero essere:

1)avviare una campagna ed un lavoro a livello nazionale per un Comitato Nazionale di Coordinamento;
2) avviare e sostenere un impegno verso le istituzioni, prevalentemente locali;
3)promuovere l’istituzione di una apposita Agenzia od Autorità per un coordinamento delle diverse competenze (Istruzione, Esteri, RAI, etc.) e di un Istituto di Ricerca per la Pace;
4)adottare e specificare un piano di azione per il decennio;
5)definire orientamenti e progetti di settore.

La Commissione propone al Congresso di far propri i Movimenti di preparazione ai lavori della commissione stessa.
Propone altresì al Congresso di assumere l’iniziativa di promuovere, in coordinamento con gli interlocutori già intervenuti e coinvolti, in collaborazione con istituzioni, enti, ed associazioni, già operanti nel settore, con l’ausilio di un comitato scientifico, e secondo progetti prioritariamente finalizzati alla formazione, una Campagna per l’attuazione della risoluzione ONU per una cultura della nonviolenza.
Indica quale ipotesi di raccordo del lavoro progettuale quella definibile …. Di esperienza: il gioco, la lettura, la comunicazione, il dolore e la malattia, la natura, l’altro, ecc…

Approvata all’unanimità con 3 astenuti

Una marcia o altra iniziativa specifica sulla nonviolenza
(Daniele Lugli)

L’iniziativa che il MN propone all’attenzione di tutti gli amici della nonviolenza è il percorso Assisi-Gubbio da compiersi dal 29 al 31 Agosto 2003 e concludersi con un Convegno sulle soluzioni dei conflitti.
La parola d’ordine resta quella della marcia per la nonviolenza del 2000 “ Mai più eserciti e guerre “.
L’avvicinamento all’iniziativa dovrebbe avvenire con la proposta di un digiuno mensile, il secondo mercoledì del mese, a gruppi e singolarmente. Diverse potranno essere le modalità pubbliche e private di effettuazione dei digiuni e delle iniziative che li accompagnano.
Azione nonviolenta accompagnerà e sosterrà l’iniziativa nella notizia e nella sua preparazione e sviluppo e con materiale di supporto.
Temi individuati e proposti alla riflessione nei 12 mesi e nei 12 digiuni di preparazione all’iniziativa possono riassumersi in 12 parole:
1)Comunicazione
2)Conflitto
3)Diritto
4)Disarmo
5)Ecologia
6)Economia
7)Educazione
8)Giustizia
9)Obiezione
10) Povertà
11) Relazioni
12) Spiritualità.

La proposta è affidata all’affinamento ed alla valutazione del Comitato di Coordinamento, per la miglior realizzazione dell’impegno delineato.

21 sì, 4 no, 8 astenuti

Nonviolenza, guerra e terrorismo. La campagna di obiezione del cittadino
(Adriano Moratto)

Nella nostra commissione si è discusso quasi esclusivamente della campagna per l’obiezione del cittadino.Tale campagna è ormai vista come una campagna quadro per raccogliere una serie di iniziative proposte che vanno dall’obiezione fiscale alle banche armate, al servizio civile volontario
La commissione ha altresì confermato l’approvazione fatta dal Comitato di coordinamento del testo di preparazione della campagna stessa.
E’ stata rilevata la necessità di una commissione “tecnica” costituita da rappresentanti del MIR, MN, Rete di Lilliput, Banche Armate Campagna Obiezione alle spese militari, più chi vorrà eventualmente aderire.
Tale commissione che era già presente nelle persone di Luciano Benini, Luciano Capitini, Massimiliano Pilati e con l’indispensabile partecipazione del Centro di Torino che si è assunto l’onere di segreteria, si e già impegnata entro un mese a mettere a punto un testo per la guida a questa Campagna, in modo da avere i TEMPI TECNICI per preparare l’ inizio di questa campagna quadro per il prossimo autunno.
Per quanto riguarda gli altri punti inerenti ad iniziative in difesa dell’art.11, proposte per il disarmo, o le iniziative sull’ EXA di Brescia, sono lasciate alle iniziative locali.
Pertanto (per restare nelle formule di rito) chiediamo al Congresso di approvare la costituzione della commissione per “gestire” la campagna per l’obiezione del cittadino nelle linee identificate nel documento sopracitato.

16 sì, 4 no, 6 astenuti

Raccomandazione (Lo Cascio)

Il XX Congresso del MN da mandato alla segreteria del movimento affinché, congiuntamente alle segreterie degli altri movimenti promotori della campagna per l’Obiezione di Coscienza del cittadino e della cittadina, venga assunta una risoluzione che puntualizzi gli obiettivi cui la campagna é finalizzata .
Indicando questi punti:
1)istituzione dei Corpi Civili di Pace
2)riconoscimento del diritto di opzione fiscale
3)definizione delle norme a garanzia del diritto di Obiezione di Coscienza contro la possibilità di richiamo alle armi anche dopo la data di sospensione della leva
4)applicazione delle norme prevista dall’ art. 8 della legge 230/98

16 sì, 1 no, 6 astenuti

La TV e i mezzi di comunicazione
(Matteo Soccio)

Premessa. I partecipanti a questa commissione hanno ritenuto di dover concentrare l’attenzione soprattutto sul mezzo televisivo, considerato il più potente. Gli interventi hanno evidenziato, nei confronti della questione televisiva, sensibilità e valutazioni diverse sia di tipo individuale/esistenziale sia di tipo politico. In ogni caso è stato considerato urgente per i nonviolenti fare i conti con la TV per due importanti considerazioni: la prima riguardante gli effetti intrinsecamente ipnotici e capaci di modificare i comportamenti individuali e gli stili di vita, la seconda riguardante la possibilità che lo strumento possa essere usato per manipolare, attraverso il controllo dell’informazione, le coscienze, le opinioni, le scelte politiche. Attraverso il mezzo televisivo, il potere economico impone modelli di consumo, visioni politiche, interpretazioni della realtà, trasformando il cittadino in utente passivo non pensante e consenziente. La cosa che più preoccupa non è tanto la presenza massiccia della violenza e del sesso in TV ma la capacità, che ha questo mezzo, di modellare i comportamenti e i consumi dei cittadini e soprattutto di influire sul libero esercizio del consenso e del dissenso, senza il quale non esiste una società democratica.
Queste considerazioni hanno portato a manifestare le seguenti esigenze e raccomandazioni:
ritornare ad essere soggetti attivi e non più passivi, assumendo di fronte alla TV l’atteggiamento del “consumatore critico” e del cittadino responsabile;
utilizzare il mezzo televisivo il meno possibile per valorizzare le relazioni interpersonali;
combattere il monopolio delle reti private;
esigere l’eliminazione della pubblicità nelle reti pubbliche e a pagamento;
esigere che le stesse TV facciano un’informazione approfondita sui danni che può produrre il mezzo televisivo;
abolire il sistema dell’audience che mercifica i prodotti televisivi, imponendo programmi non di qualità ma paganti in termini pubblicitari.
Nel dibattito è emersa anche la necessità che il Movimento Nonviolento utilizzi la TV per far conoscere i propri programmi e iniziative, la visione del mondo della nonviolenza, utilizzando e gestendo gli “accessi” previsti e conquistando altri spazi finalizzati. Si raccomanda comunque di non rinunciare, anzi di potenziare gli altri mezzi tradizionali di comunicazione, oggi considerati “poveri”: radio, giornali, proiezioni audio-visive, volantini, manifesti ecc.
Un altro aspetto, che si raccomanda di seguire con attenzione e di approfondire, riguarda le possibilità offerte dai cosiddetti “nuovi media” come Internet e la TV interattiva.

Indicazioni operative.
Sulla base delle considerazioni svolte si danno al MN le seguenti indicazioni operative al fine di lanciare una Campagna rieducativa del cittadino consumatore televisivo:

1.organizzare un Seminario di studio e approfondimento sul tema: TV, nuovi Media e Nonviolenza. Prospettive e rischi;
2.elaborare e stampare una Mini-guida all’uso critico della TV;
3.praticare forme di disobbedienza e rifiuto del mezzo televisivo in particolari circostanze e verso specifiche espressioni della programmazione televisiva;
4.denunciare il canone televisivo chiedendo l’abolizione della pubblicità nelle reti pubbliche;
5.promuovere periodicamente forme di “Disintossicazione televisiva” (ad es.: digiuno televisivo, “cura dimagrante”, ecc.);
6.conquistare nelle reti TV spazi di autogestione da destinare all’informazione nonviolenta;
7.suggerire e promuovere alternative alla TV;
8.contattare e coinvolgere in questa campagna i tecnici e i professionisti della TV e altri soggetti politici e sociali interessati, promuovendo un Osservatorio permanente per il controllo delle menzogne e delle violenze della TV.

