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Azione nonviolenta – Maggio 2005

DiFabio

Feb 3, 2005

Azione nonviolenta maggio 2005

– Appunti, spunti e riflessioni sul Papa della Chiesa cattolica (di Mao Valpiana)
– Verità contro verità. Un viaggio in Israele-Palestina (Di Franco Perna)
– Morto un Papa (Karol Wojtyla)… Nunc dimittis (di Pietro Stefani)
– … Se ne fa un altro (Joseph Ratzinger)… E se Ratzinger avesse ragione? (di Alexander Langer)
– Il guerriero sconfitto dalla storia (di Marcello Veneziani)
– Una santificazione mediatica (di Lucio Garofalo)
– Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta: Il rifiuto dell’autorità (di Lev Tolstoj)

Rubriche
– MUSICA Per un’educazione musicale nonviolenta (di Paolo Predieri)
– ECONOMIA L’etica localistica della finanza padana (di Paolo Macina)
– PER ESEMPIO Un team internazionale per la pace nei Balcani (di Maria G. Di Rienzo)
– LILLIPUT Dopo 60 anni, mettiamo al bando le armi nucleari (di Massimiliano Pilati)
– CINEMA La violenza della guerra nelle missioni di pace (di Flavia Rizzi)
– EDUCAZIONE Bulli e vittime nella scuola di oggi (intervista ad Elena Buccoliero)
– LIBRI Politica, cultura, filosofia della nonviolenza attiva (a cura di Sergio Albesano)
– LETTERE La retorica patriottarda (di Giuseppe Ramadori) L’azienda scuola (di Lucio Garofano)
– MOVIMENTO Euromediterranea 2005. Verso il centro studi del Movimento Nonviolento

EDITORIALE
Appunti, spunti e riflessioni sul Papa della Chiesa cattolica

A cura di Mao Valpiana

Faccio una breve premessa. Probabilmente non necessaria, ma certamente non inutile. Azione nonviolenta è la rivista del Movimento Nonviolento, che è un’associazione culturale, politica, apartitica e aconfessionale. Ma pienamente immersa nella realtà viva dell’oggi, coinvolta nelle vicende del nostro tempo. Il Movimento Nonviolento è aperto a tutti, credenti di ogni fede e non credenti, e ricerca l’unità sul valore fondante della nonviolenza E dunque, pur se laico, anzi proprio perché laico, sinceramente interessato a capire, comprendere, discutere, ciò che si muove ed accade anche nel mondo religioso. Specialmente quando tali vicende investono questioni decisive per l’umanità intera.
Non c’è bisogno di essere credenti per riconoscere l’importanza storica del lungo e complesso pontificato di Giovanni Paolo II, del suo ruolo nelle vicende della Polonia e quindi del crollo dei regimi dell’Europa orientale, dell’apertura del dialogo ecumenico mondiale, dell’incontro fra cattolici ed ebrei, del ripetuto no alla guerra del Golfo e alla guerra in Iraq. Naturalmente, come per tutte le cose di questo mondo, ci sono luci ed ombre. Basti pensare al ruolo della chiesa nella vicenda lacerante della ex Yugoslavia. Molto è stato detto, a proposito e a sproposito, sul pontificato di Wojtyla, e molto si dirà ancora. Noi non abbiamo nessuna pretesa di compiere un’analisi approfondita, né questo è nostro compito. Semplicemente non vogliamo sottrarci a qualche riflessione che riteniamo utile, soprattutto dopo lo straripamento di parole e di immagini avvenuto prima, durante e dopo la morte del Papa Giovanni Paolo II “Il Grande”. E desideriamo anche essere attenti al magistero del nuovo Pontefice, per l’importanza che esso riveste per tutto il mondo cattolico, e non solo.
Lo facciamo con molto rispetto, con il necessario distacco, e nello spirito del dibattito che abbiamo avviato da tempo su “laicità e religiosità della nonviolenza”. L’invito a convertirsi alla nonviolenza riguarda tutti, credenti o agnostici, religiosi o atei, cattolici o razionalisti.
E’ con questo intento che pubblichiamo (a pagina 6) una riflessione di Pietro Stefani sulla morte e sul Testamento di Giovanni Paolo II. Indubbiamente, l’ultima parte del suo pontificato, con l’avanzare della malattia e della vecchiaia, ha messo in evidenza la “tensione e familiarità” di un Papa che tanti hanno sentito vicino. Come omaggio al nuovo Pontefice Benedetto XVI pubblichiamo (a pagina 8) un articolo di Alexander Langer che nel 1987 fece un’apertura (criticata da molti ma che condividemmo) verso l’allora Cardinale Ratzinger, sui temi della bioetica, ancor oggi, in vista del prossimo referendum, di straordinaria attualità. A seguire (pagine 10 e 11) diamo spazio a due opinioni divergenti su Papa Wojtyla: chi lo considera uno sconfitto in quanto profeta inascoltato, e chi critica l’operazione mediatica che ha santificato il papa-re.
Ci fa piacere che il Papa Joseph Ratzinger abbia specificato di aver scelto il nome Benedetto decimo-sesto proprio per sottolineare l’importanza primaria del lavoro per la pace, sia in omaggio allo spirito monacale di San Benedetto (“Cerca la pace, e seguila”), sia in ricordo di Benedetto XV (che cercò di fermare la prima guerra mondiale, “inutile strage”).
Il dibattito è aperto, ma proprio sulla base dell’esperienza concreta dell’insegnamento e dell’opera di Giovanni Paolo II, anche alla luce del Concilio Vaticano II e dei pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI, ci permettiamo di evidenziare alcune questioni aperte, sulle quali auspichiamo che il magistero di Benedetto XVI possa fare qualche passo in avanti.
1)Condannare sempre e comunque il ricorso alla guerra ed anche la sua preparazione; annunciare che non esiste guerra giusta, né guerra santa, né guerra legittima, e che il concetto stesso di guerra è fuori dalla cristianità.
2)Denunciare la fabbricazione, il possesso e l’uso di armi di sterminio di massa.
3)Chiedere a tutti i governi del mondo il riconoscimento dell’obiezione di coscienza verso la guerra, il servizio e le spese militari, invitando i cristiani a praticare l’obiezione.
4)Sciogliere l’ordinariato militare, abolire i cappellani militari, ritirare la partecipazione sacerdotale alle cerimonie militari, proibire la benedizione delle armi.
5)Indicare la nonviolenza evangelica, i suoi principi e i suoi metodi, come dottrina della Chiesa cattolica. Il comandamento “non uccidere” ha valore universale (no alla pena di morte, no alla guerra).
Tutto ciò senza derogare dal principio della laicità dello Stato, nè dall’idea cavouriana “libera Chiesa in libero Stato” che forse oggi dovrebbe essere aggiornata in “libere Chiese e libero Stato”, per la nonviolenza del XXI secolo. Auguriamo a Benedetto XVI un pontificato fecondo, per la pace universale.

“Verità contro Verità”
Un viaggio in Israele-Palestina

A cura di Franco Perna

Questa volta, forse sentitomi sfidato dalla domanda di un ufficiale israeliano l’anno scorso sul perchè delle mie visite “sempre nei territori”, ho deciso di passare buona parte della prima settimana del mio soggiorno, in Israele. Prima nel Kibbutz Shefayim, a nord di Tel Aviv, e poi nel Negev. Con l’aiuto di un mio amico ebreo è stato possibile visitare alcuni dei 45 villaggi beduini ‘non riconosciuti’ a sud di Beer Sheva. Villaggi privi di acqua corrente, luce ed altri servizi di base, appunto perchè ufficialmente non esistenti. In uno di questi le autorità israeliane hanno installato una centrale elettrica, una fabbrica di armi ed un inceneritore per le immondizie. Tali industrie causano un altissimo livello d’inquinamento e i malati di cancro aumentano paurosamente, con poca speranza di essere adeguatamente curati perchè ‘non esistenti’. Il mio accompagnatore israeliano non esitava ad affermare che la politica del suo governo mira a distruggere il tessuto socio-economico delle comunità beduine. Si possono sentire simili storie un po’ ovunque, basta essere attenti e ricettivi.
Nonostante certi elementi fondamentalisti nella società israeliana che fanno fronte comune soprattutto coi cristiani sionisti americani, pur non mantenendo stretti rapporti di amicizia con questi, ma accettando volentieri il loro sostegno economico, spesso si incontrano gruppi alternativi impegnati socialmente e politicamente per un cambiamento profondo e per una soluzione duratura del conflitto in corso. Tali gruppi – essenzialmente nonviolenti – se non riescono ad attirare l’attenzione dei media, i loro punti di vista riescono a circolare in ambienti sempre più vasti, grazie anche ad una miriade di bollettini, appelli, volantinaggi, slogans incollati sulle auto ed altre iniziative dal basso.
Naturalmente, come in altre società, le opinioni sono diverse. C’è chi vorrebbe due stati nettamente separati, chi una federazione e così via. Una cosa, però, è certa tra la gente che osa pensare con la propria testa, e cioè che l’occupazione militare al di là della linea verde del 1967 deve cessare, così come il muro che deve cadere, prima che negoziati seri, ad alto livello – tra eguali – possano iniziare.
Dei vari documenti che mi sono capitati tra le mani, vorrei indicarne uno, secondo me particolarmente significativo: “TRUTH against TRUTH – A completely different look at the Israeli-Palestinian conflict” (VERITA’ contro VERITA’ – Un approccio completamente diverso al conflitto israeliano-palestinese), pubblicato da Gush Shalom ( info@gush-shalom.org ). Il documento inizia con queste parole: “Gli arabi credevano che gli ebrei vennero piantati in Palestina dall’imperialismo occidentale, per poter soggiogare il mondo arabo. I sionisti, d’altra parte, erano convinti che la resistenza araba all’ impresa sionista fosse semplicemente la conseguenza della natura criminale degli arabi e dell’Islam. Il pubblico israeliano deve riconoscere che, nonostante tutti gli aspetti positivi dell’impresa sionista, un’ingiustizia terribile è stata inflitta al popolo palestinese. Ciò richiede una disponibilità ad ascoltare e capire la posizione dell’altro lato in questo conflitto storico, per poter congiungere le due esperienze nazionali e unificarle in una narrativa comune”.
La pubblicazione continua elencando 101 punti che, con le parole di Uri Avnery: “… demoliscono i miti, le menzogne convenzionali e le falsità storiche su cui si fondano gli argomenti della propaganda israeliana e palestinese. Le verità dei due lati sono intrecciate in una sola narrativa storica che rende giustizia ad entrambi. Senza questa base comune, la pace è impossibile”.
Consiglio vivamente la lettura integrale del testo, scaricandolo dal sito internet: http://www.gush-shalom.org/docs/Truth_Eng.pdf.

Dopo il soggiorno israeliano sono andato nel West Bank, trascorrendo circa una settimana con altri quaccheri, a Ramallah, in occasione della cerimonia di ri-apertura ufficiale della loro sede (semidistrutta durante le incursioni dell’esercito israeliano negli ultimi anni), che ora comprende il Centro internazionale quacchero. Un centinaio di rappresentanti di varie organizzazioni (che potranno utilizzare i locali per le loro iniziative comunitarie) hanno partecipato a questo importante evento. Gli Amici stranieri presenti – una quindicina – hanno approfittato del soggiorno per visitare anche altri luoghi e situazioni palestinesi dove i diritti umani vengono sistematicamente negati… senza parlare dell’orrendo muro di separazione/annessione che crea odio e tragedie. C’è ancora speranza nell’aria, anche se alcuni ‘realisti incalliti’ dicono che la situazione peggiorerà ancora, prima di migliorare.
Finalmente ho potuto trascorrere gli ultimi giorni alla ‘Tenda delle nazioni’, Nahalin/Betlemme, un progetto sostenuto da molti europei. Come l’anno scorso, ho lavorato la terra insieme ad altri volontari, piantando alberi e contribuendo a mantenere una permanenza continua… la cosa migliore che si possa fare per impedire ai coloni israeliani di confiscare oltre 100 ettari di terre per ingrandire i loro insediamenti, col pretesto che la terra è abbandonata. La Corte suprema israeliana deve ancora pronunciarsi su questa vicenda che dura da molti anni. Intanto si preparano campi di lavoro per quest’estate. C’è gran bisogno di soldi e di volontari. Ulteriori informazioni da: Daoud Nassar (inglese o tedesco), e-mail: tnations@p-ol.com.

* pernafran@tiscali.it

Una Carovana per la Palestina

Un grande ed ambizioso progetto, nato in Francia, è in preparazione in tutta l’Europa.
Una carovana costituita da più di 100 veicoli partirà da Strasburgo (sede del Parlamento europeo) e arriverà a Gerusalemme, passando attraverso grandi città,come Genova, Ancona, Patrasso, Atene, Tessalonica, Istambul, Ankara, Damasco, Amman….
I partecipanti saranno un “melting pot” di persone che credono nel potere delle relazioni e della solidarietà tra uomini. Siamo convinti che l’applicazione del diritto internazionale sia la chiave per risolvere il conflitto tra israeliani e palestinesi. Abbiamo deciso di lavorare solo secondo questa semplice e convenzionale domanda per dimenticare i nostri disaccordi sulla “questione palestinese”, e far sì che ciò si avveri per la società civile che sia unita e forte. Il progetto prevede di incontrare la popolazione, di attirare i media ed esercitare pressioni sui governi.

