• 13 Ottobre 2024 15:06

Azione nonviolenta – Giugno 2000

DiFabio

Feb 6, 2000

Azione nonviolenta giugno 2000

– Fermare la guerra fra Etiopia ed Eritrea, di Mao Valpiana
– Giovani turchi contro la guerra: testimoni che scuotono l’Europa, di Achille Ludovisi e Giovanni Grandi
– Yusup, che ha visto il paradiso, ma e’ tornato nella Cecenia infuocata, di Franco Perna
– Un silenzio di cinquant’anni per trasformare la morte in resurrezione, di Elena Buccoliero
– La marcia Perugia – Assisi del 1961 l’impegno nonviolento e pacifista di Capitini, di Luigi De Luca
– Islam Il Libro dei Re, poema epico di Firdusi, a cura di Claudio Cardelli

Rubriche

– Libri
– Cinema
– Musica
– Esteri

Fermare la guerra fra Etiopia ed Eritrea

Un appello perché il governo italiano intervenga subito

La guerra nel Corno d’Africa, la guerra fra Etiopia ed Eritrea è scoppiata nuovamente con una violenza che tramortisce e lascia senza speranze. L’Etiopia ha deciso di attaccare, ha deciso di vincere un conflitto assurdo, ha deciso di non lasciare nessuna opportunità alla pace. Lo ha deciso con cinismo e determinazione. Lo ha deciso nonostante gli sforzi della Comunità Internazionale per una soluzione pacifica. L’Eritrea aveva già firmato ogni accordo di pace, aveva aderito al piano messo a punto dall’Organizzazione dell’Unità Africa, era pronta a sottoscrivere una risoluzione delle Nazioni Unite sull’immediato ‘cessate il fuoco’. Ma l’Etiopia non vuole la pace, vuole vincere militarmente. L’esercito etiopico ha invaso una larga parte del territorio eritreo, ha costretto alla fuga gli abitanti di un importante città come Barentu, ha obbligato le organizzazioni umanitarie a interrompere il proprio lavoro a favore dei profughi della guerra a causa dei combattimenti, ha bombardato centri abitati e villaggi. I numeri, come sempre, sono da apocalisse: 30mila morti, 200mila nuovi profughi, un eredità di lutti e dolore. E nessuna luce in fondo al tunnel di questa nuova ondata di violenze in una delle più disperate terre dell’Africa.

Noi, che sottoscriviamo questo appello, abbiamo creduto alla pace nel Corno d’Africa, abbiamo creduto che fosse possibile un avvenire di speranze per generazioni di africani, abbiamo creduto che i miracoli di uno sviluppo economico e sociale potessero davvero realizzarsi in questa terra d’Africa. Vorremmo crederci ancora, nonostante quanto sta accadendo in queste ore. Vorremmo che il futuro non fosse negato ai popoli dell’Eritrea e dell’Etiopia. Vorremmo che l’aggressione etiopica, questa volta, fosse fermata prima che tutto diventi più irreparabile di quanto non lo sia adesso.

L’Italia ha doveri storici profondi in Corno d’Africa. Eritrea ed Etiopia sono legati da vincoli reali al nostro paese. L’Italia può giocare un ruolo autentico: è un interlocutore ascoltato ad Asmara come ad Addis Abeba. La cooperazione italiana ha investito risorse, uomini, denaro in queste due terre. L’Italia può agire, può convincere l’Etiopia della sua follia, può alzare la voce, può pretendere che le armi tacciano, che l’esercito etiopico si ritiri. Se così non fosse, il Corno d’Africa annegherebbe di nuovo, e per decenni, nella violenza. L’Italia può fermare, almeno può tentare di fermare, questa guerra. Può costringere il governo di Addis Abeba a cessare il suo attacco. E’ un intervento che il governo italiano, le forze politiche, il Parlamento non può non fare. Non è possibile che oggi, in qualunque parte avvenga, sia consentito alla violenza di guidare la politica, alla guerra di decidere le sorti di un popolo o di una terra.

Noi chiediamo al governo italiano di fare l’impossibile purché questa guerra finisca. Noi chiediamo che la pace ritorni in Corno d’Africa. Noi chiediamo che l’esercito etiopico lasci i territori eritrei e che nuovi negoziati rendano speranze che oggi appaiono sepolte. E chiediamo che questo avvenga in fretta: non è giusto morire in questa guerra.

NIGRIZIA, MANI TESE, RAGGIO, ACLI (Milano) , ACRA (Associazione di Cooperazione in Africa e America Latina ), ADE (Adozioni a distanza Eritrea), AdOCS (Associazione degli Operatori di Cooperazione allo Sviluppo), AFRICHE, AICOS, ALTRAECONOMIA, PEACE GAMES, ANNULLIAMO LA DISTANZA, ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO, A.So.C. Vicenza , ASSOCIAZIONE DI AMICIZIA ITALO-ERITREA, C.R.I.C., CHIAMA L’AFRICA, CIPSI, CISV, CITTADINI DAPPERTUTTO, COCIS, COCIS, COMBONI PRESS, COMITATO DI SOLIDARIETÀ CON IL POPOLO ERITREO,COMITATO MESSINESE DI AMICIZIA AL POPOLO SAHRAWI,COSPE, ECPAT-Italia,EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA (EMI), MISNA, ERIMA (Ass. Medica eritrea), FORUM MONDIALE DELLE ALTERNATIVE,GMA Montagnana, ICEI, L’ALTRAPAGINA, MISSIONARIE DELLA CONSOLATA, MLAL, MOVIMENTO NONVIOLENTO (VR), OEW – Organizzazione per Un Mondo Solidale, PAX CHRISTI, RINATURA, Segreteria FESMI, SERVIZIO INFORMAZIONI CONGOSOL, TERRE DI MEZZO, VIDES INTERNAZIONALE, VIS
Giovani turchi contro la guerra: testimoni che scuotono l’Europa