16 sì, 9 no, 2 astenuti

Prospettive dell’Obiezione di Coscienza, Corpi Civili di Pace
(Mao Valpiana)

Il Congresso conferma una grande attenzione per lo sviluppo del S.C. volontariato (legge 64 del 2001) e per ogni iniziativa che vada nella direzione della istituzione dei Corpi Civili di pace.
In particolare propone :
di seguire l’iter attuativo della L.64, anche affidando uno specifico incarico nel C.d.C., e di presentare progetti di “S.C. volontario”sulle DPN, che prevedono una adeguata formazione.
Di mettere a disposizione del “Progetto di formazione alla nonviolenza attiva” un pacchetto formativo sulla storia dell’ OdC preparando anche appositi materiali (diari di obiettori, videocassette, etc. )
Di impiegare AN a pubblicare con continuità materiale sull’obiezione, lo sviluppo del S.C. all’estero e in Italia, le esperienze di interventi civili di pace
(OdC in Israele e Turchia)
Di individuare una persona o due che rappresentino in MN nel Coordinamento dei gruppi “ Verso i Corpi Civili di pace”
Di rafforzare all’interno di Lilliput l’esigenza che ogni nodo locale si sensibilizzi sul S.C. e sui Corpi Civili di pace.

Il MN si impegna a partecipare, con propri rappresentanti, ai seguenti appuntamenti:

19-21 Aprile a Milano Coord. Europeo del Sevizio Civile di pace
18 Maggio a Rimini al Convivio dei Popoli
23 Agosto- 1 Settembre al Corso di Formazione

All’unanimità con 1 astenuto

Le proposte della nonviolenza per una trasformazione dell’economia
(Nanni Salio)

1)Approfondire il rapporto tra economia e politica, in particolare nuove forme di partecipazione politica (bilancio partecipativo, scelte partecipative, strumento referendario) e di democrazia dal basso.

2)Avvio di una ricerca per conoscere e valutare criticamente le esperienze di vita comunicativa e di economia nonviolenta presenti in Italia.

3) Potenziare le pagine di AN dedicate all’economia nonviolenta con inserti specifici e con contributi che facciano conoscere le esperienze in corso.

Approvata all’unanimità con 6 astenuti

Difesa e ampliamento della democrazia
(Rocco Pompeo)

Già dalla relazione/documento finale del Congresso emergevano con chiarezza la consapevolezza della crisi della democrazia nel nostro paese e le indicazioni di un percorso per un suo superamento in termini positivi .
Ed al convegno promosso in occasione della Marcia Specifica nonviolenta del Settembre 2000 ponevamo al centro della nostra riflessione politica la questione della politica.
Ora, non v’è dubbio che le cadute della democrazia e le degenerazione dello scenario politico ( prevalenza di grandi gruppi sui cittadini; rappresentanza scorporata in sostituzione della rappresentanza politica; centralità delle oligarchie; segretezza di settori sempre più vasti del potere; scarsa partecipazione alla vita pubblica, ridotta sempre più a scontro/confronto personale ed a spettacolarizzazione; chiusura istituzionale; machiavellismo e menzogna politica; eccesso di poteri per i funzionari e prevalenza di pseudogiustizia; rafforzamento dell’esercito e per di più professionale; etc.) sono andati accentuandosi in questi ultimi tempi in Italia e nel mondo.
Siamo ormai comunque in presenza di un regime democratico senza popolo e senza cittadini, caratterizzato dal diffondersi sempre più marcato di analfabetismo politico, in gran parte dovuto alla sostanziale convergenza di valori e di scelte programmatiche delle diverse forze politiche ( valga per tutto la comune scelta del ricorso alla guerra).
Gli amici della nonviolenza sanno bene che:
non esiste un punto alfa e non esiste un punto omega nell’itinerario verso l’omnicrazia ed il potere di tutti;
ogni critica al presente è anche un’accusa pesante al passato, ed alle insufficienze con le quali si è arrivati alla situazione presente;
non esiste una situazione in cui “tutto è perduto”, così come non esiste una situazione in cui “tutto si è realizzato”, quella in cui “ si gioca tutto”.
Dare nuova centralità ai valori legati alla “apertura all’esistenza, alla libertà, ed allo sviluppo di ogni essere”; rivedere il welfare all’italiana; ampliare la democrazia; promuovere lo sviluppo ed il lavoro : queste le leve per evitare esiti autoritari ( di destra, di centro, o di sinistra non importa proprio niente! ) e per tenere saldamente coniugati benessere e sicurezza sociale, libertà e democrazia politica in Italia.
Le leve del nostro agire vengono a precisarsi:
nuova concezione e nuova pratica del potere, passando dalla capacità di imporre la propria volontà ed i propri interessi , attraverso gli strumenti della forza e della violenza alla diffusa possibilità di avanzare proposte e soluzioni ancorate al fine primario dell’interesse di tutti e garantite in tale valenza dalla scelte della nonviolenza.
Informazione, anche e soprattutto come tutela del cittadino rispetto al funzionamento del potere, per non parlarne, poi, contro gli errori e gli abusi del potere .
Controllo e verifica
Democrazia dal basso e revoca
Riduzione dei poteri “tradizionali” : esercito, burocrazia, magistratura, carcere, etc.
Non democrazia diretta, ma appunto omnicrazia
Non contro le istituzioni, ma oltre le istituzioni (Arendt e la disobbedienza civile )
Da quanto espresso emergono le nostre possibili “aggiunte” :
1. centralità della questione istituzionale, che viene in Italia a precisarsi come questione della piena cittadinanza e dello stato di diritto. Uno Stato democratico deve tutelare i diritti e le libertà con il diritto comune, senza ricorrere a legislazioni speciali o corpi segreti. La democrazia aperta è un processo, e le riforme devono significare trasformazioni reali, anche irreversibili.
2.oltre ogni concordato per la laicità dello stato, delle istituzioni, della scuola
3.per una nuova stagione costituente dei diritti e dei doveri
4.per una vivibilità del lavoro, del tempo, delle città, della natura, dello spazio.
Nella pratica, l’azione del Movimento sarà volta a promuovere la costituzione ed il funzionamento di centri territoriali aperti con l’obiettivo di riaffermare la centralità delle assemblee, dei luoghi di confronto, della partecipazione diretta dei cittadini.
In questo contesto il Movimento guarda favorevolmente all’ipotesi della costituzione di GAN (Gruppi di Azione Nonviolenta) nei nodi di Rete Lilliput ed anche quale esperienza concreta di cittadinanza attiva ed ampliamento della democrazia.
Il Movimento rende disponibili la propria esperienza e le proprie competenze per la formazione e l’attività dei GAN.
Valuta opportuno indicare, come propria originale “aggiunta” alla riflessione ed al lavoro di Rete Lilliput, la priorità di un impegno per la difesa del funzionamento e della vita democrazia delle istituzioni.

Approvata all’unanimità con 4 astenuti

MOZIONI PARTICOLARI
Approvate all’unanimità

Sostegno alla Cooperativa “Il Seme e il Frutto” di Brescia
(Alfredo Mori)

Il XX Congresso del Movimento Nonviolento , riunito a Ferrara nei giorni 12,13 e 14 Aprile 2002 , conferma il proprio impegno a sostenere l’azione di risanamento della Cooperativa biologica “ Il Seme e Il Frutto “ di Brescia , avviata con il contributo della sezione locale del Movimento.
Tale azione si propone tra l’ altro di rilanciare le motivazioni originarie , che prevedono anche la promozione di iniziative culturali specifiche , considerando il fatto che la Cooperativa nella sua vita ultraventennale è stata ed è tuttora frequentata da molti esponenti e simpatizzanti dell’ area nonviolenta .
Il XX congresso invita gli organismi responsabili del Movimento a proseguire tale impegno , anche mettendo a disposizione , ove si rendessero necessarie , ulteriori competenze professionali che già in parte sono state coinvolte .

Contro la propaganda militare
(Giovanni Mandorino)

Il congresso del Movimento Nonviolento si svolge mentre il nostro Paese è attivamente coinvolto, in violazione dello spirito e della lettera dell’art. 11 della nostra Costituzione, in una guerra a migliaia di chilometri di distanza dal proprio territorio.
In questo momento il nostro impegno antimilitarista di sempre deve diventare più incisivo.
Il Congresso impegna le sedi locali e gli aderenti al Movimento ad avviare, ciascuno nella propria realtà territoriale in collaborazione con gli altri soggetti disponibili, campagne nonviolente contro lo svolgersi delle manifestazioni di propaganda militare che assumono, in questo momento e nel quadro della riforma della leva, un particolare significato mirando alla costruzione ed al consolidamento del consenso all’uso dello strumento militare o addirittura di una cultura apertamente militarista.

RACCOMANDAZIONI
Approvate

Organizzazione
(Matteo Soccio)

Il XX Congresso del MN,
a partire dalle note organizzative preparate su incarico del C.d.C. da Rocco Pompeo, al fine di migliorare l’assetto organizzativo del MN e rendere più efficace la sua attività e i suoi interventi nel contesto politico italiano, indice per l’autunno del 2002 una conferenza organizzativa aperta a tutti gli iscritti. Le modalità di preparazione verranno decise dal prossimo C.d.C.

Banca Etica
(Davide Caforio)

Il XX Congresso del MN dà mandato al Coordinamento di provvedere alla adesione alla Banca Popolare Etica.