La Carovana inizierà a Strasburgo il 4 luglio, dove ci saranno varie manifestazioni che coinvolgeranno anche il Parlamento europeo. Si proseguirà per Ginevra con la speranza di coinvolgere le istituzioni dell’ONU (eventualmente gruppi di sostegno negli USA manifesteranno contemporaneamente davanti la sede dell’ONU a New York). Il 6 luglio si riparte per Milano, Parma e Bologna (con sosta). Il 7 sera si raggiungerà Ancona dove è previsto l’imbarco per la Grecia. L’itinerario continuerà poi per Atene, Salonicco, Istanbul, Ancara, Damasco e Amman.
L’ingresso in Palestina è previsto per il 19 luglio, via Allenby Bridge. In caso di problemi c’è l’alternativa del ponte Cheikh Hussein, passando dalla Galilea/Israele.

Si potrà partecipare alla Carovana anche solo in parte, a condizione di assumersi tutte le responsabilità anche finanziarie, soprattutto se la partecipazione coinvolge un proprio veicolo. Chi ha intenzione di andare fino in Palestina farebbe bene ad informarsi direttamente presso gli organizzatori francesi circa le modalità pratiche da seguire. Attualmente si sta lavorando per coinvolgere il più gran numero possibile di ONG, sindacati e enti locali.

Tappe previste : Giorno 1 : Strasburgo – Ginevra (5 luglio)
Giorno 2 : Ginevra – Bologna (6 luglio)
Giorno 3 : Bologna – Ancona – Patrasso (7 luglio)
Giorno 4 : Patrasso – Atene (8 luglio)
Giorno 5 : Atene (9 luglio)
Giorno 6 : Atene – Tessalonica (10 luglio)
Giorno 7 : Tessalonica – Bosforo (11 luglio)
Giorno 8 : Bosforo – Istanbul (12 luglio)
Giorno 9 : Istanbul – Ankara (13 luglio) Giorno 10 : Ankara – Cappadocia (14 luglio)
Giorno 11 : Cappadocia – Alep (15 luglio)
Giorno 12 : Alep – Damasco (16 luglio)
Giorno 13 : Damasco – Amman (17 luglio)
Giorno 15 : Amman – Allenby Bridge  – Gerusalemme (19 luglio)

sito : http://caravane.palestine.free.fr
e-mail: caravane.palestine@free.fr

Morto un Papa (Karol Wojtyla)….
Nunc dimittis

Il vecchio Simeone attendeva. Tutta la sua grandezza spirituale stava nella capacità di aspettare anche da vecchio. Non era in attesa della morte. Il suo orizzonte non si era ristretto sempre più alla propria persona come spesso, dolorosamente, avviene alle persone molto anziane. L’oggetto della sua speranza era la consolazione di Gerusalemme (Lc 2,25; cfr. Is 40,1). La forza che rendeva il suo animo aperto al futuro era la promessa dello Spirito, secondo la quale non sarebbe morto prima di aver veduto il Messia: di vederlo non già di celebrare la pienezza dei suoi giorni. Simeone è come Mosè che scorge la terra promessa ma non vi entra (Dt 34,4). Tutto in lui però ugualmente si compie, in quanto nel suo congedarsi Simeone indica nel bambino il Messia e ne profetizza l’azione (Lc 2,34-35). La sua missione sta nell’additare l’avvenire, quello che ancora non c’è ma che lui vive come se fosse già presente. Per questo può congedarsi in pace dalla vita (Lc 2,29-32).

Nella pietà cristiana il breve cantico di Simeone (il Nunc dimittis) è stato reinterpretato soprattutto come espressione della disponibilità individuale di accogliere con serenità la morte in conformità alla volontà di Dio. In modo più specifico esso suggella un’accettazione contraddistinta dal senso di aver compiuto quanto ci era stato richiesto di fare: «Ho portato a termine il compito che mi hai affidato, ora puoi congedarmi e questo transito verrà per me all’insegna della pace». Tuttavia, come afferma un grande detto rabbinico, non sta a te completare l’opera ma non per questo sei autorizzato a esimertene (Pirqè Avot II,21). Tutti alla fine della loro esistenza dovrebbero riconoscersi «servi inutili» non all’altezza di quanto è stato loro richiesto. Per un credente la completezza sta sempre nell’avvenire.

Nel corso della più classica pratica cattolica di riflessione sulla morte, gli esercizi spirituali, Giovanni Paolo II, nel lungo periodo che va dal 1979 al 2000, ha scritto e integrato il proprio testamento. Per una valutazione del suo pontificato i passi decisivi sono quelli vergati nell’anno giubilare. È in essi che ci si richiama al Nunc dimittis. Quelle aggiunte, aperte alla storia universale, sono dominate da una enorme presenza: la Polonia. La speranza del «biblico Simeone» è ebraica, quella di papa Wojtyla è polacca fin dalle sue intime fibre. La successione del paragrafo parla di per sé. Essa è dominata dall’ombra di una figura divenuta voce imperativa: il card. Stefan Wyszynski, il primate del Millennio. Il giorno della nomina del suo più giovane conterraneo, gli disse: «il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio». Quando si evoca la parola Millennio, lo si espliciti o no, occorre aver sempre in mente che esso va completato con un genitivo: «della redenzione». Ciò esige che la salvezza, già avvenuta, lasci solchi visibili in una storia misurabile secondo la scansione degli anni, dei secoli e dei millenni. A essa è applicabile quanto si dice a proposito del cavallo bianco dell’Apocalisse «egli uscì vittorioso per vincere ancora» (Ap 6,2). «La vittoria» però «quando verrà sarà una vittoria mediante Maria», parole del predecessore di Wyszynski, card. August Hlond.

La frase del «primate del Millennio» è stata assunta come una chiamata. L’enfasi simmetrica posta da Giovanni Paolo II sul Grande Giubileo della redenzione (la cui preparazione è da ritenersi, secondo le parole dello stesso papa, chiave ermeneutica per comprendere il suo pontificato) e sull’intervento diretto della Provvidenza grazie al quale il piombo dell’attentatore non ebbe esiti fatali, si spiega su questo sfondo. Qui la cronologia va presa sul serio: se Giovanni Paolo II fosse morto nel 1981 non gli sarebbe stato possibile giungere al 2000, vale a dire egli non avrebbe potuto portare a termine la propria missione. «A misura che l’Anno Giubilare 2000 va avanti, di giorno in giorno si chiude dietro di noi il secolo ventesimo e si apre il secolo ventunesimo. Secondo i disegni della Provvidenza mi è stato dato di vivere nel difficile secolo che se ne sta andando nel passato, e ora nell’anno in cui l’età della mia vita giunge agli ottanta (“octogesima adveniens”), bisogna domandarsi se non sia il tempo di ripetere con il biblico Simeone “Nunc dimittis”». Mai prima del duemila il papa avrebbe potuto scrivere: «Nunc dimittis». Questa impossibilità implica che quanto da lui atteso era un tempo, non un evento (come fu per Simeone); da qui l’inaudita importanza assegnata all’atto di contare gli anni, i secoli e i millenni.

Eppure nella storia deve pur avvenire qualcosa che giustifichi il prepararsi a una «plenitudo temporis»: «Dall’autunno dell’anno 1989 questa situazione è cambiata. L’ultimo decennio del secolo passato è stato libero dalle precedenti tensioni; ciò non significa che non abbia portato con sé nuovi problemi e difficoltà. In modo particolare sia lode alla Provvidenza Divina per questo, che il periodo della così detta “guerra fredda”” è finito senza il violento conflitto nucleare, di cui pesava sul mondo il pericolo nel periodo precedente». Negli anni novanta vi era già stata la guerra del Golfo e quelle della ex Yugoslavia (con la correlata giustificazione papale dell’«ingerenza umanitaria») per tacere della Cecenia e di molto altro che stava avvenendo nell’area ex-sovietica. Già allora si vedeva come la caduta dell’equilibrio del terrore avrebbe portato al proliferare di guerre locali. Tuttavia la prima parte del testamento è fosca nella descrizione degli anni ottanta, mentre quella posta alle soglie del Terzo Millennio è percorsa dalla volontà di vedere all’opera nella storia la presenza della vittoria di Maria: la caduta dei regimi comunisti.

Non ci sono aggiunte ulteriori. Negli esercizi spirituali della quaresima del 2002 nulla è stato scritto. In effetti se il secolo XXI si apre con l’11 settembre del 2001 il Grande Giubileo passa in secondo piano. Il Nunc dimittis scritto nel marzo del 2000 segna la cessazione del progetto storico-spirituale di Giovanni Paolo II. Non a caso egli affida ormai al suo successore un altro compito, quello pastorale di applicare i dettami conciliari: «Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo». L’incompiuto è percepito presente all’interno della vita della Chiesa. Dopo il 2000 è stata la storia a portare il papa al centro della ribalta mondiale, soprattutto nei mesi che vanno dall’autunno del 2001 alle primavera del 2002. Era la stagione di un kairòs in cui si poteva convocare in unità le chiese cristiane nel segno della pace. Quel tempo opportuno non è stato colto. Da allora in poi la missione di Giovanni Paolo II sarebbe stata sempre più contraddistinta dalla passività del patire e del morire: nell’ambito della vita spirituale le realtà più drammatiche e grandi dell’esistenza umana.

Piero Stefani

Il Testamento

“Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia Card. Stefan Wyszynski mi disse: “Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio”. Non so se ripeto esattamente la frase, ma almeno tale era il senso di ciò che allora sentii. (…)   In questo modo sono stato in qualche maniera preparato al compito che il giorno 16 ottobre 1978 si è presentato davanti a me. Nel momento in cui scrivo queste parole, l’Anno giubilare del 2000 è già una realtà in atto. (…)
A misura che l’Anno Giubilare 2000 va avanti, di giorno in giorno si chiude dietro di noi il secolo ventesimo e si apre il secolo ventunesimo. Secondo i disegni della Provvidenza mi è stato dato di vivere nel difficile secolo che se ne sta andando nel passato, e ora nell’anno in cui l’età della mia vita giunge agli anni ottanta (“octogesima adveniens”), bisogna domandarsi se non sia il tempo di ripetere con il biblico Simeone “Nunc dimittis”.
Nel giorno del 13 maggio 1981, il giorno dell’attentato al Papa durante l’udienza generale in Piazza San Pietro, la Divina Provvidenza mi ha salvato in modo miracoloso dalla morte. Colui che è unico Signore della vita e della morte Lui stesso mi ha prolungato questa vita, in un certo modo me l’ha donata di nuovo. Da questo momento essa ancora di più appartiene a Lui. Spero che Egli mi aiuterà a riconoscere fino a quando devo continuare questo servizio, al quale mi ha chiamato nel giorno 16 ottobre 1978. Gli chiedo di volermi richiamare quando Egli stesso vorrà. “Nella vita e nella morte apparteniamo al Signore… siamo del Signore” (cf. Rm 14, 8). Spero anche che fino a quando mi sarà donato di compiere il servizio Petrino nella Chiesa, la Misericordia di Dio voglia prestarmi le forze necessarie per questo servizio.

… se ne fa un altro (Joseph Ratzinger)
… E se Ratzinger avesse qualche ragione?