 

Obiezione di coscienza in Turchia: un diritto negato

A cura di Achille Lodovisi e Giovanni Grandi
Tra pochi giorni torneranno in Turchia alcuni volontari del Servizio Obiezione e Pace, l’ultimo progetto di intervento nonviolento in aree di conflitto e in paesi sottoposti a regimi dittatoriali promosso dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, la cui caratteristica principale consiste: nel vivere con le vittime della violenza, sostenendo e facendo conoscere in Italia e in Europa quei gruppi che all’interno della stessa società civile attuano forme di lotta non violenta per vedere riconosciuti i propri diritti e mutare la situazione. I volontari del servizio obiezione e pace hanno operato nell’Operazione Colomba ed in alcuni di questi paesi stanno tuttora lavorando in Krajina, Timor Est, Chiapas, Kosovo e Cecenia. In Turchia stanno collaborando con quanti si battono per la libertà di stampa e di opinione, per il rispetto dei diritti umani e per il riconoscimento dei diritti del popolo curdo.
Questa volta torneranno per offrire solidarietà ed appoggio allo IAMI (Iniziativa Antimilitarista di Istanbul), un’associazione nata dalla volontà di alcuni obiettori di coscienza (odc) di supportare Osman Murat Ülke, il primo obiettore turco che ha espresso pubblicamente il proprio rifiuto al servizio militare, pagando questa scelta con una condanna al carcere a vita, ma di tipo particolare: attualmente Osman è libero, ma può essere incarcerato in qualsiasi momento senza preavviso alcuno e senza conoscere la durata del periodo di detenzione, come è già avvenuto in passato. Non si tratta quindi di una condanna certa con una pena definita e definitiva da scontare, bensì di una spada di Damocle che pende sul capo del ‘colpevole’ perseguitandolo per tutta la vita.
I membri dello IAMI, che fanno parte della rete internazionale dei War Resisters, sono promotori di una ‘Campagna per la pace, l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza ed una cultura non violenta’, progetto che si articola in una serie di appuntamenti, il primo dei quali si è svolto a Istanbul il 15 maggio in concomitanza con la dichiarazione pubblica di Ugur, un ragazzo che ha decisodi consegnarsi alle autorità turche dichiarandosi pubblicamente obiettore di coscienza e rifiutando l’arruolamento nelle forze armate.
Seguirà un’azione su vasta scala contro l’obbligo del servizio militare con lo slogan: ‘Libertà per l’Obiezione di Coscienza’. In Turchia, infatti, il diritto all’obiezione di coscienza non è riconosciuto e chi compie tale scelta viene considerato disertore, mentre per il fatto di rendere pubblica la decisione si incorre in una condanna supplementare con l’accusa di allontanare le persone dal servizio militare. La pena, come si è detto, è il carcere a vita.
Nel corso del precedente viaggio in occasione del Newroz, il capodanno curdo che si festeggia il 21 marzo, i volontari di Operazione Colomba (del servizio Obiezione e Pace), hanno incontrato alcuni membri dello IAMI, tra cui lo stesso Ugur, il quale ha rivolto un pressante appello alla società civile italiana ed internazionale, in particolare agli obiettori e a tutti coloro che si riconoscono nei valori della pace, dell’antimilitarismo e dei diritti umani: Perché l’iniziativa possa avere il massimo risultato è importante condividere questa giornata, per far intendere al governo del paese che il problema non è solo ‘affare turco’. Sarebbe anche importante organizzare una raccolta di fondi per sostenere la campagna. Per questo suo gesto anche Ugur rischia di finire in carcere. Ed è per sostenere il suo coraggio e la sua coerenza che i volontari hanno deciso di unirsi al suo appello e partecipare alla manifestazione.