Solidarietà a Beppe Pierantoni
(Paolo Predieri)

Il Congresso del Movimento Nonviolento invia un affettuoso saluto a Beppe Pierantoni, missionario dehoniano, per anni compagno di cammino nella promozione dell’obiezione di coscienza e della nonviolenza, liberato dopo 6 mesi di dura prigionia nella foresta del sud delle Filippine.

Democrazia e Costituzione
(Solmi)

Data la gravità della situazione che si è venuta a creare nel nostro paese e che minaccia di condurre (se non ha già, almeno in parte, condotto) all’instaurazione di un assetto politico incompatibile con i principi ispiratori della nostra Costituzione Repubblicana, e la necessità che il Movimento Nonviolento prenda posizione in modo chiaro anche a livello nazionale sulle misure da adottare e sulle iniziative da sostenere in questi frangenti, il Congresso demanda al Comitato di Coordinamento di assumere le necessarie iniziative.

20 sì, 5 no, 8 astenuti

Il Congresso ha eletto:

Segretario nazionale
Daniele Lugli

Direttore di Azione nonviolenta
Mao Valpiana

Comitato di Coordinamento
Adriano Moratto (Brescia)
Alberto Trevisan (Padova)
Angela Dogliotti (Torino)
Claudia Pallottino (Torino)
Elena Buccoliero (Ferrara)
Flavia Rizzi (Milano)
Francesco Lo Cascio (Palermo)
Luca Giusti (La Spezia)
Luciano Capitini (Pesaro)
Massimiliano Pilati (Trento)
Matteo Soccio (Vicenza)
Pasquale Pugliese (Reggio Emilia)
Piercarlo Racca (Torino)
Rocco Pompeo (Livorno)

Fanno parte del Coordinamento, inoltre, i rappresentanti delle sezioni locali del MN.
I poveri sono poveri ovunque. E ovunque hanno bisogno di una Banca!

Intervista a Mohammed Yunus, a cura di Elena Buccoliero

Mohammed Yunus, il banchiere dei poveri ideatore e fondatore di Grameen Bank, che dal Bangladesh si è espansa in moltissimi paesi salvando milioni di famiglie dalla povertà, è intervenuto al XX Congresso del Movimento Nonviolento per una felice coincidenza. Il giorno successivo, infatti, riceveva il premio Città di Ferrara assegnatogli dall’associazione Ferrara-Terzo Mondo in collaborazione con Banca Etica e con il Comune di Ferrara.
Dopo il saluto di Yunus al Congresso in plenaria, attento e silenzioso, abbiamo avuto modo di fargli un’intervista collettiva, incominciando da Asma, una ragazza sudafricana che, direttamente interessata per le sorti del suo paese, ha chiesto al professore quanto può essere esportato il modello di Grameen Bank, e ha raccontato di un unico istituto di credito sudafricano, la Banca del Popolo, che concede prestiti ai più poveri ma ad un tasso di interesse più elevato rispetto a quello normalmente praticato alla media della popolazione.
Grameen Bank è sorta in diversi paesi anche africani, precisa Yunus, quali Togo, Mali, Senegal, Ghana, e poi anche in Sud America e in Asia, e in alcuni paesi tra i più ricchi come il Canada, gli Stati Uniti, il Regno Unito e infine l’Italia, dove abbiamo avviato una esperienza di microcredito a Napoli.

Quale approccio avete riscontrato nei paesi che fanno parte del “mondo ricco”?
Non è molto diverso, i poveri sono poveri ovunque. Nella filiale statunitense, nel quartiere di Harlem, a New York, abbiamo concesso prestiti a persone che mai nella loro vita avrebbero avuto l’opportunità di mettere piede in una banca. A Napoli i correntisti sono soprattutto immigrati e poveri in cerca di lavoro. Di recente mi ha fatto molto piacere che la Missione Arcobaleno ci abbia invitato a portare Grameen Bank in Kossovo, a sostegno della ricostruzione. La maggior parte dei clienti sono donne quasi sempre vedove di guerra, donne che nel conflitto hanno perso tutto. Abbiamo concesso prestiti a ormai più di 4.000 persone.

Anche nei paesi in cui il modello è stato importato, avete mantenuto la procedura di concedere prestiti non a singoli ma a piccoli gruppi composti da cinque persone?
Sì, i prestiti sono diretti a gruppi che si accordano, condividono i loro progetti e dimostrano, con un piccolo esame, di essere pienamente consapevoli di ciò che stanno per intraprendere. Il 95% dei clienti di Grameen è composto da donne, e tutte molto povere.

Che reazioni avete suscitato all’interno delle famiglie, in un paese come il Bangladesh dove le donne hanno un ruolo davvero marginale?
Quando le donne si avvicinano a Grameen Bank, all’inizio gli uomini sono ostili. Hanno della donna una concezione molto bassa, pensano che sia stupida, incapace di maneggiare denaro, e poi temono di perdere la propria autorità all’interno della famiglia. Anche quando mostrano di sperare che la moglie abbia successo, dentro di sé si augurano sempre che fallisca, per riconfermare che sono loro a saper condurre la famiglia e a gestire bene il denaro.
Nei prestiti, le donne restituiscono ogni settimana una piccola quota e l’uomo spera sempre che alla fine della settimana i soldi non ci siano e la moglie non possa restituire niente. Ed è davvero molto sorpreso quando vede che tutto va liscio, anche dopo la seconda, e perfino dopo la terza settimana…

E dopo un anno che cosa accade?
Alla fine dell’anno la moglie è riuscita a rimborsare l’intero prestito e anche l’uomo è felice perché tutti i debiti sono assolti. E anche in lui qualcosa scatta, comincia ad apprezzare la propria compagna e anche il rapporto all’interno della famiglia si modifica. Incomincia a dare più fiducia, la relazione si fa più paritaria, anche perché se prima la donna non possedeva niente, ora legalmente è lei la padrona della casa, o degli animali, o degli strumenti di lavoro acquistati con il prestito di Grameen Bank, e tutti i documenti testimoniano questo.

Grameen Bank lavora anche nel settore dell’istruzione.
Il 100 per cento dei bambini di Grameen Bank va a scuola. La banca concede prestiti specifici per il sostegno degli studi, destinati per il 50% ad incrementare la scolarizzazione delle bambine.

Il cambiamento nei ruoli maschile e femminile ha una portata straordinaria, che pensiamo potrà avere riverbero non soltanto nei rapporti interpersonali, ma anche nei rapporti politici.
Sì, è vero. Tanto per cominciare, ogni gruppo di cinque donne deve nominare ogni anno un presidente e un segretario, in questo modo ogni donna vive una esperienza di leadership di un gruppo. Questo dà potere all’interno della società, le donne acquisiscono sicurezza in loro stesse e fanno esperienza del diritto di voto che politicamente non hanno mai avuto.
Anche nel governo locale le donne incominciano ad avere voce. Nelle elezioni del ’98 in Bangladesh 2000 donne di Grameen Bank sono state elette nei consigli provinciali, comunali e regionali.

E che cosa succede se un vostro cliente è incapace di restituire il prestito?
E’ molto raro, perché selezioniamo molto bene i nostri clienti, in modo davvero strettissimo. Certo, possono esserci persone che non sono in grado di rimborsare il debito a scadenza o che non raggiungono il loro obiettivo, ma questo non svaluta Grameen Bank nel suo insieme. E anche in quei casi, chi fallisce viene sostenuto fino a che porta a termine il proprio progetto.

Quali sono i criteri per la scrematura della clientela?
Semplice. Visitiamo la casa della potenziale cliente, ci assicuriamo che non abbia mobili, che vi piova dentro, che davvero quella famiglia viva in una condizione di assoluta povertà. Ebbene, quello è il tipo di donna che riceverà un prestito da Grameen Bank. Come si vede, è proprio l’opposto delle credenziali richieste dalle altre banche, dove si danno soldi solo a chi già ha dei soldi. Noi vogliamo allontanare il genere di persone che è interessato ad avere e ad esibire denaro, più che ad usarlo. Non siamo quel tipo di banca.

Che tipo di rapporti ci sono oggi tra Grameen Bank e la Banca Mondiale?
In passato abbiamo avuto relazioni molto dure. Da quando è cambiato il presidente, è cambiata anche la mentalità di World Bank riguardo al microcredito; niente di concreto, ma almeno a livello retorico si hanno posizioni più aperte e speriamo che per il futuro questo possa dare degli effetti concreti.

Le grandi banche non hanno mai cercato di soffocare la vostra iniziativa, o di imitarla?
Direi di no. Siamo stati soprattutto criticati. “Questa non è una banca”, si diceva negli altri istituti di credito, “salterà, non è possibile che ce la faccia, è destinata a fallire”. Ci sono state anche molte critiche da parte della gente, soprattutto dagli usurai e poi in generale dagli uomini, che ci hanno accusato di compiere, con i nostri prestiti, un’opera contraria alla religione e alla cultura della gente.

E le organizzazioni criminali?
In Bangladesh non esiste una mafia organizzata e potente come in Italia, tutt’al più possono esserci gruppi sparsi, complessivamente poco temibili.