Approfitto dell’ospitalità del “manifesto” per tornare un attimo, nel modo più sereno possibile, sul discorso della manipolazione genetica e dell’ormai famoso ma evidentemente poco letto “documento Ratzinger” firmato da 22 persone dell’area verde ed ecologista, tra cui anche alcune donne (tre). Io sono uno dei firmatari non l’estensore di quel testo che tanto scalpore e tante discussioni ha suscitato tra verdi, donne, cattolici, laici ed altri ancora, ed intendo proseguire o aprire un dialogo. Purtroppo quel documento in pochi giorni, ed a causa anche dei meccanismi un po’ brutalizzanti con cui i mass-media trattano le faccende complicate e serie, è stato semplificato e stravolto sino a renderne irriconoscibile il contenuto. “I verdi con Ratzinger”, “il maschio verde” e magari in tonaca, ah dove portano i discorsi sulla conservazione, finirà tutto nell’abbraccio tra fascisti, curia vaticana ed oscurantisti verdi (maschi), avevamo capito che chi era antiabortista poi doveva finire lì (ma c’è qualcuno che si sente abortista? non posso crederlo), le donne espropriate di nuovo e questa volta dai verdi… e cosi via distorcendo. Perché non lasciate queste cose alle donne? Perché non vi alleate con la chiesa progressista e della liberazione piuttosto che col Sant’Uffizio e con il “movimento per la vita”? Cosi ci si domanda, ed intanto i conti e gli schieramenti tornano ed il “verde-Ratzinger” è diventata una nuova etichetta per sistemare quelli che sono sospettati di non essere abbastanza a sinistra, abbastanza “femministi”, abbastanza libertari ed abbastanza progressisti.
Sono un po’ strabiliato per come di un discorso si voglia cogliere solo il significato simbolico o presunto tale, e non la sua lettera e sostanza. Nel documento contestato, predisposto da alcuni verdi fiorentini che da tempo si dimostrano sensibili all’interazione con la cultura cattolica e talvolta accusati da qualcuno di essere un po’ “pre-moderni”, si dicevano essenzialmente tre cose:
1. soddisfazione per l’Istruzione vaticana (Ratzinger) sulla bioetica, in quanto rifiuta ogni forma di manipolazione genetica (perché di questa si parla!) e riafferma il primato dell’etica sulla scienza e le sue applicazioni;
2. l’auspicio che la sensibilità della chiesa cattolica ufficiale in tema di manipolazione genetica umana si estenda anche a piante ed animali;
3. l’invito alle istituzioni scientifiche e sanitarie cattoliche di farsi pionieri di questi principi e di tradurli nella propria pratica (compreso l’invito a non ricorrere alla vivisezione di animali).
Appiattimento sulla linea di Ratzinger? Subalternità alla cultura cattolica in tema di sessualità, di rispetto della vita, di difesa di alcuni confini da non varcare a cuor leggero?
Può darsi che avremmo potuto precisare meglio i contorni ed i limiti del nostro “plauso” a Ratzinger, e sicuramente il documento avrebbe guadagnato se fosse stato messo più largamente in discussione tra donne e uomini competenti e sensibili, di quanto non sia avvenuto. Forse avremmo anche potuto sottolineare meglio che la nostra presa di posizione non intendeva esprimersi (e non si è espressa, infatti) sui complessi problemi della fertilizzazione artificiale e delle tecnologie della riproduzione umana più o meno assistita problemi sui quali davvero le donne sono irrinunciabili titolari di una parola autorevole e decisiva. Può darsi anche che si sarebbe potuta cogliere l’occasione per esprimere la propria distanza dalla tradizionale morale sessuale della chiesa così piena di casistiche e di divieti (nell’Istruzione vaticana questo spirito permea soprattutto il discorso sulla fecondazione artificiale e le altre tecniche di trasmissione della vita umana). Su questi e tanti altri aspetti non mi troverei in disaccordo con tante delle cose che Rossana Rossanda o altre donne hanno fatto notare in discussioni, articoli o prese di posizione.
Personalmente posso anche aggiungere che mi trovo in radicale dissenso sul paragone usato dal Papa tra sterminio nazista e aborto: non si può costruire un parallelo tra la drammatica e spesso solitaria scelta di autodifesa (vera o putativa) che compie una donna che decide di abortire e tra il sistematico e scientifico apparato teorico e pratico che i nazisti hanno messo a punto per far funzionare la loro gigantesca macchina di morte. Sono rimasto turbato ed amareggiato da quelle parole di Papa Wojtyla che davvero non mi sono sembrate misericordiose. Ma anche per chi, come me, era e resta favorevole alla depenalizzazione ed alla destatalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, non è possibile non definire spaventoso il numero di aborti praticati e cercarvi rimedi, e non riconoscere un dovere etico di prevenire ed evitare la scelta dell’aborto, come tante altre scelte contrarie alla vita senza per questo criminalizzare alcuno, e men che meno le donne, che già pagano un prezzo assai alto e spesso non condiviso da nessun uomo a questa estrema scelta. Francamente, in ciò mi credevo e mi credo in sintonia con quanto la maggior parte delle donne ed i loro movimenti pensano ed hanno ripetutamente espresso proprio negli anni in cui è stata ottenuta la (parziale) depenalizzazione legislativa dell’aborto ed è stato sempre ribadito che ciò non significava certamente accettazione dell’interruzione di gravidanza come valore positivo o come scelta eticamente indifferente. Nel caso della manipolazione genetica siamo alle soglie di (e probabilmente già oltre) una pericolosissima e forse irreversibile violazione di equilibri naturali e biologici. Paragonabile, mi sembra, a quella della bomba atomica, e forse oltre. L’idea della illimitata “perfettibilità” tecnologica delle specie viventi, quella umana compresa, e dell’emergere di un nuovo e spaventoso potere di predeterminazione e di costruzione artificiale di esseri viventi su misura dei desideri dei committenti (industriali, militari, politici…) è oggi assai vicina alla sua concreta realizzazione su scala prima sperimentale e poi industriale. Se vogliamo come credo si debba volere fermare la violazione inconsulta di quella soglia, ed è anche un problema di democrazia! e contrastare un’avanzata ormai pressante di potenti nuovi padroni del “bios”, della vita, bisognerà unire tutte le forze che vogliono e possono perseguire quest’obiettivo. La Chiesa cattolica e la sua gerarchia può avere certamente non da sola, e non unica un peso determinante o comunque molto forte in proposito: la sua (non certamente esclusiva) sensibilità sui temi di difesa della vita, e la sua capacità di incidere su milioni e milioni di coscienze e su molte istituzioni sono un patrimonio ineguagliabile in questa battaglia, da molti ancora non intuita o non capita. Bisogna starne alla larga o comunque chiudere gli occhi e turarsi il naso perché la Chiesa conta nel suo “attivo” anche secoli e secoli di oppressioni esercitate in proprio o delegate a vari bracci temporali, sulle persone e sulle coscienze, ed in particolare contro le donne? Non credo, e per quanto anch’io sarei felice se certi segni di pentimento e di “conversione” venissero dalla Chiesa (come da tutti noi: dalla sinistra, dai maschi, dai bianchi, e da chiunque abbia qualcosa di cui pentirsi e rispetto a cui cambiare strada), non me la sento di rifiutare o di non cercare momenti comuni di dialogo e di impegno tra chi si trova unito su obiettivi importanti e condivisi. Quando il Papa si pronuncia contro la bomba atomica e, più recentemente, ammonisce sui pericoli della scelta nucleare civile, o quando invoca il disarmo, ciò può essere salutato positivamente anche da chi come il sottoscritto non condivide il suo viaggio in Cile o trova negativa la sua opera “normalizzatrice” nei confronti dei fermenti post-conciliari o ritiene sbagliata la scelta della canonizzazione di Edith Stein, inevitabilmente funzionale ad una sorta di riconquista cattolica di Auschwitz. Altrettanto vale per tutti gli altri: anche con Gorbaciov, con i sandinisti, con Craxi, con Pannella o con la Rossanda si può essere qualche volta d’accordo e qualche volta magari no. Peccato che sulla questione della lotta contro la manipolazione genetica la presa di distanze dai “verdi amici di Ratzinger” abbia offuscato talvolta la vera posta in gioco. Forse si poteva (ma si può ancora, credo) partire da quel discorso oltre che per approfondirlo, criticarlo ed arricchirlo per chiedere ai ministri (democristiani) dell’agricoltura, della sanità e della ricerca scientifica se davvero permetteranno che nel meridione italiano (zona Catania) si possano eseguire esperimenti in campo aperto di nuovi micro-organismi creati in laboratorio finora vietati negli Stati Uniti. Forse a questo proposito Ratzinger potrebbe darci una mano… se magari lo convince l’invito che gli abbiamo rivolto, cioè di estendere il rifiuto della manipolazione genetica anche agli animali ed alle piante. Speriamo che non preferisca parlar d’altro anche lui.

Alexander Langer
7 maggio 1987

Il guerriero sconfitto dalla storia

Tutti vi parlano e più vi parleranno del Grande Papa e della Grande Impronta che ha lasciato sul mondo e sulla storia del nostro tempo. Tutti vi raccontano e vi racconteranno le sue grandi imprese, i suoi viaggi trionfali nel mondo, le folle osannanti e plaudenti, il suo pontificato lunghissimo e larghissimo, nel tempo e nello spazio. Io vi parlerò invece delle sue sconfitte, e delle sue imprese fallite, della sua maestosa solitudine, del suo pontificato difficile e sofferto.
Questo Papa ha fronteggiato la crisi più radicale che possa abbattersi su un Santo Padre: la scristianizzazione del mondo, a cominciare dall’Occidente. Ha navigato in un mondo e in un tempo in cui Dio si è ritirato, e la cristianità è stata presa a morsi e rimorsi, dal cinismo imperante, dal nichilismo e dall’ateismo pratico, e dal fanatismo islamico. A tutti i Papi era accaduto di fronteggiare nemici pagani e musulmani, eretici e satanici, miscredenti e carogne, a volte anche interne alla Chiesa. Ma non era mai accaduto di dover fronteggiare oltre i suddetti, anche uno spiegamento così profondo, così esteso, d’indifferenza, irrisione e ironia verso la fede cristiana. A Giovanni Paolo II questo è accaduto. La sua lotta da Papa contro l’Allegra Disperazione dell’Occidente è durata 27 anni ed è stata coronata da un magnifico insuccesso. E’ stato il Papa dell’Europa che si unisce e tramonta.
L’insuccesso più vistoso e più superficiale ha riguardato la pace. I suoi appelli, per definizione dei media “accorati”, non sono mai stati accolti, le guerre hanno continuato con i loro massacri, in ogni parte del mondo, a causa di amici e nemici della cristianità, oltre i semplici conoscenti. I suoi appelli rivolti agli europei di ricordare nell’atto costitutivo le radici cristiane dell’Europa sono caduti vergognosamente nel vuoto. Duemila anni di storia europea, di civiltà, di mentalità e di usi, cultura e costume, sono stati ritenuti irrilevanti. L’Europa è nata così da un parricidio.
Il suo costante appello in difesa della famiglia, contro l’aborto e la disgregazione, per la natalità d’Occidente, in difesa delle famiglie con padre, madre e figli contro le unioni omosessuali, per la dignità della donna contro la mercificazione del sesso e la liberazione sessuale, sono caduti tutti in un increscioso e sterminato oblio, appena interrotto da sorrisini di compatimento, ironie più o meno feroci, con aria di sufficienza. La difesa dei valori religiosi, del senso della vita e della morte, del dolore e della fede, della tradizione cattolica e dell’ispirazione cristiana, si sono inabissate nell’indaffarata indifferenza dei contemporanei, nel deserto che cresce, nell’edonismo più ottuso e diffuso. E’ duro il mestiere di Papa in queste condizioni.
Le sue encicliche sulla solidarietà, i suoi appelli alla generosità verso i poveri, all’economia sociale e al senso comunitario si sono scontrati con un sordido egoismo e individualismo mercantile, la volontà di potenza, il desiderio sfrenato di profitto e di possesso. E poi il dialogo interreligioso che il Papa ha avviato con cocciuta ostinazione e santa pazienza, è stato tragicamente spezzato dai fanatici dell’Islam, da orde di integralisti e fondamentalisti, anche occidentali. Quanti appelli del Papa a fermare la violenza, a non uccidere, a non decapitare, a non ammazzare, a non praticare la pena di morte, la tortura e la persecuzione, sono risuonati nel vuoto dei mass media come vane litanie, esercizi di pura e astratta precettistica?
No, signori, il Papa che salutiamo per l’ultima volta non esce trionfante dal mondo, come voi lo descrivete. Esce sconfitto, umiliato, disatteso; amatissimo e popolarissimo, certamente, ma non per questo ascoltato. Un fragoroso silenzio ha accompagnato la sua missione pastorale. Tanto è clamoroso il chiasso intorno alla sua figura quanto è sconfortante il mutismo intorno ai suoi principi. Mai un Papa ha parlato così tanto e a così tanta gente e mai è stato così inascoltato. Il pensiero debole del relativismo etico dispone di poteri forti; il pensiero forte di Papa Woytila ha avuto invece dalla sua poteri fragili e sommessi.
Dovremmo allora concludere che il suo papato si conclude con un maestoso fallimento? No, il contrario. Sappiamo quanto ha contato il Papa nella storia del secolo, anzi del millennio, quanto ha pesato nella caduta del comunismo, nella nascita dell’Europa, nell’incontro dei popoli, nel vigore del messaggio cristiano, nel passaggio di millennio. Sappiamo che la sua impronta storica e mediatica è stata potente, ma la sua impronta pastorale e religiosa è stata impotente.
Giovanni Paolo II è stato un Vinto, come Gesù Cristo. E tutto questo non induce ad un bilancio amaro e fallimentare. Per il Vicario di Cristo in terra, la sconfitta di Dio sul campo della storia è una vittoria nei cuori e in eterno, per chi crede. Il Papa ha perso, ma la sua non è una sconfitta infruttuosa: darà frutti. In terra e in Cielo.
E intanto il mondo ha perso il padre.

Marcello Veneziani

Una santificazione mediatica

Di fronte ad un’imponente campagna di esaltazione e santificazione mediatica condotta su scala planetaria, confesso di essermi sentito profondamente a disagio, nella misura in cui ho avvertito una scarsissima considerazione verso chiunque fosse non credente, ateo, agnostico, oppure ebreo, musulmano, o comunque non cattolico, quasi fossimo andati a ritroso nel tempo fino a precipitare nuovamente nell’epoca dello Stato pontificio e del potere temporale dei papi. In nome del papa-re.
Pertanto, da buon eretico oso sfidare l’ira nazional-popolare, procedendo controcorrente e provando, se possibile, ad esprimere un punto di vista nettamente discorde rispetto al clima di conformismo neoguelfo e filoclericale che si è diffuso negli ultimi giorni a livello mediatico.
In effetti, un papa che si è rivelato sin dall’inizio del suo pontificato estremamente abile nell’usare la forza persuasiva dei mass-media, si è confermato tale anche al momento della sua morte, quando gli è stata tributata una vera apoteosi. Abbiamo assistito ad un’orgia di ipocrisia mediatica, ad un incessante bombardamento apologetico teso ad osannare la figura del papa, censurando ogni intento di analisi storica serena, lucida, razionale, libera e sincera. In un simile contesto di fanatismo celebrativo è parso difficilissimo, se non impossibile formulare un qualsiasi giudizio critico.
Certo, è superfluo precisare che tutti noi abbiamo nutrito un senso di rispetto e commozione nei confronti della morte (dignitosa) di una persona che ha rivestito un ruolo determinante negli ultimi 27 anni di storia. Occorre riconoscere i meriti di Wojtyla, il quale si è dimostrato uno strenuo paladino della pace universale, soprattutto in tempi avversi come il 1991, durante la prima guerra nel Golfo persico, quando le parole del papa si imposero come l’unica voce contraria a quella sporca guerra, e quando non era ancora sorto quel vasto movimento pacifista che oggi conosciamo e che si è affermato a livello globale. Non dimentichiamo che il ’91 fu l’anno in cui, dopo la caduta del muro di Berlino e dei regimi autoritari e burocratico-oppressivi dell’Est europeo, prese il sopravvento il cosiddetto “nuovo ordine mondiale” retto sulla superpotenza statunitense governata da Bush padre, e fu consacrato il dogma neoliberista del “pensiero unico”.
Il papa è stato un tenace promotore della pace, della fratellanza e dell’ecumenismo tra i popoli e le grandi religioni monoteiste: l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam, l’induismo, il buddismo.
E’ indubbio che il pontificato di Giovanni Paolo II è stato segnato da eventi mediatici di portata globale, come il succitato crollo del “socialismo reale”, alla cui causa diede un notevole contributo politico-ideologico proprio Wojtyla, che non ha risparmiato aspre critiche nemmeno all’economia neoliberista, ovvero al cinismo spietato, disumano ed affaristico del capitalismo selvaggio.
Nondimeno, un bilancio onesto ed obiettivo sul pontificato quasi trentennale di Wojtyla, non può ignorare il carattere ambiguo e controverso che emerge dall’opera e dalla figura di tale papa. Un papa le cui voce è stata ascoltata soprattutto dagli umili, molto meno (quasi per nulla) dai potenti che oggi piangono lacrime di coccodrillo. Un papa che non ha esitato un attimo a stringere la mano ad un dittatore sanguinario come Pinochet, durante la sua famosa visita in Cile nel 1988; un papa che ha condannato la “Teologia della Liberazione” e la Rivoluzione Sandinista in Nicaragua. Un papa che ha cercato di coprire le gravi responsabilità vaticane nello scandalo del Banco ambrosiano, a cominciare da quelle del potente cardinale Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana. Insomma, Wojtyla è stato un vero monarca, assolutista ed illuminato insieme. Un monarca il cui regno ultraventennale è stato scandito da elementi contraddittori. Infatti, sul versante della politica estera l’opera del papa è stata sovente ispirata da ideali autenticamente evangelici, è stata guidata da ragioni nobili e progressiste, da principi di civiltà, libertà e di emancipazione dei popoli. Invece, sul fronte interno alla chiesa cattolica, l’azione del pontefice ha espresso monarchicamente (ossia verticisticamente e dogmaticamente) posizioni di conservazione e restaurazione integralista, di oscurantismo medioevale, soprattutto nel campo degli inalienabili diritti al divorzio e all’aborto, in materia di sessualità e di comportamenti che oggi sono diventate abitudini largamente assunte dalla coscienza occidentale, che è comune a milioni di uomini e donne, anche di fede cattolica.
Non si può negare che su tali temi l’atteggiamento della chiesa governata da Wojtyla è stato palesemente retrivo, misoneista, omofobico e sessuofobico, assolutamente cieco ed incapace di adeguarsi alla realtà secolare dei costumi odierni.