Intervista a Ugur, obiettore di coscienza di Istanbul

Sono nonviolento, mi attende il carcere a vita…

Raccontaci di te…
Nel 1986 sono entrato alla scuola militare, una decisione forzata in quanto la mia famiglia non poteva permettersi una scuola a pagamento e la scuola militare è gratuita. Dopo pochi giorni, a forza di ubbidire agli ordini e marciare in riga, ho subito capito che non faceva per me. A 17 anni, finalmente terminata la scuola, sono dovuto entrare all’accademia militare, ma a quel punto la decisione di abbandonare le forze armate era già presa. Secondo quanto prevede lo statuto della scuola militare, però, ciò non è assolutamente possibile; l’unico modo è di farsi espellere. Così ho cominciato a compiere gesti indisciplinati, marciando in senso opposto o infilandomi gli abiti a rovescio!! Poiché non ero l’unico che voleva andarsene, altri sei ragazzi hanno iniziato ad imitarmi, creando non pochi problemi all’accademia. Mi hanno messo in punizione per 40 giorni, ma dopo appena 6 giorni, mi hanno cacciato. In seguito mi sono iscritto all’università per sfuggire al servizio di leva; ho cambiato tre facoltà, soltanto per evitare la chiamata. Non mi importava del Governo e delle sue istituzioni, anzi me ne prendevo gioco. Attualmente non ho alcuna possibilità di tornare all’università, ma non lo vorrei nemmeno, poiché ho deciso di confrontarmi faccia a faccia con il Governo, senza più nascondermi. Ho anche avuto l’opportunità di espatriare, ma ho rifiutato perché se decido di andare all’estero lo voglio fare per scelta personale e non per necessità.
Come hai maturato la decisione di diventare obiettore di coscienza?
L’anno scorso ci sono state le elezioni, che sono state vinte dal partito fascista, e proprio in quel periodo ho cominciato ad interessarmi a temi come la non violenza, l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza. Ho visto la pagina web dell’ISKD di Izmir, dove si parlava anche dei War Resisters e del gruppo IAMI di Istanbul. Ero molto interessato, così ho telefonato, sono venuto qui e da allora sono anch’io membro dello IAMI. In definitiva le ragioni per non essere militare sono tantissime ma la principale è che sono anarchico. Non concepisco la violenza, non uso la violenza e non voglio imparare ad usarla. Non voglio ubbidire a nessun altra autorità se non a me stesso.
Parlaci della forma di lotta che state portando avanti.
Credo che l’unica forma di lotta possibile sia la lotta nonviolenta. È la sola alternativa valida al regime militare turco, anche se è una scelta ancora troppo difficile per la maggior parte della popolazione viste le condizioni della Turchia. Probabilmente lo potrà diventare nel tempo, ma per ora siamo ancora in pochi numericamente a optare per questa forma di lotta.
Cosa puoi dirci dell’obiezione di coscienza in Turchia?
Durante questi 15 anni di guerra tra esercito turco e guerriglieri del Pkk, il numero degli obiettori è aumentato sempre di più. Tra i ragazzi che decidono di non fare il servizio militare, la maggior parte tenta di fuggire clandestinamente in Europa piuttosto che dichiarare pubblicamente la propria scelta. Le cifre parlano di circa 400.000 disertori in Turchia. Non è detto che siano tutti antimilitaristi e non violenti; molti vogliono semplicemente evitare il servizio di leva, che dura ben 18 mesi. Moltissimi ragazzi curdi, poi, disertano per non essere costretti a combattere nel loro stesso villaggio contro civili curdi.
Hai deciso di consegnarti all’autorità militare presentando il tuo rifiuto al servizio militare. Pensi che questo gesto avrà un significato per la popolazione civile in tutta la Turchia?
Se la gente comprenderà il significato del mio gesto non dipenderà da me, ma dalla loro sensibilità ed attenzione per la mia situazione e quella di tutti gli odc. Io lo faccio perché ci credo fino in fondo e questo resta il primo motivo. È un gesto personale. Posso essere un esempio, ma non è la cosa più importante. Io leggerò la mia dichiarazione e sarà solo l’inizio di una campagna per il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza e per fare sì che altri giovani trovino il coraggio di dichiarare apertamente la loro decisione. Chiediamo in questo modo che ci sia una pena definita e non più il carcere a vita per chi decide di obiettare al servizio militare. Crediamo che questa campagna possa diventare un’occasione per la gente per confrontarsi e per contrastare in qualche modo il potere del governo.
La Turchia è impegnata militarmente su due fronti: con la Grecia per quanto riguarda l’isola di Cipro e con i curdi del Pkk per quanto riguarda il sud-est. Credi che questo tuo gesto possa avere un peso nei confronti di questi conflitti?
Se il mio gesto contribuirà a migliorare la situazione nel Sud Est o a Cipro, non posso che esserne felice, ma ci tengo a precisare che la mia è una scelta legata alla guerra in sé. Se vivessi in un paese senza guerra, la mia scelta sarebbe identica. Comunque ci stiamo dando da fare per aprire ad una collaborazione con gli odc greci e creare un coordinamento.
Cosa possiamo fare noi in Italia per sostenere te e gli altri obiettori nella vostra azione?
Vi chiedo di parlare della nostra situazione per far sapere alla gente quello che accade e quello che vivono gli obiettori in Turchia; mi sembra valida l’idea di organizzare qualcosa in contemporanea in Italia. Vi chiediamo di partecipare alla nostra campagna anche in futuro con iniziative in Italia e in Europa.

INFO: Servizio Obiezione e Pace Tel./fax. 0541/751624 Cell. 0348.2488126 e-mail: odcpace.apg23@libero.it
Per contribuire alla campagna per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza in Turchia e per sostenere i progetti del Servizio è possibile fare un versamento sul ccp. 13792478 Intestato all’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, via Mameli 1 – 47900 Rimini con causale di versamento Servizio odc & pace – Turchia.

