• 18 Novembre 2025 5:54

Goffredo Fofi, nonviolento eretico

Diadmin

Ago 10, 2025

Trigesimo. Capitiniano e langeriano, a modo suo, contro il pacifismo inoffensivo.

di Mao Valpiana *


Pubblichiamo l’articolo del nostro Presidente Mao Valpiana, uscito su Alias, inserto culturale del quotidiano il Manifesto, di sabato 9 agosto 2025: “Goffredo Fofi, nonviolento eretico. Capitiniano e langeriano, a modo suo, contro il pacifismo inoffensivo”. Il nostro intento è di aprire un dibattito sull’idea del pacifismo come malattia infantile della nonviolenza, per crescere dal pacifismo generico alla nonviolenza persuasa, come diceva Fofi.


Cosa ne pensasse delle marce Perugia-Assisi, quelle dal 1990 in poi, l’ha scritto chiaramente, senza mandarle a dire: «Le marce inoffensive, gli happening pacifisti non hanno dato e non danno minimamente fastidio al potere e in niente l’hanno messo in crisi, nel nostro paese. E questo accade soltanto nei fine settimana… feste periodiche di massa, un gradevole appuntamento autunnale, una sfilata allegra e simpatica, una specie di festa dell’Unità itinerante, folta di cartelli e di slogan, di canti inneggianti alla pace…» e, per rafforzare il suo pensiero, cita Gunther Anders: «Non appena si trovano insieme in centomila, automaticamente ne scaturisce una divertente festa popolare. Allora ci sono salsicce… e poi vengono le chitarre. E là dove quelle cominciano, là comincia la scemenza emotiva». Ritratto impietoso.
Ma non è tutto. Nel suo breve pamphlet, forse scritto troppo frettolosamente e persino contraddittorio in alcuni passaggi, Elogio della disobbedienza civile (edizioni nottetempo, 2015), Goffredo Fofi liquida i suoi amici pacifisti che «non hanno avuto nemmeno l’alibi della crisi per preoccuparsi più di sé che di coloro che andavano conquistati alle loro idee, attraverso le pratiche, e hanno cominciato molto presto a mettere al primo posto le proprie organizzazioni e il proprio benessere».
E prosegue, bacchettando sulle mani, «hanno finito per giustificare con i loro happening – incontri e convegni, marce, training, corsi (anche universitari) – la lontananza, l’indifferenza di tanti che avrebbero potuto essere loro vicini, solidali». Accusa i pacifisti di aver dimenticato o sminuito il fine che si erano dati, la vocazione che li aveva destati, pensando più al proprio star bene che alla causa della pace e della giustizia di cui volevano essere esecutori.
Una critica così dura, può venire solo da chi ha tanto amato il pacifismo della prima ora, e poi ne è rimasto deluso, o si è sentito tradito. Fofi, su suggerimento di Danilo Dolci, fu tra quei giovani che con entusiasmo andarono a Perugia da Aldo Capitini ad aiutarlo nella preparazione della Marcia Perugia-Assisi del 1961. Una Marcia pensata dallo stesso Capitini per superare «il vecchio pacifismo molto blando, ottimista e di corta vista» che fu travolto dalla prima e dalla seconda guerra mondiale, così come oggi lo è dalle guerre in Ucraina e Palestina.
Il senso profondo di quella originale iniziativa fu espresso dallo stesso Capitini; bisognava che la Marcia: – partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale; – dovesse destare la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica; – fosse l’occasione per la presentazione e il «lancio» dell’idea del metodo nonviolento (da qui il richiamo alle due figure della nonviolenza, Francesco e Gandhi).
Questa idea del pacifismo come malattia infantile della nonviolenza, Fofi l’ha coltivata per tutta la vita. Crescere dal pacifismo alla nonviolenza. In fondo è stato questo il filo conduttore, l’alfa e l’omega del suo percorso umano e intellettuale. Tra le mille definizioni che si potrebbero dare di Goffredo Fofi, e che tutte rifiutava («non sono un teorico, non sono uno studioso, non sono un politologo»), l’unica che accettava e rivendicava è quella di capitiniano.
Lo scrive lui stesso nella sua introduzione alla ripubblicazione di quel testo fondamentale di Capitini che è Le tecniche della nonviolenza: «Il radicalismo del pacifismo di Capitini ci sembra allo stesso tempo più che necessario e però infinitamente utopico, ché ogni segnale che ci manda la realtà sembra smentirlo, lo smentisce.