Lucio Garofalo

Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta
Il rifiuto dell’autorità

Proseguiamo il percorso attraverso le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta, iniziato nel numero di gennaio-febbraio, e che ci accompagnerà fino a dicembre. Questo mese, per la riflessione sul quarto carattere, ci affidiamo a Lev Tolstoj (1828 – 1910), il grande scrittore russo, pacifista e nonviolento, che Gandhi considerò suo maestro.
Pubblichiamo due brevi stralci tratti dai saggi filosofici tolstojani scritti negli ultimi anni di vita dell’Autore. Sono spunti per invitare ad un approfondimento. Tolstoj è solo apparentemente semplice, per cogliere tutta la forza segreta dei suoi messaggi occorre meditarli e assimilarli poco a poco.

Le Leggi

(…) La causa della miseria che affligge i lavoratori è la loro schiavitù. La causa della schiavitù sono le leggi. E ciò che permette l’esistenza delle leggi è la violenza. Ne consegue che per migliorare la condizione umana bisogna eliminare l’organizzazione della violenza. Questa però non si identifica in altri che nel governo. “Si può forse fare a meno del governo? Senza governo regnerebbe il caos e l’anarchia, si rovinerebbero le conquiste della civiltà, il genere umano riprecipiterebbe nella più cupa barbarie. Provate un po’ ad abolire l’ordine e vedrete!”, dicono non solo coloro che da questo ordine traggono vantaggio, ma anche quelli che lo subiscono e che sono ormai tanto avvezzi a subire, da non sapersi più immaginare un’altra possibile esistenza.
L’abolizione del governo comporterebbe tutta una serie di disastri, dicono: eccessi di tutti i tipi, furti, omicidi, e non ne seguirebbe altro che un dominio dei peggiori elementi sui migliori. Ma, tutto ciò si è verificato e continua a verificarsi anche con i governi, e il timore di eventuali mali futuri non dimostra certo la bontà o la legittimità dello stato di cose presente.
Provate soltanto a eliminare l’ordine, dicono, e vedrete che mali ci cadono addosso!
Così, se si muove un mattone alla base di un mucchio troppo stretto e troppo alto, tipo colonna, certo franeranno e si romperanno tutti quelli sopra, ma questo non dimostra affatto che avesse un senso accatastarli in quel modo! Anzi, si comprenderà casomai la maggior ragionevolezza di costruzioni più orizzontali. (…)
Ma in che modo abolire i governi? I metodi violenti han sempre ottenuto cambiamenti di governi, mai l’abolizione degli stessi. E i governi nuovi si sono spesso dimostrati ancora più crudeli dei vecchi. (…)
Per cambiare veramente qualcosa, ognuno dovrebbe cominciare col cambiare se stesso, invece di voler ammaestrare o forzare gli altri. Come? Rifiutandosi di prendere parte a tutto ciò che tiene in piedi i governi e quindi le leggi e il dominio d’un uomo sull’altro. Rifiutandosi prima di tutto di occupare cariche, di vestire uniformi, di educare per conto dello stato. Rifiutandosi di pagare tasse dirette e indirette e rifiutandosi di riscuoterle sotto forma di stipendi o pensioni varie. Rifiutando la protezione offerta dallo stato. Possedendo soltanto ciò che nessun altro rivendica per sé. (…)

(Tratto dai capitoli 13, 14, 15 de “La schiavitù moderna”, 1900)

Come ruinare l’autorità

(…) Mi sembra che nel momento attuale, soprattutto importa di fare il bene con tranquillità e costanza. Non solamente non bisogna domandare al Governo alcuna autorizzazione, ma è anche essenziale il respingere ogni suo intervento. La forza del Governo risiede nell’ignoranza del popolo ed il Governo lo sa; così egli sarà sempre un avversario dell’istruzione. E’ ora che lo riconosciamo. Nulla di più nocevole che permettere al Governo di darsi l’aria di promuovere l’istruzione, mentre in realtà non fa che propagare l’ignoranza. E’, infatti, ciò che fanno tutte le istituzioni che si dicono destinate all’istruzione e sono collocate sotto il controllo del Governo: scuole, collegi, università, accademie, i diversi comitati, i vari congressi. Il bene non è il bene e l’istruzione non è l’istruzione che ad una condizione sola: essere il bene e l’istruzione complete senza che siano necessariamente conformi alle circolari ministeriali.
Ma ciò che io deploro soprattutto è di vedere delle forze così preziose, così disinteressate, così devote, disperdersi in così scarso frutto. Io rido talvolta allo spettacolo di quegli uomini che buoni e intelligenti recano la loro energia a lottare contro il Governo sul terreno legale che l’arbitrio del potere ha esso stesso creato. (…)
Io penso che accadrebbe diversamente se questi uomini onesti e illuminati non dispensassero tutta la loro energia a ingannare il governo nel seno di istituzioni da lui create, se essi non volessero forzarlo ad agire a proprio detrimento ed a causare la sua propria perdita (1). Il risultato sarebbe diverso se essi si limitassero a difendere i loro diritti personali, i loro diritti di uomini, senza partecipare mai né al Governo, né agli atti che da lui sono emanati.
“Voi volete sostituire i giudici di pace coi “zemski natchalniki” armati di verghe! – E’ affar vostro, ma noi non saremo né giudici, né avvocati, né giurati. Voi volete, col pretesto dello stato d’assedio, sopprimere ogni diritto? – E’ affar vostro, ma noi chiameremo pubblicamente lo stato d’assedio una illegalità e noi proclameremo che le esecuzioni capitali senza giudizio sono degli assassinii. Voi volete istituire dei licei d’istruzione classica dove saranno fatti degli esercizi militari ed un insegnamento religioso? – Ma noi non faremo i professori in queste scuole; noi non vi manderemo i nostri figli che noi alleveremo come crederemo meglio. Voi volete proibire di pubblicare ciò che vi dispiace? – Voi potrete arrestare gli scrittori, bruciare gli scritti, punire i tipografi, ma voi non potrete impedirci di pensare, parlare e scrivere, e noi continueremo a farlo. Voi ordinate di prestare giuramento allo Zar? – Ma noi non lo faremo perché è una sciocchezza, una menzogna, una viltà. Voi ci ordinate di servire l’armata? – Ma noi non serviremo, perché crediamo l’assassinio eseguito in massa altrettanto contrario alla coscienza umana quanto l’assassinio individuale. Voi professate una religione che ritarda, di mille anni sul nostro secolo colla sua immagine di Iverski, le sue reliquie, le sue incoronazioni? – È affare vostro. Ma noi, non solamente non prenderemo l’idolatria e la superstizione per religione, ma noi le chiameremo superstizione e idolatria e ci sforzeremo di sbarazzarne gli uomini.”
Che può opporre il Governo ad una simile azione? Si può deportare, imprigionare qualcuno perché fabbrica delle bombe o anche perché stampa un manifesto indirizzato agli operai. Si può trasferire il Comitato d’istruzione da un Ministero all’altro. Si può chiudere un parlamento. Ma che può fare il governo contro un uomo che non vuol mentire pubblicamente levando il suo braccio, e che si rifiuta di far istruire i suoi figli in una scuola che giudica pessima, che non vuole imparare ad uccidere il suo prossimo, che non vuole partecipare ad una idolatria, a delle incoronazioni, a dei ricevimenti, a degli indirizzi, che dice e scrive ciò che pensa e sente?
Perseguitandolo, il Governo ne fa un martire che eccita la simpatia generale. Egli scuote le basi stesse del suo potere, perché agendo così vìola i diritti degli uomini invece che difenderli.
Che tutti gli uomini onesti, illuminati, che dissipano attualmente le loro forze sul terreno dell’azione rivoluzionaria, socialista o liberale che tutti questi uomini incomincino a pensare e ad agire nel modo da me indicato: ciò basterebbe.
Si formerebbe un nucleo di uomini onesti, morali, illuminati, uniti dallo stesso pensiero, dallo stesso sentimento. La massa sempre esitante delle genti mediocri non tarderebbe a congiungersi a loro. Così si costituirebbe la sola forza capace di domare i governi; una opinione pubblica che esigerebbe la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di coscienza, la giustizia. Una volta nata questa opinione pubblica, non si potrebbero più sciogliere i comitati per la diffusione della cultura, ma tutte le istituzioni inumane: la polizia segreta, la censura, la fortezza di Schlusselbourg, il Sinodo, tutti gli organi contro i quali combattono ora i rivoluzionari, e i liberali svanirebbero da sé stessi. (…)
Non si può vivere secondo la propria coscienza se non in virtù di idee ferme e nette. E allorché si hanno tali idee, le conseguenze benefiche di esse nella vita si verificano inevitabilmente.
Così, eccovi ciò che io volevo dirvi di essenziale: è poco vantaggioso che degli uomini buoni e sinceri sciupino le forze del loro spirito e della loro anima in vista di fini pratici e meschini; le dissipino, per esempio, a occuparsi di lotte nazionali, di rivalità di partito, di rivendicazioni liberali, finché non si sia fissata una concezione religiosa ferma e netta, fino a che non si sia arrivati alla coscienza della propria vita e del proprio destino. Pensate perciò che tutte le forze dell’anima e della ragione delle persone oneste che vogliono rendersi utili agli altri devono mirare a questo scopo. Quando esso sarà raggiunto, il resto verrà da sé.

(1)Io rido talvolta pensando che si possa tentare una impresa così impossibile e credere che si abbia modo di amputare un membro ad un essere animato senza che egli se ne accorga. (N.d.A.)

(Tratto da “Lettera a una signora liberale” del 31 agosto 1896)

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Rispettare le differenze, ricercare ciò che unisce
Per un’educazione musicale nonviolenta

L’Educazione Musicale Nonviolenta è una disciplina considerata ormai da anni nell’ambito degli studi musicologici. Gino Stefani, docente di Semiologia della musica e Metodologia dell’educazione musicale al Dams dell’Università di Bologna, la definisce “formazione all’uso consapevole della musica come elemento di coscientizzazione per la liberazione e per il raggiungimento del potere di tutti”(1). Fra i suoi obiettivi c’è la ricerca di ciò che unisce e il rispetto delle differenze in un’ottica interculturale. La musica può essere un mezzo per creare rapporti e per imparare ad esprimersi superando le discriminazioni ereditate da una cultura musicale specialistica e lontana dall’esperienza quotidiana Riconoscere ed evitare gli elementi di aggressività e sopraffazione legati all’ecologia sonora dell’ambiente e alla conflittualità fra generi musicali e culture diverse che spesso tendono a scontrarsi, porta a ricercare l’homo musicus che abita tutte le razze e culture. In questa prospettiva, cominciamo a presentare alcune esperienze formative collegate in musica alla nonviolenza.

1 – DALLA PARTE DELL’ASCOLTATORE – itinerari musicali per non addetti

Spesso la musica, più che essere ascoltata, è subita: avvolge uniformemente le nostre case, le nostre auto, i supermercati, le sale d’aspetto e tutti i locali pubblici, creando una sorta di arredamento sonoro della nostra vita, che rende difficile coglierne i messaggi. Riuscendo a non sovrapporre le nostre chiacchiere e a non annientarla con la nostra indifferenza, avrebbe da raccontarci storie meravigliose.
E’ difficile ascoltare musica perché, mancando di immagini reali, scorre nel tempo e dal tempo è assorbita: gli autentici significati dei suoni rischiano così di sfuggirci, restando solo una copertura del silenzio.
Da alcuni anni e in vari luoghi, con piccoli gruppi di curiosi e volonterosi, c’è chi tenta di riscattare l’ascoltatore (A), figura senza la quale il compositore (C) e l’interprete (I) non avrebbero ragione di esistere.