Yusup, che ha visto il paradiso ma è tornato nella Cecenia infuocata

Impressioni e riflessioni ai margini di un viaggio in Russia

a cura di Franco Perna

Per rispondere all’invito di alcune organizzazioni russe il Servizio Civile Internazionale (SCI) ha inviato un gruppo per studiare / esplorare in loco le possibilità di servizio volontario e di scambi, soprattutto in regioni della Russia asiatica, fino a Khabarovsk e Vladivostok, percorrendo oltre 20.000 km, dei quali 900 con la Transiberiana.
Abbiamo incontrato rappresentanti di una dozzina di organismi locali interessati a scambi di volontari col SCI. Sotto questo profilo il viaggio – studio si è rivelato utile e promettente per il futuro ; infatti, alcuni progetti sono già in cantiere per quest’estate. Una cosa, però, ci ha lasciati perplessi : la mancanza d’informazione e quindi di preoccupazione riguardo alla situazione in Cecenia, se non fosse per le notizie – anche queste, tuttavia, poco diffuse – di casi tragici di soldati russi uccisi o che disertano l’esercito. Pare si sappia di più sulla situazione nell’ex Jugoslavia che su quanto sta accadendo nella stessa Russia. In verità, anche noi in Occidente sappiamo poco della Cecenia, in quanto i nostri governi (e i mass – media) preferiscono coltivare buone relazioni di amicizia con le autorità russe per ovvi interessi commerciali. Intanto alle porte della nostra “Fortezza Europa” si consuma, quasi in silenzio, una ennesima tragedia umana.
Ogni tanto, però, grazie alla dedizione di alcune persone, sostenute da piccoli gruppi, si sentono bellissime storie in cui il coraggio vince la miseria umana. Eccone una narrata da Chris Hunter, quacchero inglese, che dirige un centro per la pace e lo sviluppo comunitario in Russia. Il racconto è stato pubblicato dal settimanale The Friend di Londra (28 aprile 2000) ; se ne dà qui un breve sunto.
Yusup è un adolescente, unico maschio della sua famiglia, che vive in un piccolo paese della Cecenia. La tradizione vuole che in mancanza del padre sia Yusup ad occuparsi della madre e delle tre sorelle. Nei momenti liberi gli piace giocare a pallone con i suoi coetanei. Un giorno, però, proprio mentre giocava all’aperto, un improvviso bombardamento uccise tre dei suoi compagni ; Yusup rimase gravemente ferito. Venne soccorso, ma la mancanza di adeguati servizi sanitari gli causò la perdita di ambedue le gambe e un’infezione tale per cui il cuore cessò di battere e Yusup entrò in coma. Ormai non c’era più speranza di salvezza per lui, quando – dopo circa 15 minuti – Yusup riprese lentamente a vivere e cominciò a raccontare che aveva attraversato un tunnel luminoso, trovandosi poi in un bellissimo posto alla presenza di belle persone, le quali gli avevano chiesto se volesse rimanere lì con loro. Egli aveva risposto che non poteva, poiché doveva occuparsi delle sue sorelle e di sua madre, e fece ritorno, contento di aver visto finalmente qualcosa di bello…
Chris Hunter prosegue il racconto spiegando come Yusup sia stato in seguito curato da alcuni dottori tedeschi ed infine affidato al suo Centro, assieme ad altri adolescenti – anche meno fortunati di Yusup – che trovano coraggio ed energia per guarire dai mali causati dalla guerra e vivere pienamente la loro vita. Purtroppo, il destino di decine di migliaia di altre persone in Cecenia è caratterizzato da tragedie ancora maggiori e speranze sempre minori. Le atrocità commesse sono semplicemente indescrivibili. Benché i soldati uccisi siano migliaia, sono soprattutto i civili a pagare il tributo più alto a questa guerra insensata. Il centro per la pace e lo sviluppo comunitario (CPCD) cerca inoltre di facilitare i contatti con i ceceni impegnati a costruire la pace dal basso, perché possano rendere testimonianza del loro lavoro. E’ stato il caso di Zura Betieva, arrestata e torturata assieme a sua figlia, che – grazie a questo centro – è riuscita a raggiungere Mosca e a parlare a molte associazioni di quanto succede in Cecenia. Alla stessa maniera, un piccolo gruppo di ceceni è riuscito a raggiungere anche Ginevra per esporre la situazione alla Commissione dell’ONU per i diritti umani. Il CPCD opera regolarmente nei campi profughi, ove gestisce un programma psico – sociale diretto ai più giovani, tramite giochi terapeutici, per permettere loro di vivere momenti di vita “normale”. Gruppi di volontari particolarmente colpiti dal trauma della guerra vengono inviati alla vicina Ingushetia per essere curati da una quarantina di psicologi e assistenti sociali che lavorano affiancati al Centro; quest’ultimo si avvale anche dell’appoggio di altre ONG, agenzie dell’ONU e – fino a qualche mese fa – delle stesse autorità russe. Ciò avveniva comunque nelle zone limitrofe, perché nella stessa Cecenia non arriva praticamente nessun aiuto umanitario, benché la propaganda russa indichi il contrario. Atti di dignità umana e di compassione, spesso per vie misteriose ed impensabili, riescono a raggiungere il cuore di molte persone, benché questo processo non sia facilitato dai media.
La maggior parte dei ceceni non nutre risentimento verso i russi, essendo questi ultimi ugualmente vittime del loro stesso regime.
Una piccola minoranza di russi guarda al di là della propaganda ufficiale per valutare la situazione reale e offrire tutto l’aiuto possibile. Ragazzi come Yusup non si perdono in amare considerazioni su quanto accade, ma mirano con speranza ad una vita futura più pacifica. Per la fine di questo incubo e la ricostruzione di una Cecenia ormai devastata, la comunità internazionale deve assumersi maggiori responsabilità. Le ONG, le Chiese e i governi possono aumentare il flusso di aiuti destinati alle vittime. Noi tutti possiamo far pressione sui nostri governi perché non chiudano gli occhi sulle atrocità commesse nei confronti della popolazione civile.
Dobbiamo fare questo non solo per persone come Zura Betieva e Yusup (che sta nuovamente imparando a camminare), ma anche per noi stessi, se vogliamo realmente impegnarci a creare un mondo più giusto e meno violento in cui vivere.