Eppure l’insistenza nel proporre il dialogo deve continuare a essere il nostro progetto più ampio e il più possibile concreto, e senza mai stancarci. Affermando la nonviolenza come la strategia fondamentale e unica, non come un mezzo tra altri ma come una linea di fondo: contro il potere e contro la morte, contro la distanza tra le creature».
Aldo Capitini è il vero maestro di Goffredo Fofi: «Il perno di tutta la concezione capitiniana dell’agire umano, la sua proposta, sta in una dichiarazione di cui abbiamo persino abusato, ma la cui chiarezza e necessità si sono fatte nel tempo sempre più evidenti». Questa è la citazione capitiniana preferita da Fofi: «Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale, e così alle persone, agli esseri che incontro, resto unito intimamente per sempre qualunque cosa loro accada, in una compresenza intima, di cui fanno parte anche i morti».
E quali siano i morti a lui più cari, Fofi ce lo dice in un suo libretto considerato minore, ma che a me ha detto molto del suo pensiero, Cari agli dèi (edizioni e/o 2022), che non a caso è dedicato «alla memoria di Aldo Capitini e a partire dal suo saggio La compresenza dei morti e dei viventi».
Fra tutti emerge Alexander Langer, che Goffredo chiama semplicemente Alex: «il più lucido, il più persuaso e il più determinato dei militanti del suo tempo che è stato anche mio». Per definire Alex, Fofi usa proprio il termine «persuaso», che è parola capitiniana presa dal giovane filosofo e poeta Carlo Michelstaedter; la persuasione intima di una coscienza persuasa. Cosa sia la persuasione nonviolenta lo dice Pietro Pinna, altro amico di Fofi e discepolo di Capitini, con il quale ha condiviso la nascita e lo sviluppo del Movimento Nonviolento: «L’intimo persuaso è il fulcro delle scelte concernenti il valore (ciò che importa sommamente, che informa e dà senso alla vita umana), l’elemento che ne assicura la purezza e serietà e la sostanza ben maturata e salda. L’atto della persuasione si distingue in quanto, svincolato dal tempo usuale, si dà tutto nel presente, qui e subito, senza rinvii ad un mondo ultraterreno o ad un termine storico finale».