Il triangolo equilatero, ai cui vertici sono indicati i tre ruoli essenziali, rappresenta la piena realizzazione della musica: a ciascuno è riservato un compito preciso, indispensabile, creativo e soprattutto paritetico.

Gli incontri, rigorosamente per non addetti, sono dedicati all’ascolto di vari generi musicali. A volte è permesso a qualche musicista di infiltrarsi, purchè lasci a casa le questioni tecniche e accetti di dedicarsi a un ascolto puro e spontaneo.
Chiunque può – se vuole – aprire la propria mente al mondo dei suoni. Riuscirci è un modo per arricchire la propria vita.
Ascoltare musica è come attraversare un bosco: vi si accede con rispetto e prudenza seguendo i sentieri, un accettabile compromesso fra uomo e natura. L’ascolto attento e ripetuto è il sentiero ideale per giungere alla comprensione musicale; a volte è un percorso lungo e articolato ma – proprio come un sentiero – ci protegge e ci conduce alla scoperta di infiniti contenuti spirituali: immagini per occhi attenti, profumi per narici delicate e suoni per chi è disposto ad ascoltare. E per ascoltare serve il silenzio, altrimenti si ascolta soltanto se stessi.
Il conduttore, fin da bambino ha avuto a che fare con la musica e da grande ha avuto la fortuna di frequentare il Conservatorio di Pesaro, prima come allievo poi come insegnante. All’età di quarant’anni ha scoperto di poter diventare ascoltatore e da allora vorrebbe farlo scoprire all’intera umanità.
Info: Luigi Livi lapslivi@lillinet.org

2 – costruire il suono – laboratorio di educazione musicale interculturale

Un progetto educativo in grado di fornire approcci costruttivi ad una società complessa come quella attuale, non può che essere interculturale, con l’obiettivo di rafforzare l’attitudine al confronto e fornire ad ogni persona capacità di crescita ed autonomia di pensiero. La riscoperta delle tradizioni popolari significa mantenere vive le radici antiche che danno forza ad una identità che non teme di essere distrutta dal contatto con la diversità; nel contempo la conoscenza di culture “altre” è un modo per scoprire somiglianze (a volte sorprendenti ed inaspettate) e differenze, confrontarsi con esse, evolversi.
E’ importante che la scuola sia un luogo significativo d’incontro, che offra un’ampia possibilità di interventi e di contatto profondo tra bambini , genitori ed insegnanti per un progetto comune.
La proposta prevede una serie di incontri-laboratorio per genitori, insegnanti e alunni, con l’obiettivo di realizzare piccoli strumenti musicali con materiale di recupero, attività che consente di fruire della musica in maniera il più possibile diretta e creativa, senza ricorrere necessariamente a costosi strumentari didattici.
Gli obiettivi sono di sviluppare la capacità di lettura dell’ambiente e degli oggetti in maniera non consumistica ma valorizzante e creativa; favorire un ambito di esperienza in cui genitori e figli interagiscano per un progetto comune; favorire sia l’espressione personale che una positiva interazione nel gruppo.
Info: Piero Negroni piero.negroni@libero.it

3 – L’ARTE DI ARRANGIARSI – Formazione e autoformazione alla nonviolenza in musica

La musica dà forma alle idee, incorpora melodicamente, ritmicamente, sonoramente comportamenti, gesti, atteggiamenti e attraversa i fenomeni sociali, coinvolgendo la vita di tutti.
Il collegamento fra musica e lotta, fra musica e movimenti popolari è facilmente verificabile. Alcuni generi musicali sono stati, in particolari momenti storici, veicolo, rappresentazione e sostegno di una lotta politica o di un fenomeno sociale.
Abbiamo anche avuto l’uso di musica e canti in lotte nonviolente, vera e propria tecnica di protesta e disobbedienza civile.
Ogni oggetto e ogni fatto musicale ha generalmente una forte carica di ambiguità: può essere interpretato e usato con significati anche opposti. Le caratteristiche ambivalenti della musica hanno conseguenze di grande importanza dal punto di vista nonviolento: provocano il dibattito e aprono la possibilità di dialogo basandosi su un’esperienza comune.
Lavorare su questi aspetti permette di sviluppare consapevolezza sugli strumenti che ciascuno ha a disposizione per esprimere quanto sta vivendo e per intervenire nei processi della comunicazione e della trasformazione dell’esistente inadeguato.
La proposta prevede una serie di unità didattiche condotte con metodologie attive-esperienziali e laboratori creativi, utilizzabili sia singolarmente, sia in abbinamento con una o più delle altre.
Info: Paolo Predieri musica@nonviolenti.org

Note:

1)Gino Stefani, Competenza musicale e cultura della pace, Clueb 1985.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
L’etica localistica della finanza padana

Quando si parla di etica, ci si riferisce soprattutto a comportamenti virtuosi, capaci di connotare positivamente l’ambito del quale si sta parlando. Nella finanza, l’etica è normalmente sinonimo di un comportamento rispettoso verso i risparmiatori e i finanziati, i fornitori e l’ambiente, gli azionisti e i popoli del sud del mondo.
Un raro caso di etica nella finanza tendente a salvaguardare solo alcuni dei soggetti coinvolti, per motivazioni campanilistiche e intolleranti verso alcuni, e quindi in netto contrasto con quanto affermato sopra, è dato dalla banca Credieuronord di Milano, universalmente riconosciuta come l’istituto di credito della Lega Nord.
Nata nel febbraio 2000 ed operativa dal marzo 2001 con un capitale sociale di 10 milioni di euro facilmente raccolto tra i militanti leghisti, statuto di banca popolare con azionariato diffuso e obbligazioni dedicate, con tanto di carta di credito padana per i clienti, Credieuronord ha avuto molte somiglianze, perlomeno cronologiche, con un’altra banca etica che in quegli anni muoveva i suoi primi passi, ma con un’ottica decisamente diversa.
L’obiettivo dichiarato era quello di creare “una banca con una forte connotazione localistica… che ha come punto di riferimento quel tessuto produttivo e sociale che fa capo ai valori che sono stati portati avanti e che continuano ad essere portati avanti dalla Lega”. Al presidente Francesco Arcucci, con esperienze in Banca Intesa, il compito di fornire una immagine professionale e indipendente. Ai vice Gian Maria Galimberti e Stefano Stefani, coadiuvato dal consigliere Giancarlo Giorgetti (questi ultimi due dirigenti della Lega) il compito invece di mantenere il contatto con il sottobosco di imprenditori di chiara fede politica.
I risultati di questa impostazione non tardavano a manifestarsi: a fine 2003, la banca padana dichiarava una perdita di 8 milioni di euro, 12 milioni di sofferenze su 47 di impieghi e alcuni finanziamenti perlomeno azzardati, come quello alla squadra di calcio del Monza o all’ex calciatore del Milan Franco Baresi, sotto la lente delle competenti autorità. L’anno successivo si inaugurava con un’altra inchiesta, questa volta per un episodio di riciclaggio di denaro sporco, che riguardava gli ex proprietari di Radio 101, i fratelli Borra, coinvolti in un fallimento ed agevolati, secondo l’accusa, dalla banca nelle denunce alla centrale rischi. Per inciso i due imprenditori erano anche al centro di inchieste riguardanti un traffico di armi, ma evidentemente i vertici della banca non andavano tanto per il sottile.
I guai proseguivano poi con varie multe comminate dal Ministero del Tesoro Tremonti (fedele alleato della Lega in Parlamento!) all’intero consiglio di amministrazione per una serie di gravi irregolarità gestionali rilevate dagli ispettori di Bankitalia. Tra queste, gli affidamenti per Bingonet, fallita nel settembre 2003, di cui Maurizio Balocchi, sottosegretario leghista all’Interno e consigliere Credieuronord, fu amministratore unico e azionista di maggioranza. Galimberti intanto si defilava andando a ricoprire, con tanto di decreto del Presidente del Consiglio Berlusconi, il ruolo di membro dell’Authority del Volontariato, mentre le azioni di responsabilità cominciavano a fioccare.
Intanto l’istituto di credito sfruttava le sue conoscenze: dopo l’apertura di filiali a Treviso, ad Albino e ad Erbusco, raggiungeva un accordo con Poste Italiane (identico a quello sottoscritto nel 2003 dalla Mediolanum di Berlusconi), che permetteva a tutti i suoi risparmiatori di rivolgersi presso un ufficio postale e gestire il proprio conto corrente, evitando così di doversi dissanguare per aprire filiali in giro per l’Italia. Un prezioso regalo per un istituto in evidente stato di difficoltà.
Ma l’epilogo della vicenda era alle porte: il 6 ottobre 2004, ai circa 4.000 soci che hanno creduto di portare la rivoluzione leghista anche nel mondo della finanza, utilizzando gli stessi strumenti spregiudicati imperanti nel mercato, non restava che accontentarsi di un rimborso in conto capitale pari a circa il 16% di quanto versato nel 2000, derivante dalla vendita dell’istituto alla Banca Popolare di Lodi. Un triste finale per i corsari della finanza padana, dotati sì di un’etica ben precisa, ma rivelatasi autodistruttiva: nella finanza l’interesse più alto dovrebbe essere quello di tutti, quando è privilegio di pochi rischia di trasformarsi in un boomerang.

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Un team internazionale per la pace nei Balcani

Dal 1994 al 2001, il Balkan Peace Team (BPT) ha operato per la risoluzione nonviolenta dei conflitti nell’ex Jugoslavia, coinvolgendo volontari internazionali e gruppi pacifisti o gruppi di attivisti per i diritti umani locali. BPT è stato uno sforzo cooperativo fra numerose organizzazioni, ed ha lavorato nei Balcani su richiesta dei costruttori/costruttrici di pace del paese. Il BPT era formato da membri delle seguenti associazioni: Brethren Voluntary Service (Ginevra), Bund für Soziale Verteidigung (Minden), Collectif de Jumelage des Sociétés Civiles de Genève et Prishtine, Dutch Mennonite Working Group, Eirene International, Helsinki Citizen’s Assembly, International Fellowship of Reconciliation, Mouvement pour une Alternative Nonviolente (Parigi), Österreichische Friedendienste (Vienna), Peace Brigades International, War Resisters International. Il BPT ha insegnato per sette anni le tecniche per la risoluzione nonviolenta dei conflitti, creando una nuova generazione di formatori alla nonviolenza; ha incoraggiato la nascita di nuovi gruppi pacifisti nella società civile; ha accompagnato gli attivisti locali, fornendo loro la forza aggiuntiva che viene da un riconoscimento internazionale; è stato presente durante gli esodi forzati e nei tribunali; ha favorito il fluire delle informazioni all’interno ed all’esterno della regione di intervento; ha condiviso con le popolazioni locali il peso e il dolore della guerra.
Nel 1993, alcuni dei gruppi succitati ricevettero richieste di una presenza internazionale dalla Croazia e dal Kossovo. Formata la coalizione e preparato il progetto, ovvero il BPT, il primo gruppo di volontari arrivò in Croazia nel 1994, usando come sigla “Otvorene Oci” (“Occhi aperti”): qui partecipò ad iniziative locali in favore della pace e del dialogo, agendo in “sostegno” e non in “solidarietà”, poiché doveva essere chiaro che il BPT non si identificava con nessuna aggregazione e nessuna ideologia. Chiariti i bisogni, le risorse e le richieste presenti sul territorio, il gruppo centrò successivamente i propri sforzi sul dialogo serbo/albanese, cercando e sfruttando le opportunità per costruire ponti attraverso le linee etniche. Quando gli studenti, nel sud della Serbia, si rivolsero al BPT nel desiderio di fare qualcosa rispetto alle crescenti tensioni in Kossovo, il team organizzò per loro un seminario sulla riduzione dei pregiudizi, dopo di che li accompagnò a conoscere un gruppo di studenti albanesi. I ragazzi e le ragazze della Serbia furono quindi in grado di partecipare, come osservatori, ad una marcia nonviolenta organizzata dagli altri, e riportarono alle loro comunità le notizie sul comportamento violento con cui la polizia serba represse la manifestazione pacifica.
Nel marzo 1999, quando la NATO cominciò a bombardare i serbi e soldati jugoslavi forzavano masse di kossovari albanesi a lasciare le proprie case, molte persone che avevano richiesto l’aiuto del team per promuovere il dialogo serbo/albanese si chiesero se il progetto fosse stato affossato dalla guerra e se aveva senso continuare. Il BPT compì un viaggio esplorativo in Macedonia ed Ungheria per capire se la società civile persisteva nell’organizzare occasioni di dialogo, e la risposta fu oltremodo positiva: il dialogo fra i due gruppi ad un livello di base, fu il responso delle ONG e degli individui, non era solo possibile, ma essenziale. Gli attivisti per la pace serbi ed albanesi continuarono a sostenere con forza la presenza del BPT, e forse la miglior valutazione del lavoro di “terza parte” del gruppo viene dalle parole di Ymer Jaka, del “Consiglio per la difesa dei diritti umani e delle libertà” di Pristina: “Se la riconciliazione è qualcosa che si vuole accada, il lavoro del Balkan Peace Team deve continuare, e deve essere rafforzato.”
Molto spesso l’atteggiamento che una “terza parte” assume per essere efficace nel portare due gruppi confliggenti al dialogo è compreso male all’esterno: la pratica dell’ascolto equidistante, ma sarebbe forse più corretto coniare un termine come “equivicino” (il sostegno ad entrambe le parti, come detto sopra) viene classificata come “neutralità” non partecipe. In realtà la “terza parte” ha ben chiaro a cosa è strettamente “solidale”, ovvero alla garanzia che i diritti umani di tutti e tutte vengano riconosciuti e rispettati; il che, tra l’altro, è il veicolo principale per ottenere la fiducia dei confliggenti.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati

Dopo 60 anni… mettiamo al bando le armi nucleari!