Nostra intervista a Elisa Springer, sopravvissuta ad Auschwitz
Un silenzio di cinquant’anni per trasformare la morte in resurrezione

A cura di Elena Buccoliero

Un cerotto può bastare ad occultare la verità. E’ la storia di Elisa Springer, 82 anni, austriaca di religione ebrea, che per oltre cinquant’anni ha nascosto il numero di matricola che i nazisti vollero imprimerle a fuoco, e con esso tutta la sua storia. La donna gentile e riservata, la donna vibrante e fortissima che, incoraggiata dal figlio, ha deciso di rendere al mondo la sua esperienza attraverso Auschwitz-Birkenau, Buchenwald, Bergen-Belsen, Theresien, dapprima con un libro, “Il silenzio dei vivi” (Marsilio, 1997), e poi con innumerevoli incontri presso scuole, comuni, biblioteche e associazioni, perché l’orrore non venga dimenticato, affinché non possa ripetersi.
“Io Elisa Springer oggi sono qui per aprirvi un angolo del mio cuore”, si annuncia in uno dei suoi tanti appuntamenti, mentre la piccola sala zittisce per l’emozione. “E’ questo l’insegnamento che io posso trarre dal mio dolore: hanno tentato di distruggermi, di cancellarmi dalla vita, e hanno invece salvato la mia anima, la mia forza e i miei ricordi”.
Ci ritroviamo, al termine dell’incontro, per scambiare ancora qualche parola a partire dalle pagine del “Silenzio dei vivi”. Con noi, due esperienze totalmente diverse, una sincera attenzione reciproca, la volontà di Elisa Springer di essere testimone.

