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E’ tempo di porsi la radicale domanda di senso sul Servizio civile

DiPasquale Pugliese

Mag 17, 2020

Questa volta l’occasione del dibattito è fornita dall’emergenza covid-19, che ha visto – in prima battuta – da un lato un think tank che si occupa di “innovazione” fare la proposta di rendere nuovamente obbligatorio il servizio civile sul modello svizzero, dove però – al contrario dell’Italia – anche il servizio militare è obbligatorio  e dall’altro l’appello di 53 figure della società civile italiana che chiedono di “ripensare e rilanciare” il Servizio civile universale per rispondere alle emergenze e come opportunità formativa . Tra gli interventi, a mio avviso, più interessanti quello dell’ex sottosegretario Luigi Bobba che propone di passare da 40mila a 400mila volontari in cinque anni con un piano che prevede un investimento, nel medio periodo, di 10 miliardi; quello del presidente della CNESC, Licio Palazzini, che ricorda che per consentire di svolgere il servizio civile ad almeno 100mila volontari all’anno bisognerebbe avere una dotazione annua di 600milioni di euro annui; quello di Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento, e Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Italiana Disarmo, che ribadiscono come prima di pensare al Servizio civile obbligatorio sia “fondamentale riuscire a garantire che quello Universale lo sia davvero, cioè che tutti coloro che lo desiderano lo possano svolgere pienamente”, ricordando opportunamente l’impegno, in questo senso, della campagna “Un’altra difesa è possibile”

A queste autorevoli riflessioni vorrei aggiungere che il tema dell’obbligatorietà o meno del servizio civile è del tutto secondario e derivato rispetto al tema dell’identità di questo istituto repubblicano, cioè al senso del servizio civile oggi.  Risposta che è ormai da tempo chiara e acquisita sul piano legislativo, esito delle lotte degli obiettori di coscienza al servizio militare e delle sentenze della Corte costituzionale, per cui il Sevizio civile universale – come recita la legge istitutiva (d. lgs. 6 marzo 2017, n. 40) con riferimento agli articoli 11 e 52 della Costituzione, e in continuità con la legge istitutiva del Servizi civile nazionale (L. 64/2001) – è “finalizzato, alla difesa non armata e nonviolenta della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli, nonché alla promozione dei valori fondativi della Repubblica”, ma che, invece, non è affatto acquisita sul piano culturale, politico ed economico. Ossia questo Paese ha nel proprio ordinamento giuridico due modelli di difesa – la difesa militare e la difesa civile, cioè “non armata e nonviolenta” – ma solo uno dei due viene trattato davvero come strumento di difesa nazionale, quello militare; l’altro viene trattato come strumento di “politica giovanile” (ancorché unica degna di questo nome), se non addirittura come mero ammortizzatore sociale. La comparazione delle risorse annue previste per i due modelli di difesa, esplicitano questa totale asimmetria: per la difesa militare la spesa pubblica per il 2020 è di 26,3 miliardi di euro (dati milex), per il servizio finalizzato alla “difesa non armata e nonviolenta” nelle più rosee previsioni del ministro Vincenzo Spadafora dovrebbe arrivare a 270 milioni all’anno, cioè – nella migliore delle ipotesi – ad un centesimo della spesa prevista per la difesa militare.

Tuttavia se il sevizio civile è considerato, almeno sul piano normativo, una forma di difesa del Paese, la prima ricognizione da fare – come spiego ai volontari nei corsi di formazione generale – è su quali siano le minacce dalle quali è necessario difendere la comunità nazionale e i diritti fondamentali dei cittadini, per capire se il divario di pericolosità e incombenza tra le minacce di carattere militare e quelle di carattere sociale e civile – che possono quindi essere fronteggiati in modalità “non armata e nonviolenta” – siano davvero tali da giustificare questa abissale differenza di investimento economico. La pandemia dalla quale (forse) stiamo finalmente uscendo ci ricorda una prima minaccia, di carattere sanitario, nei confronti della quale eravamo totalmente impreparati, che ad oggi ha fatto in Italia poco meno di 32mila vittime e, ci dicono i ricercatori, altre ne arriveranno. Poi ci sono le minacce di carattere culturale: il nostro Paese è stabilmente al primo posto nelle ricerche internazionali in quanto ad “ignoranza”, ossia nell’indice che valuta la distanza tra la percezione delle persone e la realtà dei fatti, per esempio tra numero di reati, percezione della sicurezza ed aumento della paura (dati Ipsos Mori). Poi ci sono le minacce di carattere sociale in un Paese nel quale il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero (dati Oxfam). E poi quelle di carattere ambientale per cui l’Italia è il primo paese in Europa, e undicesimo nel mondo, per morti premature da esposizione alle polveri sottili Pm2.5, ossia 80mila morti all’anno (dati OMS) e potremmo continuare… Queste minacce – non ipotetiche, future e provenienti dall’esterno, ma “pericoli incombenti” con i quali dobbiamo già fare quotidianamente i conti a casa nostra, perché provocano danni e vittime in misura considerevole – hanno una caratteristica comune: da nessuna di esse ci si può difendere con lo strumento militare, ma necessitano di forme complesse e connesse di difesa civile, sanitaria, culturale, sociale, ambientale ecc. Che, non a caso, sono esattamente gli ambiti di intervento del servizio civile.

Naturalmente ciò non significa che il servizio civile universale possa affrontare ed esaurire ipso facto la difesa da queste minacce, ma significa che può e deve essere messo – a norma di legge e di Costituzione – nelle condizioni di dare un aiuto strategico in tutti gli ambiti di intervento, anche in funzione preventiva, in sinergia con gli Enti preposti, ed essere adeguatamente organizzato e finanziato per svolgere questo ruolo. A questo scopo, le risorse per la difesa civile non possono che venire da quelle destinate al più ampio capitolo della Difesa: una parte consistente delle risorse attualmente destinate alla difesa militare – gran parte delle quali vanno nell’acquisto di anticostituzionali armamenti di offesa – devono essere trasferite sulla difesa civile, “non armata e nonviolenta” per finanziare, ampliare e sviluppare anche il Servizio civile universale. Ciò significa dare finalmente pari dignità culturale, politica ed economica e piena legittimità organizzativa e sociale ai due modelli di difesa presenti nell’ordinamento italiano, facendo un salto dalla Carta alla realtà. E nel far questo si svilupperebbe – contemporaneamente – un enorme e capillare impegno formativo sul campo delle giovani generazioni, fondato sulla responsabilità attiva a difesa della comunità e dei valori costituzionali e sull’acquisizione delle relative competenze complesse e delle virtù civili. E’ questa dunque, a mio avviso, la radicale domanda di senso sul Servizio civile, che è giunto il tempo di porsi e non è più rinviabile: qual è il suo ruolo nella difesa del Paese dalle minacce reali dalle quali è investito? Che significa, in ultima analisi, chiedersi quanto prendiamo sul serio la Costituzione e le leggi della Repubblica. Dalla risposta a questa domanda scaturiscono le altre risposte sul piano organizzativo, numerico, economico e formativo. E rispetto ad essa il tema dell’obbligatorietà mi pare francamente oggi del tutto secondario e marginale.

Di Pasquale Pugliese

Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia. Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e "Disarmare il virus della violenza" (entrambi per le edizioni goWare, ordinabili in libreria oppure acquistabili sulle piattaforme on line).

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