Tra pochi mesi ricorderemo le tragedie di Hiroshima e Nagasaki. Sono passati 60 anni.
Le bombe atomiche incenerirono istantaneamente le due città, uccidendo nell’immediato più di 200.000 persone. Ebbe inizio da questa tragedia una corsa agli armamenti nucleari che, da allora, tiene in ostaggio tutta l’umanità. I sopravvissuti, gli Hibakusha, levarono subito la loro voce; in risposta al loro appello – “Mai più Hiroshima! Mai più Nagasaki!” – nacque e si sviluppò un vasto movimento popolare che chiedeva l’abolizione delle armi nucleari, prime e più micidiali armi del Terrore e di distruzione di massa.
Nei decenni successivi, però, la corsa al riarmo crebbe. Al culmine della Guerra Fredda erano immagazzinati negli arsenali delle potenze nucleari più di 60.000 testate nucleari, sufficienti a distruggere il nostro pianeta tutto intero 25 volte. E per sviluppare questa micidiale tecnologia di morte, le grandi potenze sperimentarono la forza distruttiva degli ordigni nei deserti americani, negli atolli del Pacifico, nelle tundre asiatiche. I popoli di quelle zone chiesero la solidarietà dei movimenti per il disarmo nucleare di tutto il mondo. La voce dei popoli impose ai governi un cambio di rotta.
Nel 1970 entrò in vigore il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare. Aveva due obiettivi: impedire che il nucleare militare si estendesse ad altri Paesi ed obbligare al contempo gli Stati nucleari ad un progressivo disarmo.
Oggi, nel 60° anniversario di Hiroshima e Nagasaki, questo Trattato è in grave pericolo. La proliferazione continua, gli Stati nucleari riprendono la ricerca e la costruzione di una nuova generazione di armi nucleari. Nell’ultima Conferenza di Revisione del Trattato, nel 2000, i 188 Stati firmatari avevano assunto un impegno “inequivocabile” a lavorare insieme per un disarmo totale. Promesse mai mantenute. Nel mese di maggio prossimo, all’ONU, si terrà la VII Conferenza di Revisione. Gli Stati firmatari sembrano oggi dedicare attenzione solo alla lotta contro la proliferazione. Noi, realtà di società civile, vogliamo sottolineare che l’impegno ad impedire la proliferazione nucleare resta monco senza un serio programma di disarmo da parte degli Stati nucleari.
Su richiesta dell’opinione pubblica mondiale che rifiutava le armi nucleari, la Corte Internazionale di Giustizia si pronunciò all’unanimità nel 1996: i governi hanno l’obbligo di impegnarsi in negoziati internazionali che portino ad una proibizione totale e globale delle armi nucleari.

Lo scorso gennaio, al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, le reti dei movimenti hanno dichiarato il 1 maggio 2005 Giorno di Azione Globale per l’Abolizione delle Armi Nucleari.

Appello

Aderiamo alla manifestazione internazionale che si terrà a New York, il giorno prima dell’inizio della VII Conferenza, per chiedere con forza la messa al bando delle armi nucleari, alle parole d’ordine lanciate da United for Peace and Justice: “No Nukes! No Wars!”
Noi, cittadine e cittadini, associazioni, reti, movimenti, sindacati, parlamentari, Enti Locali aderiamo all’appello dell’Assemblea delle/dei Cittadini del Mondo per l’Abolizione delle Armi Nucleari, firmato ad Hiroshima il 19 febbraio 2005.
Aderiamo, ed invitiamo ad aderire, alla Coalizione Globale dei Parlamentari per la Messa al Bando delle Armi Nucleari.
Aderiamo, ed invitiamo ad aderire, alla Campagna Mayors for Peace, lanciata dai sindaci di Hiroshima e Nagasaki.
Aderiamo alla Coalizione “Abolition Now!”, promossa da più di 2000 associazioni e ONG in tutto il mondo.
Ci impegniamo a sollecitare il Governo Italiano ad inviare una delegazione di alto livello, con esperti sui problemi del disarmo, alla VII Conferenza di Revisione del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare.
Chiediamo che lo Stato italiano cambi la sua posizione, in particolare revocando l’astensione del novembre scorso per esprimere invece un voto favorevole alla proposta dei Paesi della New Agenda Coalition tesa a far rispettare agli Stati Nucleari i loro obblighi di disarmo.
Chiediamo che l’Italia aderisca al progetto “2020 Vision” che prevede un totale disarmo nucleare entro il 2020.
Ci impegniamo ad organizzare per il 6 – 9 agosto 2005, come deciso a Porto Alegre, iniziative in Italia che chiedano con forza la messa al bando delle armi nucleari.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
La violenza della guerra nelle missioni di pace

“Non desiderare la donna d’altri”

CREDITS:
Regia Susanne Bier
Titolo originale Brodre
Origine Danimarca
Anno 2004
Produzione Two Brothers LTD., Zentropa Entertainments
Distribuzione Teodora Film (2005)
Premio del pubblico al Sundance Film Festival 2005
Riconoscimenti per Miglior Attore e Migliore Attrice al Festival di San Sebastian

Film drammatico di impianto tradizionale quest’ultima fatica cinematografica della danese Susanne Bier.
Copenhagen. Il maggiore Michael deve comunicare ai suoi soldati l’imminente partenza per l’Afghanistan, all’interno della missione “di pace” dell’ONU e, nel suo ruolo di uomo senza dubbi e incertezze, si sente di rassicurare i commilitoni più giovani e dubbiosi sulla necessità e sulla bontà di quella missione, dichiarandosi sicuro che una volta sul posto essi stessi non potranno fare a meno di concordare con lui: la missione è cosa buona.
Michael è un uomo solido, affidabile, stimato e apprezzato tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Marito, figlio, fratello e padre amato conduce una vita “normale”, tranquilla, fatta di regole, certezze e ordine. L’esatto opposto del fratello Jannik, ribelle, irrequieto, scapestrato, refrattario ad ogni regola ed ad ogni senso di responsabilità: la classica pecora nera della famiglia.
La sera precedente la partenza per l’Afghanistan Michael va a prendere il fratello all’uscita dalla prigione, dove ha scontato una pena per aggressione avvenuta durante un tentativo di rapina. Michael ha organizzato una cena nella sua nuova bella casa, con la devota moglie Sarah, le due figliolette, e i genitori, nel tentativo di ricucire i rapporti tra Jannik e il resto della famiglia, particolarmente tra Jannik e il padre, il quale non fa mistero di preferire Michael al fratello.
Poco dopo il suo arrivo in Afghanistan però Michael cade vittima di un attacco nemico: il suo elicottero viene abbattuto e lui, disperso, viene dichiarato ufficialmente morto. La notizia getta la famiglia nella disperazione: niente sarà più come prima. Ma come sempre dopo un lutto, la vita si ostina a continuare e inaspettatamente Jannik trova, nel dolore per la scomparsa del fratello e nella condivisione di questo dolore con Sarah, una nuova umanità e la forza e la capacità, a dispetto delle aspettative di tutti su di lui, di essere sostegno, conforto e punto di riferimento per la cognata e le nipotine.
Presto però scopriremo che Michael non è morto: è stato catturato dai Talebani e trattenuto in un campo di prigionia insieme ad un giovane commilitone, catturato prima del suo arrivo in Afghanistan e dato anch’egli per disperso.
Efficace il montaggio alternato utilizzato qui dalla Bier per raccontare l’evoluzione della vicenda dalla parte del maggiore e dalla parte del fratello. La traduzione del titolo operata dalla distribuzione italiana infatti tradisce l’intenzione dell’originale di puntare la lente d’ingrandimento sul ruolo dei due “Fratelli” (traduzione letterale del titolo), sul loro rapporto, ma ancora di più sulle scelte che si troveranno ad operare, le quali cambieranno per sempre la sorte dei due protagonisti ma anche quella delle persone accanto a loro.
Mentre Jannik infatti, senza averlo programmato, si farà trasformare dall’affetto e dai sentimenti in un uomo capace di assumersi delle responsabilità, di entrare in contatto con gli altri e i loro problemi, bisogni, debolezze, un uomo capace di tornare sui propri errori e di trovare con semplicità la forza di riavvicinarsi alla propria vittima, insomma un uomo in cammino verso la propria umanità, dall’altra il fratello “buono” si incamminerà sulla strada della distruzione, della violenza e della disumanità, facendosi trasformare a sua volta, non però dai sentimenti ma dall’intima legge del mondo che ha scelto, quello dell’esercito, legge che in tempo di pace può indossare la maschera dell’ordine e della legalità ma nella crudezza della guerra viene smascherata in tutta la sua violenza e disumanità.
Michael tornerà infine all’affetto dei suoi cari portando però con sé un segreto inconfessabile e una colpa imperdonabile, che finirà per sconvolgere la sua mente e portare distruzione e violenza laddove prima regnavano la tenerezza e l’affetto.
Interessanti gli spunti che la pellicola offre. Susanne Bier denuncia con questo film la vera natura della guerra, anche quando presentata come missione di pace. Ciò che Michael è “costretto” a fare per tornare vivo dai suoi cari è presentato con lucidità e crudezza, e impedisce il solito processo di astrazione con il quale solitamente cerchiamo di prendere le distanze e di mistificare tutto ciò che riguarda la guerra. Da sottolineare la riflessione a cui invita la scena brutale dell’uccisione nel campo di prigionia: il vero coraggio è quello di chi sa uccidere o al contrario quello di chi sa resistere alla tentazione di uccidere?

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Bullismo e bullismi. Bulli e vittime nella scuola di oggi.
Possibili interventi per prevenire le prepotenze in adolescenza.

Nostra intervista ad Elena Buccoliero *

Il tuo nuovo libro si intitola “Bullismo, bullismi”. Perché hai voluto usare il plurale?
Se si guarda dentro le dinamiche si vede subito che ci sono tante modalità con cui si sviluppa questo fenomeno. Si parla spesso di “bullismo” come di un fatto unico, ma con uno sguardo più attento ci si rende conto che i modelli sono molto diversi fra loro: c’è il bullo, c’è la vittima, c’è il gruppo, ci sono gli adulti, e poi lo stesso giovane che è bullo a scuola, può essere vittima a casa. Non è mai scontato quello che succede.

Quand’è che possiamo parlare di bullismo?
Quando c’è un comportamento di prepotenza, ripetuto nel tempo; uno squilibrio di forze consolidato per cui il debole non è più in grado di difendersi: il ragazzo che ruba sempre la merendina alla stessa vittima, e i ruoli si sclerotizzano. Non si può parlare di bullismo davanti ad un singolo episodio di violenza o ad un ragazzo che per la prima volta fa uno scippo. E’ più facile che il bullismo si manifesti a scuola, in una classe, perché si tratta di un gruppo non scelto. Ma ci possono essere forme di bullismo anche fra gruppi di amici fuori dall’ambiente scolastico. Il bullismo è un fenomeno sociale complesso. E non è certo nuovo. Ho voluto iniziare il libro con la storia di Franti, il bullo del libro Cuore di Edmondo De Amicis…

Come hai iniziato ad interessarti del bullismo? E perché?
Lavoro in un servizio del Comune di Ferrara per la prevenzione del disagio giovanile e facendo frequentemente formazione agli insegnanti ci siamo accorti di questo fenomeno in espansione. Possiamo dire che è il bullismo che è venuto a cercarmi… Abbiamo fatto ricerche nelle scuole, sulla base anche di molte interviste a studenti, insegnanti e genitori. Gli insegnanti non sempre sanno riconoscere la questione, oppure il bullismo si manifesta in loro assenza, ma quando sono coinvolti direttamente si sentono impreparati, non sanno che fare. Oggi che il fenomeno è evidente, inizia anche ad aumentare la sensibilità, ed emerge con evidenza il fatto che la scuola, così com’è strutturata, certamente non aiuta.

Dunque il bullismo è figlio della scuola?
L’istituzione scolastica di oggi è un contenitore inadatto, dove è quasi inevitabile che si sviluppino forme di prevaricazione, di disagio. Il rapporto fra insegnanti e ragazzi è limitato alle lezioni teoriche; il clima generale invita alla competizione; non c’è spazio per curare i rapporti di relazione; non c’è una preparazione specifica degli insegnanti al conflitto; il corpo docente è schiacciato dalla burocrazia e dai programmi; i ragazzi sono spinti solo a raggiungere il risultato singolo, basato sul profitto: insomma, la scuola dovrebbe fare un profondo ripensamento di se stessa.

Una bella sfida. Ci sono alternative possibili?
Ho conosciuto il progetto “Chance” nei quartieri spagnoli di Napoli (zona generalmente ritenuta a rischio), e ho intervistato i “maestri di strada” che hanno creato questa “scuola della seconda opportunità”. Obiettivo della sperimentazione è quello di riportare nel percorso scolastico ragazze e ragazzi che non hanno acquisito la licenza media. Il gruppo dei docenti ha curato attentamente e in profondità il contesto, le regole, i luoghi, i programmi, la relazione educativa, la collaborazione fra gli insegnanti, l’alleanza con le famiglie e il territorio. L’esperimento ha funzionato ed ora si è esteso anche ad altre zone della città. In quella scuola a nessun ragazzo è stata appiccicata l’etichetta di vittima o di bullo perché, grazie al lavoro di prevenzione, le prepotenze, che pur ci sono state, non hanno trovato terreno su cui attecchire.