Parliamo degli Stati Uniti, allora.
Sì è vero, Harlem non è quello che si dice un quartiere tranquillo. Questi inconvenienti si possono aggirare perché si propone un metodo in cui ognuno si assumere una responsabilità per se stesso, ma all’interno di un gruppo. Quando ci sono cinque persone determinate e davvero solidali tra loro, la malavita resta fuori. Un altro motivo è che il traffico di denaro è molto ridotto e rende la cosa meno interessante per la malavita. La maggior parte dei prestiti ammonta a 50, 100 dollari. In Harlem o a Chicago il prestito più alto era sotto i 1.000 dollari. Problemi si sono avuti semmai con le elite politiche.

Cioè?
Lo smacco è forte, perché la gente non dipende più da loro dai potenti per avere sostentamento, anzi, il prestito di Grameen sarà di aiuto per raggiungere una buona autonomia personale e familiare. In Bangladesh siamo partiti in sordina, il fenomeno si è espanso quasi all’insaputa del governo. Ora abbiamo circa due milioni e mezzo di famiglie, cioè tredici milioni di persone collegate a Grameen Bank, ed è ormai un fatto troppo importante e di massa perché si possa cercare di contrastarlo apertamente.

Com’è organizzata adesso Grameen Bank?
In Bangladesh abbiamo 1.175 filiali e 12.000 dipendenti a tempo pieno, tutti con possibilità di carriera. Ogni dipendente ha un conto corrente presso Grameen Bank, e tutti insieme compongono un capitale complessivo di circa 150 milioni di dollari. Gli utili dell’esercizio vengono reinvestiti e vanno ad aumentare la mole dei possibili prestiti.
Per i dipendenti c’è anche un fondo pensione dove ognuno deposita un dollaro al mese. Dopo 10 anni il capitale è più che doppio, e dopo molti anni, quando i nostri funzionari sono ormai anziani, possono sentirsi al sicuro perché, anche se non c’è chi può assisterli, sanno di ricevere ogni mese da Grameen Bank una pensione che li aiuterà ad andare avanti.
Il Santo di Assisi e il Lupo di Gubbio

Il Congresso ha positivamente sciolto l’interrogativo sull’opportunità di un’iniziativa che costituisca momento di unità degli amici della nonviolenza, che si ritrovano sotto sigle differenti, in gruppi locali, operanti in diverse realtà, e dia visibilità alla costruzione di progetti comuni. Già in questo senso avevamo inteso operare con la Marcia per la nonviolenza del 2000 “Mai più eserciti e guerre” e con la persuasa partecipazione alla costruzione della rete Lilliput. E’ nostra convinzione, infatti, che un lavoro comune, con obiettivi chiari e condivisi di quanti si richiamano al messaggio della nonviolenza, non sia orgogliosa separazione dal generico pacifismo, né rottura di più ampie unità, ma necessaria aggiunta e proposta costruttiva al rifiuto, nel nostro paese ancora largo e diffuso, della guerra come strumento di soluzione dei problemi.

L’idea dunque è questa: tenere alla fine di agosto 2003, a Gubbio, un incontro sulle proposte della nonviolenza per affrontare i conflitti, grandi e piccoli, che la vita ci propone. Possiamo pensare ad un “prologo” a Santa Maria degli Angeli, dove abbiamo concluso la marcia del 2000 “Mai più eserciti e guerre”, quindi ad un cammino fino a Gubbio, in due tappe. La stagione consentirà di dormire una notte all’aperto o nel più semplice dei rifugi. Per chi non possa affrontare il percorso l’appuntamento sarebbe comunque a Gubbio, luogo di una bella leggenda francescana.

“Al tempo che santo Francesco dimorava nella città d’Agobio, nel contado di Agobio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali ma eziandio gli uomini: intanto che tutti i cittadini istavano in gran paura perocchè spesse volte si appressava alla città; e andavano armati quando uscivano dalla città, come se eglino andassono a combattere; e contuttociò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo; e per paura di questo lupo e’ vennono a tanto, che nessuno era ardito d’uscir fuori della terra”. Una città in preda al terrore e alla violenza è davanti agli occhi di Francesco che va alla ricerca del lupo “benchè li cittadini al tutto ne lo sconsigliavano”. Lo trova e gli “dice così: – Vieni qui, frate Lupo…”

E’ lo sguardo della nonviolenza sul conflitto che permette di vedere nell’Altro (nemico grandisssimo, terribile e feroce) un fratello e a lui rivolgersi col “tu d’amore”, avrebbe detto anni dopo Capitini. Francesco non accetta la chiusura, l’odio, il risentimento, la paura dei cittadini. Stabilisce una relazione ed un dialogo di verità e possibile conciliazione: “tu se’ degno delle forche, come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica. Ma io voglio, frate Lupo, far la pace tra te e costoro” e “il lupo, con atti di corpo e di coda e di occhi e con inchinare di capo, mostrava di accettare ciò che santo Francesco dicea”. Francesco individua la causa dei “grandi maleficj” dei quali il lupo si è reso responsabile: “io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male”. La soluzione è ora a portata di mano e zampa, che suggellano il patto. Infatti “il detto lupo vivette due anni in Agobio; ed entrava dimesticamente per le case, a uscio a uscio, senza far male a persona e senza esserne fatto a lui; e fu nutricato cortesemente dalla gente: andandosi così per la terra e per le case, giammai nessun cane gli abbaiava drieto” anzi “si morì di vecchiaia di che li cittadini molto si doleano…”.

Per le caratteristiche dell’iniziativa e per la data di svolgimento crediamo non possa esservi il minimo sospetto di concorrenzialità o polemica con la Marcia Perugia – Assisi, che biennalmente si tiene, salve le “edizioni straordinarie” dovute alle guerre che ci circondano. Si propone anzi come un invito a quell’iniziativa ed una proposta di contenuti per quella stessa manifestazione, che si terrà mesi dopo: un prima della Marcia Perugia – Assisi ed, assieme, un oltre la marcia Perugia – Assisi. Ci piace pensare ad una coralità nella preparazione di questo momento, che abbiamo delineato e che vorremmo arricchito dal contributo di tanti.

Per questo abbiamo anche ipotizzato il percorso di un anno in cui mensilmente, a data fissa, singoli e gruppi che condividono questo progetto riflettano e propongano iniziative su temi cruciali, che attengono alla nostra società ed ai suoi conflitti. Abbiamo individuato dodici temi per dodici giornate, sottolineate da un digiuno, così che anche chi non riesce a prendere altra iniziativa manifesti e senta il suo legame in un comune impegno. La rivista Azione Nonviolenta accompagnerà e sosterrà l’iniziativa nel suo corso con notizie, approfondimenti tematici, materiali utili alla divulgazione.

 

Israele e Palestina: c’è una proposta della nonviolenza?

La misura e insieme la nettezza di Mario Miegge; la sguardo lucido e attento alla complessità di Gianni Sofri; la partecipazione umana e l’esperienza diretta di Giannina Del Bosco; il confronto tra i moltissimi presenti, arrivati da tutta Italia per seguire il congresso, o semplicemente cittadini interessati ad un tema così presente sui media e nelle coscienze.
Questo è ciò che in tanti, lo scorso 12 aprile al Ridotto del Teatro Comunale di Ferrara, abbiamo tratto dal dibattito Israele e Palestina: c’è una proposta della nonviolenza?, il momento di maggiore apertura del XX Congresso Nazionale del Movimento Nonviolento.
I relatori scelti erano, volutamente, interlocutori esterni al Movimento ma vicini – in diverso modo – al tema della nonviolenza e profondi conoscitori del conflitto mediorientale:
Gianni Sofri, uno dei massimi studiosi italiani del pensiero gandhiano, oltre che geografo e storico delle popolazioni afro-asiatiche;
Giannina Del Bosco, esponente nazionale delle Donne in nero, protagonista di numerosi viaggi in Israele e Palestina nei quali sostiene la realtà locale e prende parte ad azioni di interposizione nonviolenta;
Mario Miegge, coordinatore dell’incontro, per molti anni docente e preside alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara e tutt’ora impegnato in ambito cittadino sui temi della trasformazione sociale e della pace.

L’intervento nonviolento è praticabile, nella risoluzione dei conflitti?

Mario Miegge – In un passaggi di Aldo Capitini in Religione Aperta è scritto che “abitualmente si pensa che l’uso della violenza è sollecitato dal successo che essa produce a più breve scadenza che non gli altri mezzi”. Io penso che questa frase oggi non sia più valida. È ormai palese che l’uso della violenza non porta al successo, e non è un caso se la proposta della nonviolenza si sta estendendo molto al di là dei gruppi che l’hanno da sempre proclamata e praticata. Oggi la nonviolenza non è una scelta morale o di sentimento, ma assume il suo pieno carattere di razionalità di fronte al dilagare della irrazionalità delle armi.
Gianni Sofri – Sarei meno radicale sulla possibilità di una soluzione dei conflitti sempre e comunque attraverso la nonviolenza, e anche meno radicale nell’esclusione dell’efficacia della violenza – o dovrei dire dell’uso della forza – in situazioni particolari. Bisogna fare i conti con queste faccende in maniera assolutamente problematica e attenta alle singole realtà. Ovvio che sono preferibili soluzioni nonviolente. Ma sarei curioso di sapere se nel caso di Israele e Palestina sono davvero possibili, tenendo conto di tutti gli aspetti del conflitto. Sarajevo per me è uno straordinario esempio. Assediata dai cecchini, nel giro di quattro giorni di bombardamenti, pur con moltissimi altri problemi, è tornata ad essere una città “normale”.
Giannina Del Bosco – Sono rientrata due giorni fa da Sarajevo. Sono passati dieci anni dall’assedio e la gente sta morendo di fame, la gente è separata e i diritti non ci sono. Credo che ci sia un ruolo dei pacifisti, dei nonviolenti, che è quello di garantire la legalità internazionale, la sopravvivenza di tutti, essendo presente prima, durante e dopo il conflitto. Oggi nei Balcani c’è una pace falsa, dovuta alla presenza delle forze internazionali. Quando abbandoneranno il territorio scoppierà un’altra guerra, e la responsabilità è anche nostra. Che cosa abbiamo fatto? Dopo i bombardamenti, quando non ci sono più i riflettori puntati e il conflitto non fa notizia, abbandoniamo i popoli al loro destino.