Tra Goffredo e Alex c’erano 9 anni di differenza, tanti quando si è giovani, tuttavia il loro è stato un rapporto paritario, maestro e discepolo l’uno dell’altro: «parlavamo spesso di quello che leggevamo e scoprivamo, e appresi da lui ad amare Ivan Illich come maestro indispensabile». La dura critica di Fofi al pacifismo ideologico, parolaio, rituale, simbolico, si arrestava solo per «il più degno e puro dei nostri pacifisti, Alexander Langer».
Per Goffredo la grandezza di Alex stava in quella sua capacità di muoversi tra l’antico e l’eterno del messaggio cristiano e la verde novità dell’ecologia, tra le esigenze della pace tra gli uomini e quelle dell’armonia con la natura, tra loro fittamente intrecciate, interdipendenti. Questo vedeva Fofi in Langer. «Ho pianto molto al suo funerale» rendendosi conto che quel giorno si piangeva una sconfitta che era di tutti e personale di ciascuno.
Scorrendo l’elenco degli amici di Goffredo «cari agli dèi», si capisce bene qual era l’orizzonte verso il quale amava guardare, quali erano le persone da cui traeva ispirazione. Uno di questi è Pino Pinelli, l’anarchico innocente, «una figura senza macchia», senza nessuno di quei cedimenti e di quei limiti, umani prima ancora che politici, che inficiarono l’azione collettiva di quegli anni. Pinelli, scrive Fofi, è stato esponente di quella tradizione della «rivoluzione aperta» (altra parola capitiniana) su cui si può e si deve ancora scommettere, di un umanesimo che aveva aperto le strade alle grandi lotte di milioni di persone la cui varietà e libertà venne purtroppo bloccata e deviata, pervicacemente e aggressivamente, dalla Terza internazionale al tempo di Lenin e poi, sua logica discendenza, di Stalin.
Anche Pinelli, a modo suo, è stato un capitiniano; la sua lezione, essenziale e semplice, resta un punto di riferimento per chi continua a non accettare il presente e le sue antiche e nuovissime regole, un punto di riferimento tra i più degni che abbiamo ereditato da un passato di sconfitte e di lutti. Si tratta di accettare o non accettare uno stato delle cose edificato sulla menzogna e sulla violenza. Il nonviolento Pino Pinelli non accettava la realtà e scommetteva su una persuasione ugualitaria, rispettosa delle differenze, convinta della necessità e della salvezza che potrebbe portare il mutuo soccorso tra i proletari, tra i poveri, solidale fino in fondo con chi ha meno o non ha, disponibile al sacrificio del superfluo, libera nel pensiero, del tutto nonviolenta. Questo era il mite Pino Pinelli.
Cari agli dèi, e a Goffredo, sono Mauro Rostagno e don Peppe Diana, vittime della mafia e della camorra per il loro lavoro di denuncia della violenza e difesa dei diritti a Trapani come a Napoli. Ci sono, nei ricordi di Fofi, anche i suoi luoghi del cuore, dalla Mensa dei bambini proletari a Napoli, alla comunità di Capodarco nelle Marche, luoghi di accoglienza, di convivenza, di quella rivoluzione concreta nata dopo il ’68 ideologico, dove Goffredo ha potuto mettere sul campo ciò che aveva già sperimentato e imparato a Trappeto da Danilo Dolci «dati i miei precedenti di maestro e di assistente sociale»; luoghi dove, all’inizio degli anni ‘70, venivano utilizzati anche gli obiettori di coscienza nello svolgimento delle prime esperienze di servizio civile, in un contesto di «cattolicesimo sociale» con «saldi valori civili grazie alla loro base solidamente cristiana» che avevano saputo resistere ai colpi della storia, alle sconfitte brucianti e secche non solo del ’68 ma di tutti i movimenti di rivolta degli anni post ’45.
Un capitolo a parte è quello dedicato alle donne («ho avuto più maestre che maestri, e più amiche che amici»). Dopo le nonne contadine, la madre e la sorella, Goffredo fa un lungo elenco di nomi femminili da cui ha imparato molto: Elsa Morante, Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Angela Zucconi, Maria Calogero, Camilla Cederna, per concludere con Grazia Honegger Fresco. Queste amiche, dice, gli hanno insegnato tanto quanto ha appreso dai suoi modelli della cultura e della politica, Salvemini, Bobbio, Revelli, Parri, Silone, Sciascia, Fortini, Zanzotto, Fellini, Pasolini «e Aldo Capitini, il più radicale e propositivo di tutti». Elenchi esaustivi che ci raccontano meglio di qualsiasi altro discorso, il brodo di coltura nel quale si è formato il suo pensiero, quell’umanesimo cristiano che prende il meglio del pensiero liberal-socialista.
Tra di loro non si sono mai conosciuti. Quando il primo è morto, a 49 anni, il secondo ne aveva solo 18. Due generazioni diverse. Sono Alexander Langer e Alessandro Leogrande, che Goffredo Fofi mette insieme, fa incontrare, dialogare, post mortem (vedi il libro Dialogo sull’Albania, edizioni ab).
Leogrande è stato un giovane scrittore, ricercatore, giornalista, morto troppo presto, che ha lavorato per e con Goffredo Fofi nelle riviste La Terra vista dalla Luna e poi Lo Straniero: «Di Alex parlammo molto spesso e in Alex Alessandro seppe riconoscersi, nel suo equilibrato, controllato intreccio di teoria e di pratica, di lucidità analitica e di passione politica. Alex fu da subito un punto di riferimento forte per Alessandro, e in qualche modo un esempio, un modello».
Fofi si chiede cosa avrebbero detto, cosa avrebbero fatto Alex e Alessandro, suo ideale continuatore o fratello minore, e come avrebbero cercato di svegliare dei giovani soddisfatti della loro schiavitù mediatica e della loro deriva narcisistica? «Non so dirlo, ma sono certo che Alex e Alessandro avrebbero cercato i modi giusti di reagire».
Negli ultimi scritti di Fofi, ci ho trovato molta malinconia, e anche note di pessimismo per una realtà in veloce deperimento, ma sempre con un sottofondo di rifiuto di adeguamento, una voglia mai repressa di trasformazione, di riscatto: «Il bene perde, Gandhi e Capitini hanno perso… ma Gandhi e Capitni hanno ancora molto da dirci, soprattutto a chi non accetta la realtà così com’è e vuole cambiarla».
Fino alla fine dei suoi giorni ha continuato il suo dialogo/polemica con la nonviolenza attiva, iniziato nel 1956 con Danilo Dolci. Non si è mai riconosciuto come militante della nonviolenza, non si è iscritto al Movimento di Capitini, ha conservato per sé una posizione indipendente, personale, in qualche modo eretica, ma sempre leale e di profonda stima e amicizia, pur nella critica: «Il mio percorso è stato in gioventù molto vicino ai nonviolenti, è stato da nonviolento