Come nasce un bullo? Da quale contesto, da quale famiglia?
Solitamente dietro a un bullo c’è una famiglia assente, o una famiglia troppo rigida, costrittiva. Spesso il bullo all’esterno, è un ragazzo che subisce violenza in famiglia. Anche per questo il lavoro di prevenzione dovrebbe vedere la scuola molto più coinvolta con il territorio e il contesto sociale.

Cosa c’è nel futuro del bullo?
Dalle ricerche fatte il bullo ha il 30% di possibilità in più di finire in carcere da adulto. Il bullo alle scuole medie, rischia di specializzarsi alle superiori. Mentre la vittima, ha più probabilità di essere un perdente anche nel mondo del lavoro, ed è più portato alla depressione. Comunque è più facile che la vittima smetta di essere vittima, piuttosto che un bullo smetta di fare il bullo.

Il bullismo è un fenomeno solo maschile?
No, per niente. Nei maschi emerge di più la componente fisica, mentre il bullismo femminile è più psicologico, mira all’esclusione dal gruppo; la differenza è che le ragazze con il dialogo, il confronto, la manifestazione dei sentimenti, riescono più facilmente ad uscire dal ruolo.

La nonviolenza ci può aiutare a prevenire il bullismo?
Naturalmente sì. Conta molto l’aspetto relazionale fra adulti e ragazzi. Conta molto cosa saper fare delle differenze e del conflitto. Per rompere la spirale violenta fra bullo e vittima, gli spettatori possono assumere una funzione deterrente. E per intervenire sugli squilibri di forza all’interno di un gruppo, conta molto il ruolo positivo che può avere la terza parte. L’applicazione di alcuni principi base della nonviolenza, possono già favorire la riduzione del fenomeno. Come diceva Alì Ne’ el Gilud: “La bontà della risposta si misura dalla bontà della domanda che provoca”.

* Elena Buccoliero, sociologa e scrittrice. Intervista a cura di Mao Valpiana
Bullismo: perché e come spezzare la catena

Elena BUCCOLIERO e Marco MAGGI
Bullismo, bullismi. Le prepotenze in adolescenza dall’analisi dei casi agli strumenti di intervento
Milano, FrancoAngeli, 2005

L’opera nasce da concrete e approfondite esperienze di ricerca e intervento compiute dagli autori sul fenomeno del bullismo: relazione di prepotenza tra bulli (ragazzi più forti) e vittime (incapaci di difendersi) all’interno di un contesto di gruppo, generalmente scolastico.
La sezione teorica, che ne costituisce l’apertura, è un’ampia e ragionata rassegna di quanto di meglio è stato prodotto sull’argomento, non solo (nè principalmente) nel nostro paese. Vi sono elementi di originalità che meritano di essere sottolineati. In primo luogo vi è l’attenzione ad un’età nella quale vari studi attestano semmai l’attenuarsi del fenomeno. Gli autori mostrano, in modo persuasivo, come il bullismo non si fermi invece alla terza media, ma prosegua, si differenzi e specializzi. Preferiscono parlare, anche perciò, di bullismi, al plurale distinguendoli per finalità e contesti. Ancora si segnala come particolarmente stimolante la descrizione del bullismo come una forma di conflitto. Dall’esame di comportamenti, prevaricazioni verbali (prese in giro, offese, minacce.), psicologiche (esclusioni, dicerie.) e fisiche (aggressioni, danneggiamenti, furti.), si passa all’individuazione dei presupposti e delle contraddizioni che completano il quadro conflittuale, secondo lo schema di J. Galtung. Alla radice di forme diverse di violenza diretta stanno, come sappiamo, violenza strutturale e culturale, delle quali il contesto scolastico è profondamente intriso. Di queste tre V, ancor più che delle tre I, dovrebbe occuparsi una riforma scolastica degna del nome. Un primo passo, che consigliamo a quanti nella scuola operano, è compilare la semplice check list, che chiude il secondo capitolo, sulla propria scuola. Riguarda organizzazione dello spazio e del tempo, popolazione scolastica e famiglie, corpo docente, assunzione del compito educativo, regole. Aiuta a rispondere alla domanda: la mia scuola produce bullismo?
La bibliografia ragionata per argomenti, che conclude il libro, unisce a una ventina di lavori specifici sul bullismo l’indicazione di 165 opere di diverse discipline, di carattere generale o applicate ai contesti scolastici, alla prevenzione e promozione della salute, all’autostima, agli adolescenti, a counselling ed empatia, alla gestione della classe, al conflitto, alla devianza giovanile, ai giochi interattivi. A un fenomeno sociale complesso, quale il bullismo è, è bene corrisponda una ricchezza di approcci, che gli autori conoscono e operativamente propongono.
L’esame dei dati emergenti da ricerche compiute in differenti istituti superiori di diverse città d’Italia ci dice che solo il 19% dice di non conoscere episodi di bullismo nella propria scuola, mentre il 46% ne è spettatore, il 15% vittima, l’11% bullo, il 9% alternativamente vittima e bullo. Differenze si riscontrano per tipologia d’istituto e tra ragazzi e ragazze. Resta l’idea che si dovrebbe e potrebbe fare di più da parte di tutte le persone, ragazzi e adulti, per intervenire su relazioni così meschine ed esperienze che segnano, talora pesantemente, i protagonisti diretti, ma non risparmiano gli spettatori, ragazzi o adulti che siano.
La seconda parte, ben duecentoquaranta pagine, è un manuale di “pronto uso” che suggerisce attività, propone strumenti operativi, schede di lavoro, tracce già sperimentate in diverse situazioni.
Un cd allegato arricchisce, infine, ulteriormente l’opera di proposte, questionari, strumenti di valutazione e racconti, che tengono conto del possibile uso anche in età preadolescenziale.

LIBRI
A cura di Sergio Albesano
Politica, cultura, filosofia della nonviolenza attiva

A. CAPITINI, Le ragioni della nonviolenza, Antologia a cura di Mario Martini, Edizioni Ets, Pisa 2004, pagg. 196, € 16,00.

Gli amici della nonviolenza, i movimenti pacifisti e tutti coloro che in Italia costruiscono alternative per un mondo migliore hanno un grande debito di riconoscenza nei riguardi di Mario Martini, che ha curato quest’antologia di scritti di Aldo Capitini.
Ormai da tanti anni infatti Martini contribuisce a chiarire e diffondere il pensiero del filosofo umbro, sottolineandone aspetti che erano stati tralasciati dagli studiosi precedenti o proponendo letture diverse e altamente stimolanti dei suoi scritti.
Martini ha saputo costruire, tra gli studenti dei suoi corsi, un interesse non solo accademico imperniato su Capitini.
E’ difficile ricordare tutti gli scritti, gli interventi, le relazioni tenute da Martini in questi anni, ma è certo che un riavvicinamento del mondo accademico italiano alla figura e al pensiero di Capitini (riavvicinamento di cui, finalmente, cogliamo i segni) è dovuto a un ristrettissimo numero di studiosi che si sono spesi su un argomento che certamente non era pagante e tra questi studiosi un posto di primo piano spetta proprio a Mario Martini.
E’ adesso in libreria l’ultimo suo contributo. Martini indica implicitamente un motivo di questa pubblicazione: l’introvabilità dei testi di Capitini.
Disponiamo così di una scelta validissima di scritti, che costituiscono un percorso chiaro e seguibilissimo delle ragioni della nonviolenza secondo Aldo Capitini.
Nelle occasioni in cui un giovane chiede l’indicazione di un testo che lo avvicini alle idee di Capitini si può ora suggerire un titolo, al limite uno solo, ma completo e appagante.

Luciano Capitini

J. M. MULLER, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, ed. Plus, Pisa 2004, pagg. 335.

La pubblicazione in italiano del volume di Muller, la cui riuscita è dovuta all’ostinata lungimiranza e al lavoro fine di traduzione di Enrico Peyretti, avviene in un periodo in cui sembra rifiorire, a più livelli, l’attualità della nonviolenza. Ma il volume di Muller non è semplicemente uno tra gli altri. Esso sembra piuttosto contenere una ricapitolazione di tutti i temi che l’attualità reclama a viva voce. In questo senso, dunque, non è, come si dice in molti casi, un testo definitivo sulla nonviolenza, ma piuttosto un testo inaugurale, che consiglio a tutti quelli che cercano d’inverare la nonviolenza nel cammino dell’esistenza. Tra i tanti meriti di questo libro voglio elencarne almeno tre.
Il primo merito è quello di mettere in luce la profonda continuità che lega i processi politici, quelli culturali e quelli filosofici. La violenza e la nonviolenza non sono contenuti di tali processi, ma ne rappresentano il metodo o la forma stessa. Sia la politica che la cultura non devono scegliere la nonviolenza come un’opzione tra le altre, a partire da una neutralità originaria. Il cittadino che mette in conto di poter scegliere la nonviolenza come di poter scegliere la violenza è già violento. La neutralità è una forma di violenza e pensare e agire in modo neutrale è lasciare sempre aperto il varco della violenza. La nonviolenza non è un altro mondo visto con gli stessi occhi, ma richiede la conversione dello sguardo che interpreta il mondo. Solo se un altro sguardo è possibile, un altro mondo è possibile.
Il secondo merito è di rispondere in modo chiaro e non ambiguo a quel luogo comune per cui i nonviolenti sarebbero solo gente armata di buone intenzioni, senza spirito pratico e politico. Muller sottolinea invece quanto la nonviolenza si oppone alla violenza perché ha a che fare con i conflitti, consistendo precisamente nel loro attraversamento. Così il nonviolento non è colui che si disinteressa dei conflitti, finendo per cadere nell’irresponsabilità pur di non sporcarsi le mani, ma è colui che assume la responsabilità della risoluzione d’ogni conflitto fin dalla sua radice, anche quando questo occuparsi della radice vuol dire fare i conti con la complessità delle ragioni delle parti in conflitto. La nonviolenza è una modalità di risoluzione radicale dei conflitti, mentre la violenza riproduce il conflitto in quanto cerca semplicemente di estinguerlo, senza attraversarlo. Muller lascia parlare la storia, la cui lezione è chiara: ogni atto di violenza, presentato come ultimo, ha sempre avuto come conseguenze altra violenze. Non si tratta allora di essere semplicemente idealisti per amore della pace, ma piuttosto di essere massimamente realisti riguardo alla violenza: “se la violenza esiste dappertutto, in nessun luogo essa raggiunge il fine che pretende di giustificarla. Mai, da nessuna parte, la violenza realizza la giustizia tra gli uomini; mai, in nessun luogo, la violenza apporta una soluzione umana agli inevitabili conflitti umani che costituiscono la trama della storia” (pag. 302).
Il terzo merito è quello di presentare con uno stile agevole e accessibile ai non addetti ai lavori le principali voci e riflessioni filosofiche sulla nonviolenza, da Gandhi a Levinas, fino a Eric Weil. Questo quadro, la cui semplicità del tratto non diviene mai semplificazione, è intessuto su una tonalità ricorrente: se noi cerchiamo di rendere ragione della nonviolenza, rimarremo delusi. La nonviolenza non ha principio, essa è principio. Non è la razionalità occidentale a dover rendere ragione della nonviolenza; è la nonviolenza, in quanto principio di una nuova ragione, a dover trasformare e rendere nonviolenta la ragione. Questa trasformazione è possibile solo nel momento in cui anche il pensiero diviene una pratica nonviolenta.
Infine, un’avvertenza di stile: la scrittura utilizzata da Muller stupisce per la sua chiarezza. In un testo celebre, Dürrenmatt invitava a diffidare di ogni discorso profondo per privilegiare invece il discorso comprensibile. Il libro di Muller offre un discorso comprensibile, testimonianza di quanto l’autentica profondità d’un discorso si mostri nella capacità di offrire spazi di senso a colui che ascolta o a colui che legge.

Sergio Labate

LIBERA POTA, AAA Obiettrice cercasi, Ed. Berti, Piacenza 2004, pp. 79, € 6,00

L’autrice di questo libro è una ragazza di 27 anni (www.liberapota.com). Laureata alla facoltà di scienze politiche, si è occupata di promozione di eventi per un’organizzazione non governativa.
Questo è il secondo libro di sua produzione. Il primo, “Musungo bianca dell’Africa nera”, esce nel 2002, dopo una sua breve esperienza in Kenya.
Con “AAA Obiettrice cercasi” Libera vuole trasmettere e rendere partecipi noi lettori delle emozioni, che un anno di servizio civile volontario le hanno regalato.
Un anno che lei ha scelto di vivere per mettersi alla prova, un anno che le ha permesso di mettersi in discussione, che le ha dato la possibilità di fare: gesti concreti di solidarietà, dimostrare a sé stessa, come alla sua famiglia che volere è potere . “Forse sono troppo audace ma faccio solo quello che mi piace”: è con questa frase, tratta da una canzone di Stiliti, che Libera apre il suo libro.
Spezzati di vissuti di questa ragazza si susseguono tra le pagine lasciando il tempo a chi legge di riflettere sulle proprie scelte. Le sensazioni sono seminate tra le immagini, a partire da episodi semplici, come una partita di pallone, l’incontro con Mele, un ragazzino di 17 anni, l’accoglienza di un cagnolino nella sede dell’associazione, il rapporto con gli altri obiettori, il voto di un esame, un viaggio, la stazione…
Ogni occasione, ogni luogo, ogni persona che sono seminati lungo la nostra strada, diventano stimoli per crescere un po’. E questo vale anche e soprattutto per gli errori che a volte si possono commettere.
L’errore che non bisogna commettere però e quello di sentirsi già arrivati.
E’ questo l’augurio che facciamo alla scrittrice di questo libro, consigliato a chi ha paura di credere in sé e nei propri sogni.