Una delle prime cose che colpisce nel libro è la cura, la delicatezza con cui racconta nei particolari la sua vita prima del periodo di internamento.
Vede, io non sono né un’oratrice né una scrittrice, io parlo solamente dal cuore al cuore. Così, in modo facile, come mi è venuto, come so parlare. Man mano che ricordavo ho steso gli appunti, poi li ha corretti mio figlio perché il mio italiano non è perfetto, ed è uscito il libro.
Nel libro scrive: “Dio mi ha concesso di liberarmi dalla prigionia del passato, attraverso le pagine di questo libro”.
Certo. Certo, perché ho portato per oltre cinquant’anni tutto dentro. Attraverso la scrittura mi sono liberata di un peso, e adesso sono gli altri che mi aiutano a portarlo.
Lei ha mantenuto il silenzio per moltissimo tempo. Proprio verso tutti?
Con pochissime persone ho solo accennato, ho detto che sono stata in campo di sterminio ma oltre quello non sono andata, non ho raccontato quello che veramente ho vissuto.
Neppure con le persone più strette, con suo marito..?
No, e le dirò il motivo. Mio marito era molto cattolico e come lui tutta la sua famiglia. Dove vivo io, non solo a Manduria ma anche in tutti i paesi vicini, sono l’unica ebrea e i familiari non volevano che io mi rivelassi per paura di ripercussioni, sia su mio figlio che su di me.
Temeva di non essere capita?
Sì, di non essere capita e anche di essere perseguitata. Perché ero ebrea, perché mio figlio aveva una madre ebrea. Vede, nel meridione non hanno vissuto la guerra, né la Resistenza, i bombardamenti, niente. E poi io ho taciuto per tanti anni perché nessuno voleva sapere. Avrei avuto tanto bisogno di aprirmi, di parlare, di liberarmi di quel fardello che mi trascinavo dietro, ma mi ridevano in faccia e dicevano: non è vero, non ti credo. E quel silenzio significava per me la morte. Oggi però – è da cinque anni che io faccio questi incontri – trovo un altro silenzio che è di attenzione, di commozione. Lo incontro ovunque vado, e mi ha ridato la vita.
E’ stato suo figlio ad invitarla a parlare.
Sì, certo, quando si è fatto grande ha voluto sapere. Vedeva quel cerotto sul braccio, mi ha chiesto e io ho spiegato. Mi ha detto: “Togliti quel cerotto, non sei tu a doverti vergognare, ma gli altri”. Oltre tutto ero vedova – sono ormai 19 anni che mio marito è morto – quindi non avevo più nessun freno, come dire?, mi sono aperta e mi sono auto-denunciata.
Che cosa è scattato in lei quando ha deciso di parlare?
Mi sono liberata in parte, in gran parte di quel peso. E volevo liberarmi di quel peso. Ero arrivata già a 77 anni, ho pensato: è possibile che una storia del genere debba essere sepolta insieme a me? Se parlo, posso lasciare qualche cosa anche a mio figlio, posso lasciare una memoria. E poi è venuto il libro, mai più pensando che avrebbe avuto tanto successo. Oramai siamo alla sedicesima edizione, in tre anni 90.000 volumi, non è una cosa da niente. Mi ha dato tanto soddisfazione, mi ha fatto vedere che la gente vuol sapere, che la gente mi vuole bene, e questo mi ha ridato la vita. Ho uno scopo, adesso, nella vita. Oltre mio figlio, naturalmente, ma lui ormai è uomo.
Quali reazioni ha avuto dalle persone che non sospettavano niente?
Reazioni benevole, solo reazioni benevole. Oggi mi amano tutti e mi spalancano le porte dappertutto.
In quei primi anni in Puglia, e prima a Milano, ha vissuto come cattolica?
Certo, i primi anni sì.
Penso sia stato un peso enorme doversi portare tutto dentro.
Io mi sono auto-annientata. Io non ero più Elisa Springer, io ero soltanto la signora Sanmarco, e basta. Mi ero annientata e poi ho vegetato, non vissuto. Sì, è stato… è stata dura, anche dopo.
In qualche modo però tutte queste cose avranno dovuto trasparire. Se non nelle parole…
No, sul mio carattere piuttosto. Perché la sofferenza che ho subito, prima in campo e poi dopo, quel dover tacere, annientare me stessa, sono cose che influiscono sulla persona. Io oggi non riesco più a gioire molto, come non riesco più a sentire un forte dolore. Certamente, sono le conseguenze. Né riesco più ad essere molto espansiva, c’è sempre qualcosa che mi trattiene.
C’è stato, dopo tutto l’orrore, un momento in cui ha sentito che era di nuovo a casa?
Veramente a casa, mai. Mi sono sentita veramente a casa da quando ho cominciato a raccontare. E da quando tengo nel mio soggiorno le fotografie dei miei che ho avuto molti anni dopo – perché in campo mi hanno tolto tutto, anche le fotografie. Le ho riavute da una sorella di mia madre che è riuscita a sopravvivere a Shanghai, che poi è ritornata e mi ha portato tutte le fotografie di mia madre, dei miei nonni. Mi sentivo perduta perché non avevo più nemmeno un’immagine. Invece adesso quando sono sola – e mi piace stare sola, molte volte ne ho il desiderio – posso parlare con i miei cari.
Nel “Silenzio dei vivi” parla di tante, diverse solitudini.
Sì. Perché c’è sempre una solitudine interna.
Ci sono anche solitudini che le hanno dato molto dolore.
In molti momenti sì, certo. Esiste un dolore profondo, amaro, elevato, eterno e silenzioso. Il dolore profondo di dirsi vivi anche quando i ricordi sono straziati e si è avuta comunque la fortuna di vedere ancora la primavera. Ma oggi è diverso, oggi io cerco la solitudine per poter stare sola con i miei pensieri, con i miei ricordi. Mi piace stare sola.
Com’è stato imparare a star sola?
Quando sono tornata non avevo più nessuno, si impara a stare soli anche se non si vuole. Il tempo insegna. Che poi sono stati pochi mesi, perché io sono tornata nell’agosto del ‘45 e nel maggio del ‘46 ho conosciuto mio marito. Ma in quei pochi mesi sì, c’era una grande solitudine.
Si è innamorata?
Sì, diciamo sì. Ho trovato una persona che mi ha compreso e che mi ha detto, dal primo momento che mi ha incontrata, “non ti lascerò più sola. Adesso ci sarò io”.
La Liberazione avviene poche ore prima del suo risveglio da tre settimane di coma.
Infatti. Siamo stati liberati l’8 maggio del ‘45 e io mi sono svegliata il 9 maggio. Eravamo già liberi, insomma, il momento della gioia io non l’ho vissuto. E dopo tutto anche quando mi sono svegliata sì, non avevo più febbre, ero fuori pericolo, però ero appena uscita da un coma profondo. Sono stata portata all’ospedaletto del campo di Theresien, lì mi hanno trattata molto bene, mi sono vista per la prima volta in un lettino di ferro smaltato bianco, con un materasso, con lenzuola, coperte, e ho capito che qualcosa era cambiato. Con tanto affetto, circondata dagli infermieri che mi hanno fatto mangiare, mi hanno tirata su… Senza medicine. Non c’era più bisogno di medicine, ero già fuori pericolo. Tutto da sola. E la mano di Dio, non si può dire altro.
Sto pensando a persone che hanno vissuto la sua esperienza ma non ce l’hanno fatta.