Gandhi e lo stato di Israele

Gianni Sofri – Come Gandhi vedeva il problema degli ebrei? È il capitolo meno lusinghiero nella storia di questo grande personaggio. Negli anni Trenta scriveva sostanzialmente che la Palestina era la terra degli arabi e gli ebrei dovevano starsene a casa loro, oppure arrivarci ma senza l’uso delle armi, cercando un accordo con gli arabi.
Con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale, non capì la natura del totalitarismo, la sua forza. Invitò tutti a pregare per Hitler, perché riteneva che nessun uomo sia tanto cattivo da non poter essere convertito alla nonviolenza. Quando poi iniziò la persecuzione degli ebrei, Gandhi scrisse agli abitanti della Cecoslovacchia, della Polonia, scrisse agli inglesi e a Hitler lettere mai recapitate, in cui ribadiva che è inutile rispondere alla violenza con altra violenza:
“Se io fossi un ebreo, e fossi nato in Germania, e vi risiedessi, affermerei che la Germania è la mia patria come quella del più importante tra i gentili tedeschi, e sfiderei i gentili a uccidermi o a gettarmi in prigione. Rifiuterei di essere espulso e di sottomettermi alla discriminazione. Perciò non aspetterei che gli altri ebrei si unissero a me nella resistenza passiva, ma avrei fiducia che alla fine essi seguirebbero inevitabilmente il mio esempio. Se un ebreo o tutti gli ebrei accetteranno di seguire il mio suggerimento, sicuramente non peggioreranno la loro situazione, e la loro sofferenza, volontariamente accettata, darà loro una forza interiore e una gioia che nessuna risoluzione di solidarietà approvata fuori dalla Germania potrà mai fornire loro”.
E ancora, da uno scritto del 1946: “Hitler ha ucciso cinque milioni di ebrei, è il più grande crimine dei nostri tempi, ma gli ebrei avrebbero dovuto offrirsi alla mannaia del boia, avrebbero dovuto precipitarsi nel mare da sé, dall’alto di una scogliera. Questo avrebbe fatto insorgere il mondo intero e il popolo tedesco. Nei fatti, in un modo o nell’altro, sono morti a milioni”.
C’era in lui, anche se non espressa esplicitamente, l’idea che la nostra generazione non arriverà a una situazione di nonviolenza vera nei rapporti tra i paesi, forse neppure la successiva o quella dopo ancora, ma alla fine, se si è coerenti, ci si arriverà. Però – come risulta dai brani appena visti – questo comporta di sacrificare alcune generazioni. In sé è qualcosa di inumano. Ci sarebbe di che discutere.

Le guerre si possono evitare?

Mario Miegge – Nel caso del Kossovo la risposta è sì, visto lo svolgimento della Conferenza di Rambouillet e visto l’impegno di interposizione nonviolenta presente e duraturo in quella regione, che avrebbe dovuto essere sostenuto a livello internazionale.
Anche la catastrofe odierna in Palestina si poteva evitare, e purtroppo molto dipende dalle persone. Nei negoziati successivi a Camp David si era ad un passo dall’accordo, il momento era decisivo. Intanto Ariel Sharon è stato eletto democraticamente in Israele e la cosa si è chiusa.
Giannina Del Bosco – Le guerre si possono evitare, anticipare. Nel ‘92, con la campagna Io vado a Sarajevo, pur così limitata, abbiamo interrotto per 24 ore le granate dei serbi e gli spari dei cecchini. Se non fossimo stati 500 ma 10.000, forse la guerra si sarebbe fermata.
In Israele e Palestina dobbiamo andare noi, abbiamo aspettato anche troppo. I segnali c’erano, ci sono arrivati, e non sono stati colti. Ci sono grosse responsabilità dell’Europa e di tutti quei movimenti che si sono spesi per la risoluzione del conflitto o per il riconoscimento dello stato palestinese. Dopo gli accordi del ‘93, ottimi e mai applicati, c’è stato l’abbandono di entrambe le parti. Invece l’esperienza ci insegna che proprio questi sono i momenti più difficili. Non bastano gli accordi formali, la pace bisogna costruirla.

L’occupazione israeliana e le altre radici del conflitto

Mario Miegge – Da 35 anni lo stato di Israele mantiene una situazione di totale illegalità, al di fuori di tutte le deliberazioni delle Nazioni Unite, portando avanti una occupazione che è continuata sotto tutti i governi israeliani, purtroppo anche laburisti o del Likud. A Oslo sono stati sottoscritti e ratificati dei patti che poi sono stati disattesi, perché si sono ampliate le colonie, un atto illegale e di pura provocazione che impedisce il progredire del processo di pace.
Gianni Sofri – La situazione è complessa. Si citano sempre le risoluzioni dell’Onu, ma la prima di queste dice sostanzialmente che la Palestina va divisa in due. Poi sono intervenuti gli stati arabi, che hanno una responsabilità ben maggiore di qualsiasi altro perché hanno giocato con i palestinesi; hanno, loro sì, massacrato i palestinesi, e se c’è un momento storico nel quale si avrebbe avuto ragione di usare la parola “sterminio”, è quando gli arabi sono stati massacrati nel Settembre Nero, in Giordania, dal liberale moderato re Hussein.
Giannina Del Bosco – Sono contro a ogni violenza e contro alla posizione che giustifica Israele in nome e per conto della sicurezza. La sicurezza deve essere per tutti, i morti ci sono da ambo le parti. La differenza è che a Tel-Aviv la gente va in discoteca e al ristorante, nei campi profughi invece si muore tutti i giorni, muoiono le donne ai checkpoint perché non possono partorire, muore la popolazione perché manca l’acqua, perché manca il pane e manca tutto.

Di fronte al terrorismo palestinese

Mario Miegge – Quando qualcuno, come monsignor Ilario Cappucci sulle colonne di Repubblica, esalta e loda il coraggio di coloro che “vanno gioiosamente alla morte”, noi dobbiamo ribattere con forza che è inaccettabile. I partigiani italiani non andavano mai gioiosamente alla morte, perché la morte è una cosa repellente e subita.
Giannina Del Bosco – Anche a me colpiscono le donne e i ragazzi kamikaze. E’ facile dire che sono stati mandati, che è colpa dell’integralismo religioso. Io che ho visto questi posti difficili da vivere, ho visto i campi profughi, Jenin… E’ la disperazione che porta a questo, la disperazione non di una settimana ma di anni in cui questi bambini non escono dai campi, non possono andare a scuola… mancano le cose minime, l’acqua. L’acqua è un bene per tutti ma loro la devono comperare, e non c’è più un’economia che consenta di comperare l’acqua. E poi è vero, c’è un ritorno all’integralismo. Nella striscia di Gaza c’è una frontiera da cui non passa più niente, da due anni l’unica cosa che si vede sono le azioni di Hamas. È il problema dell’abbandono della popolazione palestinese, per questo è così importante andare là.
Beppe Marasso, (Mir-MN, Centro Sereno Regis) – Se si mettono a confronto il diritto e la forza, probabilmente è la violenza a prevalere. Il punto che rende possibile la nonviolenza è quando assieme al diritto metto il sacrificio. In questo Gandhi ha ragione, se non si mette in conto l’agire di persona con il proprio sacrificio, la nonviolenza diventa una specie di estetica ma non ha capacità di azione. Ciò che la rende operante nella storia, è la capacità di sofferenza.
Per quanto la cosa possa apparire strana alle nostre orecchie, sono sicuro che se i ragazzi kamikaze, invece di spargere il proprio sangue e quello di altri, avessero sacrificato se stessi senza coinvolgere altri innocenti, avrebbero sconvolto il governo d’Israele e ne avrebbero modificato in modo sicuro l’orientamento politico. Lo sbaglio non sta nel sacrificio ma nell’omicidio.
Gianni Sofri – È una immagine bellissima e veramente gandhiana, ma è inconcepibile per ragioni culturali. E’ difficile pensare a manifestazioni basate sul sacrificio di sé nella cultura musulmana, che non lo riconosce come valore, se non in ristrettissime fazioni condannate come eretiche.