Riceviamo

Remo de Ciocchis, Il volto della nonviolenza, Edizioni dell’Amicizia, Isernia 2004, pp.133
Francesco Gesualdi, Sobrieta’. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti, ed. Feltrinelli, Milano 2005, pp.153
Massimo Pomi, Al servizio dell’impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, ed. La nuova Italia, Milano 2005, pp.184
Francisco Jiménez Bautista, Las gentes del àrea metropolitana de Granata, ed. universidad de Granada,Granada 2004, pp. 854
AA.VV., Voci sull’Obiezione, Ed. La meridiana, Molfetta (BA) 2004, pp.179
Sergio de Santis, Mohandas K. Gandhi, Newton & Compton ed., Roma 2004, pp. 157
Giuseppe Barone, La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo biografico di Danilo Dolci, Ed. Libreria Dante Descartes, Napoli 2004, pp.180
Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, ed. Plus-Pisa university press, Pisa 2004, pp. 335
Elena Buccoliero, Marco Maggi, Bullismo, bullismi,( allegato cd rom: strumenti operativi), ed. FrancoAngeli, Milano 2005, pp. 348
Campo MIR-MN Agosto 2004, Il confine, ed. MIR- MN, pp.61 da inserire in biblioteca???
Regione Veneto, Il Veneto e il suo ambiente nel XXI secolo, ed. Giunta Regionale,Venezia 2005, pp. 310
Francesco Pugliese, I giorni dell’arcobeleno, ed. Grafiche Futura, Trento 2004, pp. 284
Gandhi, La mia vita per la libertà, Newton Compton editori, Roma 2005, pp. 458
Libera Pota, A. A. A. Obiettrice cercasi, ed. Berti, pp. 78
Enrico Peyretti, Dov’è la vittoria?, Il segno dei Gabrielli editori, Verona 2005, pp. 110
Andrea Lecconi, In nome dell’uomo. Per conoscere Ernesto Balducci, ed. Fondazione Ernesto Balducci, Milano 2005, pp. 258
Enrico Morioni, Mangio dunque sono, ed. Verdi, Torino 2004, pp. 98
Alberto Trevisan, Ho spezzato il mio fucile, Edizioni Dehoniane, Bologna 2005, pp. 140
Comunità e amici Emmaus, Emmaus Villafranca vent’anni, CierreGrafica Edizioni, Verona 2005, pp. 50
Alexander Langer, The Importance of Mediators, Bridge Builders, Wall Vaulters and Frontier Crossers, The Alexander Langer Foundation, pp. 263
Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti , A cura di Mario Martini, Edizioni ETS, Pisa 2004,pp. 191
A cura di Rinaldo Paganelli, Custodi del Creato, Edizioni Dehoniane Bologna, Vicenza 2005, pp. 126
Mario Lancisi, No alla guerra, Edizioni Piemme, 2005, pp. 207
Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini, Armi d’Italia. Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo, Fazi Editore, Roma 2005, pp. 294

Lettere

Caro Direttore,
le scrivo per dire che…
La retorica patriottarda degli eroi morti in Iraq

Con il maresciallo Cola, e con il sergente Mazzarino, siamo arrivati a 21 nostri giovani uccisi in Iraq. Questo sacrificio era necessario? Poteva essere evitato? A queste domande si evita di dare risposte serie, ci si limita a celebrazioni nazional- patriottiche, con discorsi e protagonismi di politici e di generali.
Ma i giovani continuano a morire, anche se con “fuoco amico”, come vittime sacrificali per consentire ai nostri governanti di sedersi, con maggiore credito, al tavolo del nuovo Iraq. Ma è necessario, per la gente comune, fare alcune osservazioni, per darsi un giudizio il più possibile corrispondente alla realtà dei fatti.
Perché celebrare con tanta (falsa) retorica la morte di un povero giovane, il maresciallo Cola? Si ha l’impressione che non interessi tanto la disgrazia, il giovane che non c’è più, la sofferenza dei familiari; tutto viene coperto dalla bandiera, dalle messe solenni, dai funerali di Stato, dalle presenze delle alte cariche dello Stato. Nessuna analisi dell’accaduto, nessuna seria ricerca delle responsabilità. Si celebra l’eroe e con lui si copre tutto; responsabili sono solo gli arabi cattivi, i terroristi ed i loro sodali. Ma tutti coloro che muoiono in operazioni militari sono eroi? E chi muore nell’assolvere il proprio dovere: un poliziotto, un carabiniere ucciso da malavitosi, da delinquenti? Un operaio che muore in un cantiere, magari, come accade, senza sufficiente sicurezza? Chi sono costoro, non meritano medaglie, onori ed assistenza ai propri familiari, come i lavoratori (ora sono tali) che cadono a Nassiriya? Quanti funerali di Stato si fanno per i caduti sul lavoro, o per la difesa dei cittadini dalla malavita?
Ma per la retorica guerresca, i militari caduti a Nassiriya sono tutti eroi. La gente lo deve ben tenere presente. E i nostri governanti non aspettano altro per celebrare la loro morte, per presenziare ai loro funerali, per farsi vedere (e fotografare) insieme ai loro familiari, anch’essi sfruttati per la pubblicità di chi ha bisogno di visibilità.
La morte del povero sergente Mazzarino non può attribuirsi alla fatalità o a cause impreviste. Morire, in esercitazione, su un poligono di tiro, è sempre dovuto ad una cattiva organizzazione. C’è sempre un responsabile nella catena di comando; ma nel caso del sergente che muore in Iraq con “fuoco proprio” c’è ancora di più: la fretta colpevole, la preparazione insufficiente nello spedire i soldati in Iraq. L’esercito è ormai a corto di militari addestrati (come 15 mila in operazioni all’estero) e fa fronte alle turnazioni con giovani e comandi poco preparati all’operazione Iraq. Ed ecco i risultati, un graduato preparato e di carriera, muore in addestramento nel poligono di tiro.
Certo la colpa prima, e più grave, è più in alto: dei politici, del governo, che hanno scambiato la guerra in Iraq per una palestra, per una esercitazione e che, da irresponsabili, violando l’art. 11 della nostra Costituzione, hanno costretto il nostro paese a partecipare ad una guerra “preventiva” chiamata, per confondere le coscienze, umanitaria in quanto “esportatrice” di democrazia e benessere.
Viene mai il dubbio che il militare ucciso dal fuoco nemico od amico o, meglio ancora, proprio, non era ben preparato, non aveva una buona difesa, o che questa è stata male organizzata? Un proiettile che s’infila in una parte non corazzata, o non ben protetta, di un velivolo mandato a combattere, od un proiettile che dall’arma individuale s’infila nel cranio di chi spara, non fanno nascere il sospetto che c’è colpa di chi organizza l’operazione o l’addestramento?
Ed ancora, un sottoufficiale mitragliatore, posto su un elicottero che spara a ribelli, o terroristi, cosa può aspettarsi? Tanto più che in Iraq sono tanti i guerriglieri (chiamati così per non disturbare la sensibilità di tanti benpensanti) che sparano, combattono ed uccidono i militari stranieri. Cosa poteva aspettarsi il povero maresciallo Cola, se non una risposta od un attacco di fuoco? E qual è l’atto eroico che si vuol celebrare; l’essersi arruolato, l’essere salito sull’elicottero, l’aver usato la mitragliatrice? Tutti gli onori militari a chi cade in battaglia, ma per celebrarlo eroe, con quello che segue, ci vuole, credo, un po’ di più. Quanti nostri genitori, amici, parenti sono caduti sparando nelle tante guerre che abbiamo avuto? Eroi solo per questo? O vittime, a cui vanno tutta la nostra solidarietà e rispetto?
Se si riflettesse su queste osservazioni, forse riusciremmo a distinguere i dovuti onori ai caduti in “battaglia”, ed il rispetto e la solidarietà dovuta a questi lavoratori in armi, dalla strumentalizzazione di questi morti sul palcoscenico degli interessi dei potenti; interessi che hanno sempre arrecato tanto sangue e tante sofferenze alla gente.

Avv. Giuseppe Ramadori
Roma
Presidi manager per l’azienda scuola

Caro Direttore, ormai sono cosciente di lavorare in un’azienda!
Quando, anni fa, decisi di fare l’insegnante e fui assunto nella scuola in quel ruolo, non immaginavo certo di dover operare in un’azienda. Anzi, ero convinto che il mondo della scuola fosse totalmente estraneo ed immune da ogni logica capitalista. Anche per questo scelsi l’insegnamento, che reputavo una professione creativa e pensavo offrisse molto tempo libero, un bene più prezioso del denaro!
A distanza di anni dal mio esordio lavorativo, eccomi catapultato in un ingranaggio di fabbricazione industriale, con la differenza che nella scuola non si producono merci di consumo. Del resto, non mi pare di aver ricevuto una preparazione idonea ad un’attività manifatturiera – ma si sa, viviamo nell’era della “flessibilità”!
Ormai sento sempre più spesso adoperare un lessico tipicamente imprenditoriale: termini e locuzioni come “economizzare”, “profitto”, “utenza”, “competitività”, “produttività”, “tagliare i rami secchi” e via dicendo, sono diventati di uso assai comune, soprattutto tra i cosiddetti “dirigenti scolastici” che non sono più esperti di psico-pedagogia e didattica, ma pretendono di essere considerati “presidi-manager”! Perlomeno, in tanti si proclamano e si reputano “manager”, ma sono in pochi a saper decidere abilmente come e perché spendere i soldi, laddove ci sono.
Inoltre, anche nella Scuola Pubblica si sono ormai affermati tipi di organigramma e metodi di gestione mutuati dalla struttura manageriale dell’impresa neocapitalista.
All’interno di questo assetto gerarchico sono presenti vari livelli di comando e subordinazione. Si pensi, ad esempio, al “collaboratore-vicario” che, stando all’attuale normativa, viene designato dall’alto, direttamente dal dirigente ( prima, invece, era il Collegio dei docenti che eleggeva democraticamente, cioè dal basso, i suoi referenti, a supportare il preside nell’incarico direttivo ). Si pensi alle R.S.U., ossia i rappresentanti sindacali che sono eletti dal personale lavorativo, docente e non docente. Si pensi alle “funzioni strumentali”, ossia le ex “funzioni-obiettivo”.
In altri termini, si cerca di emulare, in maniera comunque maldestra, la mentalità economicistica, i sistemi ed i rapporti produttivi, i comportamenti e gli schemi psicologici, la terminologia e l’apparato gerarchico, di chiara provenienza industriale, all’interno di un ambiente come la Scuola Pubblica, cioè nel contesto di un’istituzione statale che dovrebbe perseguire come suo fine supremo “la formazione dell’uomo e del cittadino” così come detta la nostra Costituzione (altro che fabbricazione di merci! ). E’ evidente a tutte le persone dotate di buon senso o di raziocinio, che si tratta di uno scopo diametralmente opposto a quello che è l’interesse primario di un’azienda, cioè il profitto economico privato.
La Mor-Attila e i vari “manager” della scuola, in buona o in mala fede confondono tali obiettivi, alterando e snaturando il senso originario dell’azione educativa, una funzione che è sempre più affine a quella di un’agenzia di collocamento o, peggio ancora, a quella di un’ area di parcheggio per disoccupati permanenti.
Ma perché nessuno mi ha avvertito quando feci il mio ingresso nella scuola?
Probabilmente, qualcuno potrebbe obiettare: “Ora che lo sai, perché non te ne vai?”.
Ma questa sarebbe un’obiezione aziendalista e come tale la rigetto!

Lucio Garofano
Lioni (Avellino)

Euromediterranea 2005: Alexander Langer: Lentius, profundius, suavius
Bolzano, 1 – 3 luglio 2005

A 10 anni dalla morte di Alexander Langer, un incontro di riflessione e di dialogo che prende spunto da tre suoi scritti, con interventi introduttivi di: Vandana Shiva, Wolfgang Sachs, Irfanka Pasagic, Massimo Cacciari

– Venerdì 1.7, ore 17.30: L’Europa nasce o muore a Sarajevo (1995)
– Sabato 2.7, ore 10.30: La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile (1994)
– Sabato 2.7, ore 17.30: Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica (1994)Domenica 3 luglio partire alle ore 10.00 ci troviamo per riflettere su:
L’attualità di Alexander Langer, un itinerario biografico e bibliograficoInoltre: Musica, cinema, teatro, libri, festa

Scuola estiva internazionale:
Srebrenica 10 anni dopo, le ferite del silenzio

Bolzano, Tuzla, Srebrenica, Sarajevo: 1-12 luglio 2005

La Scuola estiva internazionale 2005 si svolgerà in forma itinerante con l’intento di:
– fornire strumenti di comprensione di quella che è stata definita come la più grave strage genocidaria nei confini europei dopo la fine della seconda guerra mondiale
– partecipare consapevolmente alle celebrazioni che si svolgeranno a Srebrenica nel decimo anniversario del massacro e al dibattito aperto sul dopo Dayton
– riflettere sugli strumenti di prevenzione delle crisi e di ricostruzione della convivenza.

Posti a disposizione: 40 Le domande d’iscrizione devono essere presentate entro 20 maggio 2005. Le ammissioni alla Scuola verranno confermate agli interessati entro il successivo 31 maggio successivo.Ai partecipanti viene chiesta una quota d’iscrizione di 150 € a copertura delle spese di vitto, alloggio e viaggio. Lingua d’uso: inglese.

Per INFO e iscrizioni
Fondazione Alexander Langer Stiftung – Onlus
via Latemar 3 – 39100 BOLZANO
Tel. + Fax 0471/977.691
E-mail: langer.foundation@tin.it

Di Fabio