Ma, vede, molte si sono anche lasciate andare. Quello che ho potuto fare io, da parte mia, è stato non arrendermi mai. Anche se il mangiare era pessimo, immangiabile, io l’ho buttato giù perché capivo che, non mangiando, sarei morta subito. E poi non ribellarsi mai, perché ribellarsi significava essere eliminati, cercare di ubbidire subito ai comandi… Mi ha aiutata la conoscenza della lingua tedesca, perché loro i comandi li davano soltanto nella loro lingua e pretendevano che tutti capissero. Quando ho potuto, per quelli che mi stavano a fianco, ho cercato di tradurre in inglese, o in italiano, ma a chi non capiva, non ubbidiva subito, le frustate non le toglieva nessuno. Minimo, le frustate. E insomma, io queste cose le ho potute evitare perché capivo il tedesco. E poi con me c’era la mia amica Hedy.
Ho pensato molto a quanto dev’essere stato importante che ci fosse Hedy.
Certo, perché tutte e due abbiamo detto: cerchiamo di sopravvivere. Per esempio, ci siamo divise il pasto. Ci dicevamo: Hai molta fame? Se lei diceva sì, io le cedevo la metà del mio rancio, se io dicevo sì, me lo dava lei. Ecco, questo abbiamo potuto fare, aiutarci finché si poteva. Lei aveva un marito e un figlio per i quali voleva tornare, io pensavo che mia madre fosse ancora in vita, non sapevo, allora, che fosse stata eliminata.
Nelle pagine che seguono la Liberazione, lei parla della ‘paura di essere viva’.
Beh, perché c’era sempre la paura che quei tempi potessero ritornare. Questa è una paura che ti resta. Sempre. Io preferisco non vedere nemmeno il telegiornale per il timore di qualche notizia, di qualche striscione negli stadi… sono cose che mi spaventano molto. Mi auguro che quei tempi non tornino più, però si vive sempre nella paura.
La cronaca rimanda segnali inquietanti, dai gruppi giovanili, alla politica.
E’ sempre una pugnalata al cuore. Mi ha fatto male la faccenda di Heider in Austria, mi ha fatto male il processo ad Irving, come mi fanno male le trasmissioni in Rai, le partite di calcio, quando vedo gli striscioni con simboli nazisti. E’ questione che, specialmente tra i giovani, oggi si è perduta la fede. In molti non c’è più posto nel cuore per Dio, mentre noi tutti siamo sempre nel cuore di Dio. Dio ci ha creato tutti uguali, per lui siamo tutti figli, ma in quante persone nel cuore c’è ancora posto per Dio? Finché l’uomo non capirà che bisogna amare e non odiare, purtroppo queste cose succederanno sempre. L’unica cosa, mi auguro che non si arrivi più alle cose di allora. Perché io dico sempre, io rispetto tutte le opinioni e tutte le tendenze purché non diventino violenza.
E c’è ancora chi si ostina a negare tutto…
Molto spesso sento dire: tutti i film che si vedono, tutto quello che si sente, è vero? E’ vero e non è abbastanza. Non si può descrivere quello che noi provavamo aspettanto e vivendo la morte minuto per minuto.
Lei parla anche di come ha riconosciuto a se stessa il ‘diritto di essere viva’.
Io mi sono sempre affidata nelle mani di Dio, sempre. E Dio mi terrà in vita finché vorrà Lui, finché crede Lui che io possa ancora servire sulla terra. Quando dirà basta, mi chiamerà.
Nel libro lei incontra spesso l’indifferenza degli altri, prima nei campi e poi quando esce, ancora.
Sì, ma l’indifferenza c’è stata per parecchio tempo. Non so se la gente aveva paura o se era proprio che non voleva sentire più… non lo so, il perché non lo so nemmeno io, non le potrei rispondere perché. Come non potrei dire perché tutto questo odio verso gli ebrei.
Vede, io fino al ‘38 non mi sono mai sentita una ebrea. Io ero una vera e propria ragazza viennese, nata cresciuta pasciuta a Vienna, figlia di genitori viennesi. Mi sono sempre sentita una ragazza viennese, di religione ebraica. Non c’era mai stata differenza tra me e le mie compagne di scuola, niente. Poi nel marzo, da un giorno all’altro, loro non potevano più essermi amiche.
Qual è stata la ferita più grande?
Le ferite sono tante, sa? La morte dei miei, per iniziare. Quella mia, personale, è stato il momento della sauna, perché là è avvenuta la vera e propria spersonalizzazione. Ci sputavano in faccia, ci davano del tu. Eravamo davanti ai guardiani, uomini e donne che ci spingevano con la canna del fucile. Doverci spogliare dovanti a loro, essere scherniti, quella era la cosa più tremenda. Per quanto, tutto era orribile, qualsiasi cosa. Questo essere trattati come e peggio delle bestie. Eravamo solo numeri, o pezzi, come dicevano loro.
Penso che mantenere con se stessi la propria dignità sia stato…
Difficile. E’ difficile, è duro. Anche dopo, sono ricordi che non se ne vanno mai.
Lei ha cercato di dimenticare tutto?
No. Non si può dimenticare. Non è possibile dimenticare. Perché io faccio continuamente dei confronti. Non è possibile dimenticare, io la mattina mi sveglio e mi vedo in un letto, e penso al tavolaccio dove dormivo allora. No, non è possibile dimenticare, ce l’hai sempre il quadro di Auschwitz. Specialmente di Auschwitz perché è stato il campo più brutto, più grande, 43 chilometri quadrati. Ti ricordi ogni cosa, ogni piccola cosa. E se io ancora, a 82 anni suonati, giro tutta l’Italia e qualche volta anche all’estero – non è facile, si perdono le proprie abitudini e si soffre – lo faccio volentieri perché voglio tener viva la memoria.
Che cosa le ha dato la forza di continuare, dopo?
Ho avuto la certezza che la vita è un grande dono e vale comunque sempre la pena di essere vissuta. Poi mi ha aiutato il fatto di conoscere mio marito a Milano, e malgrado tutte le sofferenze sono riuscita a mettere al mondo un figlio sano. Mi chiedono: ha un solo figlio? Sì, ed è stato un miracolo averlo. Lui mi ha dato la forza, dovevo andare avanti, avevo un bambino, un dovere.
Oggi mi sento il dovere di trasmettere amore agli altri. E’ difficile raccontare la Shoà. L’infinito dolore che l’uomo ha saputo infliggere all’uomo, negazione di ogni senso umano e divino. Tuttavia della Shoà si deve parlare. Di questo dolore che col tempo diventa sentimento forte, diventa amore da donare agli altri.
Una voce incessante per ricordare quello che è avvenuto.
Per molto tempo la nostra dignità silenziosa ha dato senso alla nostra esistenza. Oggi la gridiamo e la doniamo alla coscienza delle giovani generazioni, perché dia un senso alla speranza e perché abbia un senso la nostra sofferenza. Oggi la raccontiamo per ricordare i martiri, perché non muoiano una seconda volta. E’ questo l’impegno e il coraggio che io chiedo ai giovani che incontro: non abbiate paura della memoria ma custodite attraverso essa il vostro domani, date dignità alla vita restituendo l’uomo all’uomo. Non abbiate paura del vostro presente, non barattate la vostra dignità. Non barattate la vostra anima con il nulla che a volte vi circonda cercando di impossessarsi delle vostre debolezze e confinandovi invece in nuovi recinti e nuovi lager. Siate voi la luce e la forza della mia speranza.
Elisa Springer