Essere presenti nel conflitto

Giannina Del Bosco – Come Donne in Nero abbiamo cominciato a recarci in Israele e Palestina due volte all’anno con la scelta di lavorare con ambo le parti, per la convivenza e il riconoscimento dei due popoli. In qualsiasi conflitto c’è il problema di mantenere i rapporti tra i contendenti. Noi cerchiamo di fare da ponte tra quelle persone che su entrambi i fronti scelgono la nonviolenza, la convivenza, la fine dell’occupazione e l’affermazione di due popoli e due stati.
I pacifisti israeliani stanno già facendo cose ottime, invece in Palestina non c’è questa esperienza e la gente ci chiede di andare là e di lavorare assieme. In agosto ci hanno chiesto di dormire nel villaggio di Beit Jalla, vicino a Betlemme, dove vivono cristiani e arabi insieme, per fermare i bombardamenti, mentre in altri villaggi abbiamo svolto azioni per far capire che è possibile superare gli ostacoli in modo nonviolento e con delle disubbidienze dirette.
Il fatto che osservatori della società civile internazionale siano al checkpoint accanto ad un gruppo di ragazzi palestinesi che fino a poco prima lanciavano pietre, e accanto a dei ragazzi israeliani, per contrattare e superare il blocco è un successo enorme. La gente comprende che puoi individuare il nemico ma poi con lui devi imparare a comunicare, in una forma mai sperimentata prima.

L’impegno nonviolento dei pacifisti israeliani

Giannina Del Bosco – Ci sono realtà che i media non fanno passare. La parte israeliana è completamente diversa da quindici anni fa, molti gruppi lavorano seriamente in modo nonviolento. Il fatto che delle donne – qualche anno fa erano in 4, ora sono 90 – ogni giorno spendano due ore della loro vita ai checkpoint per chiedere ai soldati di applicare la carta dei diritti umani, rafforza anche la parte palestinese, perché l’atteggiamento dei soldati cambia completamente e alcune violenze non sono più così dirette. Ci sono i Rabbini per la Pace, che vanno a dormire nelle case palestinesi che stanno per essere demolite dai bulldozer per evitare l’abbattimento. E quando non arrivano in tempo, c’è un altro gruppo di rabbini e di pacifisti che interviene per la ricostruzione. Ci sono donne, genitori di Israele e Palestina che hanno perso i figli e dicono Basta sangue su questa terra, dobbiamo trovare un modo per vivere insieme separatamente. E ricordiamo coloro che nell’esercito israeliano dicono signornò – e non stiamo parlando di nonviolenti o di pacifisti, ma di persone dell’esercito arrivate al limite.
E’ questa la nonviolenza? Non lo so. Mi pongo sempre tanti interrogativi. In questo momento voglio essere al fianco di chi sta peggio, e lavorare anche con quella parte della società israeliana che si è dichiarata sempre per la convivenza e il riconoscimento del popolo palestinese.

Lo Stato di Israele è in pericolo?

Giannina Del Bosco – Rispetto al ‘93, ormai nessuno in Palestina mette in discussione l’esistenza dello stato di Israele. Ma i palestinesi dicono: noi non abbiamo colpa della Shoah, è l’Europa che ha fatto questo, perché dobbiamo pagarla noi palestinesi, un popolo che non ha nessuna responsabilità?
Gianni Sofri – In questo conflitto abbiamo da una parte uno stato che non riesce a nascere, dall’altra uno stato fortemente in pericolo.
Perché dal 1948 non viene riconosciuto lo stato di Palestina? Secondo me i paesi del mondo arabo cercano di guadagnare tempo, tenersi fuori e mandare avanti i palestinesi, prolungano trattative che non vanno mai in porto, finché Israele, un’isola di soli 6 milioni di persone in un mondo arabo e musulmano molto più vasto, non reggerà più.
Un anno e mezzo fa Arafat ha sprecato una grandissima occasione e sono convinto che non sia un caso, che giochi su due tavoli, da un lato le trattative di pace, dall’altro i rapporti con gli altri paesi arabi per una strategia che gli permetta, in un momento particolarmente favorevole, di ottenere la fine dello stato d’Israele e di fondare finalmente “il grande stato palestinese”.

Quali possibilità per il futuro

Gianni Sofri – Personalmente non vedo un’alternativa secca tra nonviolenza e intervento. Io penso che le soluzioni nonviolente richiedano trasformazioni culturali profonde che possono durare intere generazioni e per le quali noi dobbiamo lavorare con grande sforzo. Ma nel frattempo non si possono lasciar morire le persone, e se è necessario un atto di violenza, io sono per farlo.
Quello che io vedo è che, in tempi brevi, Israele liberi i territori occupati, torni entro i confini precedenti la guerra del ’67 e gradatamente faccia rientrare i coloni. Questo è il prezzo che gli israeliani devono pagare per avere la pace, non solo con i palestinesi ma anche con gli altri stati arabi. E naturalmente, perché avvenga tutto questo è indispensabile che cada il governo Sharon. Su altre cose è molto difficile che Israele possa cedere, per esempio il problema dei profughi: se in un paese piccolo come l’Emilia Romagna rientrano tre milioni di palestinesi, Israele va a morire.
Quando dico questo, auspico una soluzione per il popolo palestinese – lascio in pregiudicato quale sia il suo gruppo dirigente e quale autorità abbia –, ma indico anche l’unica vera garanzia di sopravvivenza per Israele, altro problema che a me sta a cuore, non secondario in ordine di importanza perché i problemi sono alla pari. Non si risolvono, nemmeno per quanto ci compete, travestendosi da una delle due parti.
Giannina Del Bosco – La soluzione? Non dobbiamo metterci d’accordo noi, devono essere loro a trovarla. Per me la soluzione è il ritiro dai territori occupati e la fine della violenza. Sul diritto del ritorno non me la sento di esprimermi, prima battiamoci perché finiscano i massacri e venga riconosciuto lo stato palestinese. Chiediamoci invece come ci spendiamo noi, nei confronti di chi sta pagando sulla propria pelle. Questa Europa ricca e obsoleta potrebbe fare qualcosa di più. In questo momento le risposte sono venute solo dalla società civile.

Quale mediatore per Israle e Palestina?

Mao Valpiana (Direttore di Azione nonviolenta)- Certo, la soluzione spetta alle parti in causa, ma quando non si trova via d’uscita ci vuole l’intervento di una terza parte. In questo caso un interlocutore istituzionale dove va cercato? Possono essere gli Stati Uniti? Spesso ci ribelliamo quando l’America interviene, ora ci sembra scandaloso che non lo faccia, come fossimo noi legittimati a decidere di volta in volta, e poi con quale criterio? Dipende dal ruolo, dal diritto? E’ che mancano le alternative, e allora nel Far West scegliamo lo sceriffo più forte…?
Però la terza parte deve essere davvero tale. Chi va in Palestina con la kefiah dà appoggio e solidarietà, che sono molto importanti, ma non fa interposizione, perché non può essere accettato e legittimato agli occhi di una delle due parti. L’interposizione vera è difficilissima, richiede di essere davvero scevri, di entrare psicologicamente e mentalmente nel conflitto e capire le ragioni dell’una e dell’altra parte, che ci sono sempre, pur decidendo di schierarsi dalla parte dell’oppresso.
Giannina Del Bosco – L’America finanzia il 49% dell’economia di Israele, come posso pensare che faccia da terzo elemento? Mi sembra importante il ruolo dell’Europa, un’Europa che deve riscattarsi. Dal 2000 Arafat chiede gli osservatori internazionali, è grazie al veto dell’America se non ci sono. Ma in un modo o nell’altro dobbiamo trovare una via d’uscita altrimenti, tra due mesi, non ci sarà più di cosa parlare. Non ci sarà più la Palestina, e questo mi dispiacerebbe molto.
Gianni Sofri – Chi è la terza parte istituzionale? Secondo me nessuno, se ci ragioniamo. Di fatto, terza parte è chiunque avrà la possibilità di intervenire, quindi gli Stati Uniti, spero, perché altrimenti davvero tra breve non ci sarà più niente da discutere.
Gli Stati Uniti non sono solamente fortemente filo-israeliani, sono anche fortemente filo-arabi perché hanno bisogno del petrolio degli arabi, della loro grande coalizione per i loro progetti internazionali. È un pasticcio, è un equilibrio delicato, complesso, tra tante forze, e noi non sappiamo come decollerà. Sul fatto che la situazione possa essere modificata con la volontà dei singoli, con quello che possono fare in termini di pressione politica e culturale, o di interposizione diretta… Certamente queste cose valgono. Operano poco, ma ognuno fa quello che può rimboccandosi le maniche.
Mario Miegge – Amos Luzzato, presidente delle comunità ebraiche in Italia, ha rivolto un appello all’Europa proponendo una riunione dei tre parlamenti. E’ una proposta veramente straordinaria di cui va dato atto e che bisognerebbe appoggiare.
Ritengo che le esperienze delle Donne in Nero e di europarlamentari come Luisa Morgantini, di cui siamo orgogliosi, dovrebbero e potrebbero moltiplicarsi. Forse la cosa più efficace sarebbe di organizzarle per gruppi professionali – medici, operai, sindacalisti, insegnanti universitari – perché mi sembra che in questo periodo storico, nella dissoluzione degli organismi politici, la professionalità ricominci a contare.