Non rinnego affatto quelle esperienze, ma mi sento comprensibilmente a disagio nel criticare chi è rimasto attivista della nonviolenza e ha vissuto da dentro le trasformazioni del movimento italiano, e un po’ me ne vergogno…». Quando l’abbiamo invitato a tante iniziative, come alle feste per i 50 anni del Movimento Nonviolento, nel 2011, e poi per i 50 anni della rivista Azione nonviolenta, nel 2014, Goffredo è sempre accorso, contento, generoso, pur senza tacere le sue critiche. «La nonviolenza non può fare a meno della disobbedienza civile», diceva. «La nonviolenza è fatta di tre cose: non fare il male; non mentire; non collaborare col male».
E ci accusava di aver abbandonato la strada della disobbedienza civile, riconoscendo però che «i nonviolenti hanno un passato di coraggio e di invenzione di cui non devono affatto vergognarsi e a cui sarebbe bello e giusto si rifacessero (loro o nuove generazioni di nonviolenti)». Non stiamo parlando qui di singoli casi, o di atti simbolici, ma di una vera e propria campagna di disobbedienza civile, come fu quella dell’obiezione fiscale alle spese militari, che lanciammo e sostenemmo dal 1981 (annuncio dei missili nucleari a Comiso) fino al 1989 (ottenimento legge di riforma dell’obiezione di coscienza) con migliaia di pignoramenti a singoli contribuenti obiettori e 16 processi (tutti conclusi con l’assoluzione) a noi promotori per «istigazione a disobbedire alle leggi di ordine pubblico». L’altra grande disobbedienza civile organizzata fu quella, nel 1991, del blocco dei treni che portavano le armi per la guerra del Golfo.
Anche in quel caso fummo processati e assolti dopo una lunga vicenda giudiziaria, per aver agito in stato di necessità putativa. Dunque, quando è stato necessario la disobbedienza civile nonviolenta l’abbiamo attuata. Ora le Campagne in atto (le due principali sono quella di Obiezione alla guerra e quella per la Difesa civile non armata e nonviolenta) sono in una fase di attuazione che prevede obiettivi politici (l’istituzione dell’Albo degli obiettori, e l’Istituzione del Dipartimento della Difesa civile) raggiungibili con passaggi democratici (Dichiarazione di Obiezione di coscienza, raccolta firme per la Legge di iniziativa popolare) e solo successivamente, se e quando sarà necessario, avverrà il salto sul terreno della disobbedienza civile, che – essendo una cosa seria – va praticata con coscienza, consapevolezza, persuasione, e adeguata organizzazione. Fatto questo chiarimento, e una sana litigata con Goffredo, siamo d’accordo con lui che «non si è nel giusto se non si praticano la nonviolenza, il pacifismo, la disobbedienza civile».

* L’autore è presidente del Movimento Nonviolento

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