(Resoconto a cura di Elena Buccoliero)
Intervista di un israeliano ad un palestinese: c’è posto per la nonviolenza in Medio Oriente?

Mubarak Awad è uno psicologo cristiano palestinese che organizzò il movimento di resistenza nonviolenta contro l’occupazione dei territori palestinesi alla fine degli anni ottanta.
Lo stato di Israele lo ha espulso e ora vive negli Stati Uniti, a Washington, dove ha fondato Nonviolence International. Lo intervista Meir Amor, un attivista per la pace israeliano che vive in Canada.

Come sei diventato un leader della lotta nonviolenta palestinese?
I palestinesi non conoscevano la nonviolenza. Gandhi non ha avuto molta attenzione nel mondo musulmano, perché era contro la creazione del Pakistan, uno stato islamico. Così , nella percezione araba, essere nonviolenti significa cedere al più forte.
La mia prima attività con i palestinesi, prima di essere espulso da Israele, è stata proprio quella di impostare un programma educativo sulla nonviolenza nell’Islam. Sono stato in India a cercare un musulmano che aveva lavorato con Gandhi, Abdul Gaffar Khan, il quale aveva formato una brigata nonviolenta per aiutare Gandhi, con il suo villaggio di Patani. Ho scritto un libro su di lui e ho incontrato diversi leaders religiosi in Palestina, Israele ed Egitto. Ho trovato molti musulmani interessati, soprattutto tra i sufi. Nell’Islam, i sufi sono come i quaccheri per il mondo cristiano.
In alcuni luoghi sono guardati come eretici perchè pregano, danzano e agiscono come se fossero in unità con Dio. Per l’Islam ciò non è concepibile, perciò sunniti e sciiti non li considerano veri musulmani. Sono loro ad aver scritto per primi su Islam e nonviolenza.

I sufi accettano il concetto dell’Islam come religione basata sulla Jihad, la guerra santa?
I sufi interpretano la Jihad come il nemico interno contro il quale ciascuno deve combattere e invitano a non danneggiare piante, animali o persone. E’ un bel concetto, simile all’idea dei quaccheri secondo cui c’è una parte divina in ognuno, così non devi fare del male a nessuno, perché faresti del male a Dio.
Io comunque aprii a Gerusalemme il Centro palestinese per la studio della nonviolenza. Non lavoravo con israeliani allora, ma solo con palestinesi. Andavo nelle scuole, nelle città, nei club, dovunque mi stessero a sentire, e dicevo che avremmo potuto liberarci dall’occupazione attraverso mezzi nonviolenti. Nonviolenza significa rifiutare l’autorità di coloro che ti occupano, non pagare loro le tasse, non concludere alcun affare con loro, rendergli la vita difficile non accettando la loro esistenza, anche voltando la faccia dall’altra parte, come se non ci fossero. Era duro per i palestinesi non guardare la gente in faccia, non discutere con loro, non ingaggiare con loro una battaglia diretta. Partecipai a incontri politici e organizzai un training per gli attivisti dell’OLP a Tunisi su come funziona la lotta nonviolenta. Pensavano che fossi matto.

Prendi un qualunque palestinese di un villaggio occupato. I bulldozer israeliani gli distruggono la casa: cosa gli dici? Di ignorare la presenza di Israele?
Proponevo una specifica strategia, illustrata in 10-15 pagine, su come sbarazzarsi dell’occupazione. Fu pubblicata su una rivista palestinese. Avevo individuato 120 modalità di lotta nonviolenta che i palestinesi avrebbero potuto usare contro l’occupazione israeliana. Un vecchio al quale avevano portato via la terra venne da me perché la rivoleva indietro. Così gli dissi di raccogliere 300 o 400 persone del villaggio – giovani, vecchi, bambini- chiunque fosse disposto a venire. I coloni avevano messo una recinzione attorno alla terra. Avremmo tolto la recinzione e ci saremmo semplicemente seduti là, e se gli israeliani ci avessero voluto uccidere, ci saremmo lasciati uccidere. Ad una condizione, gli dissi: nessuno avrebbe lanciato nemmeno una pietra. Se ci massacreranno tutti, che lo facciano. E così facemmo: riuscimmo in questo modo ad avere indietro la terra dai coloni. Questo episodio ebbe un’eco vastissima tra i palestinesi, che cominciarono a venire al Centro invece che rivolgersi all’OLP. Dopo un po’ prendemmo contatto con alcuni israeliani e alcuni cristiani che si unirono a noi.

In tal modo alcuni che prima erano considerati “nemici” divennero una componente importante della lotta nonviolenta?
Fu proprio così, e iniziammo a far incontrare professori palestinesi e israeliani, per dei colloqui. All’inizio ciò avveniva in forma riservata. Poi facemmo incontrare gli artisti. Il successo più grande fu con le donne israeliane e palestinesi: esse parlarono di come non volessero allevare figli perché fossero uccisi. Uno degli obiettivi principali era di insegnare ai palestinesi a non aver paura degli israeliani. Sostituire la paura con il coraggio è l’essenza della nonviolenza.

Come useresti quella formula per quanto riguarda il rispetto del diritto al ritorno? Cosa diresti a quelli che dicono: “Vogliamo ritornare nella nostra casa, in Israele”?
Distruggere i campi dei rifugiati. Bruciarli. Se ci fossero centinaia di migliaia di rifugiati senza tetto, non ci sarebbe altra soluzione che il loro ritorno a casa. Non vollero farlo perché era troppo rischioso.

E’ ciò che face Gandhi in India con la marcia del sale! Distruggere i campi per i rifugiati e mettersi in cammino per ritornare a casa: è questo che hai proposto loro?
Si, ma non hanno voluto farlo. Avrebbe tolto l’iniziativa all’OLP. Ciò è parte del nostro problema. Anche quest’altra proposta li disorientava: dissi che nei territori occupati avremmo potuto guidare sul lato sinistro della strada. Gli Israeliani sostenevano che avremmo creato il caos, che volevamo ucciderli tutti.. Io risposi: “Questa è la nostra terra. Abbiamo il diritto di decidere che cosa vogliamo fare”. Riuscii a convincere circa 6000 persone, che erano pronte a realizzare quest’azione. Molti Palestinesi iniziarono a percepire la forza della nonviolenza.
C’è una legge in base alla quale non si può utilizzare per un insediamento una terra nella quale sono piantati alberi da frutto , così abbiamo iniziato, di notte, a piantare olivi. Divenne importante per noi comprendere le regole alle quali dovevamo sottostare. Sono stata la prima persona a chiedere alla polizia israeliana un permesso per dimostrare. Loro erano molto contenti: “Perbacco, volete un permesso per dimostrare?” “Si- risposi- dimostreremo davanti alla porta di Damasco contro l’occupazione.” Mi ritrovai con solo due persone; i palestinesi mi guardavano con sbigottimento. C’era più polizia a proteggerci di quanti fossimo a dimostrare.

Negli ultimi sette anni , dagli accordi di Oslo, si è avviato un processo di pace. Se i Palestinesi volessero ritornare in Israele, che tipo di paese avrebbero?
Per il futuro di quest’area non possiamo avere uno stato palestinese. Io chiamerei tutta l’area di Israele e Palestina “Palestina” e un Israeliano chiamerebbe la stessa area “Israele”, e potremmo vivere insieme, accettandoci a vicenda. E’ questo il mio sogno. Si realizzerà tra 50 o 60 anni. Israele deve accettare di essere parte del Medio Oriente e smettere di sentirsi parte dell’Europa. Devono essere accettati dagli Arabi e dai Palestinesi come una minoranza in Medio Oriente, come i Cristiani, che sono una minoranza in quest’area. E’ bello essere europei, ma essi non lo sono. L’ultima generazione di ebrei europei sta scomparendo, le nuove generazioni sono mediorientali. Dobbiamo entrare nell’ottica che ogni Israeliano ha diritto ad avere una casa a Damasco e, se vuole, a Baghdad.

Pensi ad un Medio Oriente unificato?
Certo. Dobbiamo competere con gli Stati Uniti, con l’Europa e con la Cina per quanto riguarda l’educazione, la scienza, il commercio. Dobbiamo essere uniti per competere e costruire un livello di vita accettabile.

L’islam, l’ebraismo e il cristianesimo possono sviluppare un approccio nonviolento alla politica?
Non penso questo. Gli ebrei osservanti vanno a destra, i musulmani integralisti sono di estrema destra, e così è per i cristiani. E’ questo il nostro problema: quando la gente riceve indicazioni da Dio non può essere pacifica. Ma in Sudafrica è successo un miracolo: dobbiamo imparare da loro il concetto di riconciliazione, la capacità di ammettere che “Si, ti abbiamo fatto del male e ce ne dispiace.” E’ duro per gli Ebrei dire ai Palestinesi :”Siamo coloni sulla vostra terra. Grazie, noi apprezziamo che ci lasciate usare la vostra terra.” Recentemente sono stato ad una conferenza in Australia; un ministro ha detto: “Riconosciamo che questa terra appartiene alle tribù di nativi e che noi stiamo usando la loro terra.” Questo è tutto , non voglio avere Tel Aviv o spingere fuori a calci gli Israeliani. Voglio solo che dicano di essere spiacenti per averci arrecato del danno. Mi basta questo.

La condizione per la riconciliazione è il diritto di ritorno ai luoghi dai quali sono stati cacciati?
Abbiamo costruito delle case perché alcuni potessero sistemarsi e non essere più rifugiati, ma hanno deciso di ritornare nei campi dei rifugiati perché si sentono più a proprio agio in quella comunità. Se domani si dicesse ai rifugiati che possono ritornare nei loro luoghi d’origine non più del dieci per cento lascerebbe la propria comunità per cambiare vita. C’è la paura che tutti possano ritornare, ma ciò non è realistico.

Recentemente sono state fatte delle indagini. Non so quanto siano accurate ed attendibili, ma secondo i dati raccolti risulterebbe che la maggior parte dei Palestinesi dei campi accetterebbe una sola soluzione: il ritorno, anche se ciò significasse diventare cittadini di Israele. Non vogliono stare in Siria o in Giordania, vogliono ritornare.
Devi distinguere tra desideri e realtà. Se qualcuno ti dice che vuole andare in Palestina, lascia che vada a fare una visita. Se troverà una comunità ebraica, non vorrà andarci più. Non abbiamo la mentalità dei coloni che vogliono insediarsi a Hebron. Se i Palestinesi non hanno una comunità, non esistono. Ho lavorato molto con i giovani palestinesi dei campi quando ero a Gerusalemme. Una volta diedi loro delle rose da piantare nei loro luoghi di origine. Circa il 60% non sapeva in quale parte di Israele fosse la casa del padre o del nonno. Perciò, emotivamente ognuno di loro ti avrebbe risposto che voleva andare, ma ciò sarebbe stato praticamente impossibile. I Palestinesi erano soprattutto agricoltori. Negli ultimi cinquant’anni non lo sono stati più. Pensi che vogliano ritornare a rimettersi a fare gli agricoltori? Non c’è alcuna comunità nella società israeliana nella quale essi possano andare per vivere.

Come tratteresti il problema della centralità di Gerusalemme con Israeliani e Palestinesi?
La città vecchia di Gerusalemme non dovrebbe essere governata né dagli Israeliani, né dai Palestinesi; ci dovrebbe essere un comitato interreligioso composto da cristiani, musulmani ed ebrei, con un presidente a rotazione per occuparsi degli aspetti religiosi. Credo che Arafat sia pronto a trattare la questione di Gerusalemme. I politici non dovrebbero interferire nella città storica, che non dovrebbe essere capitale né di Israele, né della Palestina, né dovrebbe essere sotto mandato internazionale delle Nazioni Unite, perché né Palestinesi, né Israeliani hanno fiducia nell’ONU. Perciò sarebbe un gran risultato di cooperazione se potessimo costituire un comitato di referenti dei gruppi religiosi, che si occupino degli aspetti religiosi del problema. I problemi attinenti agli scarichi, all’acqua e alla sicurezza dovrebbero invece essere trattati da Palestinesi e Israeliani.

Tu credi veramente che questo conflitto possa essere risolto?
Sì, penso che Arabi e Palestinesi debbano riconoscere il diritto di Israele e degli Ebrei ad essere qui; né gli uni né gli altri possono sentirsi superiori. Nessuno può chiamare l’altro “sporco ebreo” o “sporco arabo”, tutto questo deve scomparire. E possiamo fare in modo che ciò avvenga.
Dobbiamo superare la maggior parte dei tradizionali modi di sentire e pensare , secondo i quali “Dio ha dato a me questa terra”, oppure “Dio mi ha detto di fare questo e quello, o che tutto questo è mio” Le vecchie generazioni stanno scomparendo e avanzano le nuove. Dieci o quindici anni fa nessuno avrebbe detto che Israele avrebbe riconosciuto l’OLP; ciò è avvenuto ; ora dobbiamo fare il passo successivo, aprire le frontiere da entrambi i lati e dare alla gente la possibilità di scegliere.
Ho speranza che ciò avverrà.

(Traduzione di Angela Dogliotti Marasso)

12 maggio 2002
Marcia straordinaria Perugia-Assisi per la pace in Medio Oriente

Contro la guerra infinita, costruiamo la pace in Medio Oriente

APPELLO ALL’EUROPA: Chiediamo pace per Gerusalemme

Da quasi due anni, israeliani e palestinesi sono prigionieri di una terrificante spirale di odio e violenza. Ed ora è guerra aperta. Un impressionante fiume di sangue scorre sotto i nostri occhi alimentando rappresaglie e vendette. Il peggio che tutti dicevano di voler scongiurare è arrivato. Ma al peggio non c’è un limite. Lo deve porre la comunità internazionale, lo deve porre l’Europa, lo dobbiamo porre noi. E’ una nostra responsabilità.
Per questo abbiamo deciso di promuovere, domenica 12 maggio 2002, una edizione straordinaria della Marcia per la pace Perugia-Assisi.
Tutti sanno che senza un deciso intervento dei responsabili della politica internazionale sarà molto difficile spezzare la catena della morte. Per questo noi cittadini europei, consapevoli delle nostre responsabilità storiche, rivolgiamo un nuovo pressante appello all’Europa: “fermiamo la carneficina”.
Insieme al Segretario Generale dell’Onu chiediamo agli israeliani di mettere fine all’illegale occupazione dei territori palestinesi, all’assedio e al bombardamento delle aree civili, agli assassini, all’inutile uso della forza letale, alle demolizioni, agli arresti arbitrari e alle quotidiane umiliazioni dei palestinesi. Insieme al Segretario Generale dell’Onu chiediamo ai palestinesi di fermare tutti gli atti di terrorismo e gli attentati suicidi che colpiscono indiscriminatamente i civili e allontanano ogni possibile soluzione del conflitto. Ma gli appelli a Sharon e ad Arafat non bastano.
Noi chiediamo all’Europa e all’Onu d’intervenire subito in difesa dei più indifesi, della giustizia e della legalità internazionale. Noi chiediamo all’Europa e all’Onu di inviare una forza di interposizione capace di promuovere l’immediato cessate il fuoco e di assicurare la protezione delle popolazioni civili. Noi chiediamo all’Europa e all’Onu di assumere tutte le misure di pressione e sanzione diplomatica ed economica necessarie per bloccare l’escalation e riprendere la via del negoziato -anche tramite la convocazione di una nuova Conferenza Internazionale- per la costruzione di una pace giusta e duratura. Non è possibile separare la ricerca della sicurezza dalla soluzione dei problemi politici.
I traguardi definiti dalle stesse risoluzioni delle Nazioni Unite sono noti: fine dell’illegale occupazione israeliana del 1967, fine degli insediamenti, piano di “sicurezza comune” per entrambi i popoli, condivisione di Gerusalemme, costruzione dello Stato di Palestina, riconoscimento del diritto di Israele di vivere entro confini certi e sicuri, promozione del dialogo e della convivenza, dell’integrazione e dello sviluppo dell’intera regione.
Tutti sanno che la soluzione del problema sta nel riconoscere ad entrambi i popoli gli stessi diritti: due popoli, due Stati, la stessa dignità, gli stessi diritti, la stessa sicurezza. Chiunque non voglia accettare questa soluzione sceglie di mettersi contro la comunità internazionale e deve subire le sue sanzioni.
Esistono ancora dei valori, esistono dei principi e dei diritti. Sono i valori, i principi e i diritti sui quali diciamo di voler costruire la nostra Europa e un nuovo mondo. In nome di questi stessi valori, principi e diritti, noi chiediamo all’Europa di mettere in campo le migliori energie per porre fine a questa tragedia e per scongiurare lo scoppio di nuove guerre -come quella annunciata dagli Stati Uniti contro l’Iraq- che rischiano d’infiammare il Medio Oriente e il mondo intero.
Il terrorismo non si vince con le bombe. L’Europa riprenda in mano la bandiera delle Nazioni Unite, dei diritti umani, della giustizia e della legalità internazionale. L’Europa s’impegni a costruire nel Mediterraneo una comunità di pace, di sicurezza e di cooperazione alimentata da un dialogo interculturale basato sui diritti umani e sui principi democratici. Diciamo basta alla guerra e al bellicismo, alla violenza e al terrorismo. Assumiamoci le nostre responsabilità. E’ in gioco anche il nostro futuro. Dipende da noi.
In questo modo, domenica 12 maggio, intendiamo sostenere e incoraggiare tutte le donne, gli uomini e i gruppi che nella società israeliana e palestinese, riconoscendo le ragioni dell’altro, s’impegnano instancabilmente per la costruzione di una pace giusta e duratura. Dalle città di Aldo Capitini e di Francesco d’Assisi, dove solo due mesi fa su invito di Papa Giovanni Paolo II i rappresentanti delle principali religioni hanno sottoscritto uno straordinario “Impegno comune per la pace”, giunga loro il nostro abbraccio di solidarietà e la promessa: a giugno saremo con voi a Gerusalemme, in Israele e in Palestina, per dire insieme “Time for peace”.

Tavola della Pace

Di Fabio