Il silenzio dei vivi

Il silenzio dei vivi è la storia della vita di Elisa Springer.
Sono molte, e straordinarie, le testimonianze di chi è tornato. Vale dire le peculiarità di questo libro che pronuncia parole amare, sincere, dirette. Sgorgano dal cuore dopo oltre cinquant’anni di silenzio, e forse proprio per questo ogni ricordo è stato rielaborato, ripensato infinite volte e giunge ora a noi nettissimo e duro, vicinissimo e al tempo stesso schermato attraverso la distanza resa possibile dal tempo. In poche righe Elisa Springer ritorna al nostro fianco, scavalca la pagina quasi a trasmetterci la certezza che sta trasmettendo un ricordo, un fatto lontano, e per un istante possiamo tirare il fiato. Ed è grazie al tempo che può mostrarci il dopo, che cosa significa vivere con questo fardello e quanto questo può incidere nella vita di tutti i giorni, propria e dei propri cari, anche quando la paura grande è passata.
Commuove invece nelle prime pagine la precisione dei ricordi d’infanzia, la tenerezza che circonda la giovane Elisa Springer, ragazza colta, nobile, vivace. E poi le fughe presso famiglie che accettavano di proteggerla: il testo è disseminato di indirizzi, non solo le città ma le vie e i palazzi fino al capannone di Auschwitz-Birkenau, quasi che nel dettaglio l’autrice ricercasse non solo la storicità ma la ricostruzione di un’identità personale che tutto, in quegli anni, tentava di frammentare. E naturalmente gli incontri, i brevi squarci di solidarietà in mezzo a tutto l’orrore, e poi la fatica di ricostruirsi, di restituire a se stessa il diritto, il coraggio, di essere viva.
Con Il silenzio dei vivi (Marsilio, 1997) Elisa Springer ci trasmette una testimonianza durissima, tuttavia percorsa da una speranza che resiste e sembra trovare il senso, riscattare l’inferno della Shoà come una preghiera:
“Ho ritrovato Dio. Dio era lì, che raccoglieva le mie miserie e sollevava il velo della mia oscurità”.
E ancora: “Io ho vissuto per non dimenticare, per difendere la memoria che oggi si tenta ancora di infangare. Se la mia testimonianza, la mia presenza nel cuore di chi comprende la pietà serve a far crescere comprensione e amore, anch’io allora, potrò pensare che, nella vita, tutto ciò che è stato assurdo e tremendo, potrà essere servito come riscatto per il sacrificio di tanti innocenti, amore e consolazione verso chi è solo, sarà servito per costruire un mondo migliore senza odio, né barriere”.

La Marcia Perugia-Assisi del 1961
L’impegno nonviolento e pacifista di Aldo Capitini

In preparazione della Marcia nonviolenta “Mai più eserciti e guerre” da Perugia ad Assisi, del prossimo 24 settembre 2000, pubblichiamo questa ricostruzione della prima marcia pacifista capitiniana.

di Luigi De Luca *

Gli anni ’60 si aprono in un clima punteggiato di aperture, al di sotto delle quali strisciano crisi e tensioni. Il mondo si entusiasma per le speranze suscitate dai tre nuovi leaders: Kennedy, Krusciov, Giovanni XXIII. I Paesi in via di sviluppo conquistano, più o meno pacificamente, l’indipendenza e si schierano, più o meno liberamente, in uno dei due blocchi: l’esperienza dei paesi non allineati, che tante speranze aveva generato in seguito alla conferenza di Bandung del ’55, entra in crisi nel ’61 alla conferenza di Belgrado, che evidenzia la spaccatura tra una posizione rigorosamente neutralista e una apertamente anti-occidentale.
Sul piano sociale, l’ingresso sulla scena pubblica della nuove generazione prefigura (con i beatniks statunitensi, gli angry young men inglesi, i blousons noir francesi) l’instaurarsi di quel conflitto generazionale – politico che sfocerà nel ’68 planetario.
In Italia, le prime, timide, aperture a sinistra scatenano reazioni che vanno dal governo Tambroni nel ’60 al ‘rumore di sciabole’ del luglio ’64, inquietanti prodromi al quindicennio di piombo inaugurato con la strage di Piazza Fontana del dicembre ’69.
L’elemento così distante di fenomeni così distanti fra di loro, qui sinteticamente accennati, è la preoccupazione, che diventerà completa paura nei giorni della crisi dei missili a Cuba nel ’62, per il rischio di un confronto fra le due superpotenze. Questo sentimento, difficile da comprendere per chi vive dopo il crollo del Muro, ha accomunato per decenni i popoli del pianeta, impotenti spettatori dell’equilibrio del terrore.
Fin dall’immediato dopoguerra, la preoccupazione per il temporaneo monopolio atomico statunitense aveva dato vita al movimento dei Partigiani della Pace, nato dall’appello firmato da vari intellettuali progressisti. Capitini, pur vicino alle loro preoccupazioni, scelse di non partecipare al primo Convegno del movimento, tenutosi a Parigi nel 1950, per distinguersi da posizioni apparentemente ‘a senso unico’, sensibili unicamente ai missili americani, tanto da prestare il fianco alle accuse di comportarsi come “utili idioti”.
Intanto, nel mondo anglosassone di cui Capitini tanto apprezzava la sensibilità religiosa, la stessa preoccupazione per la pace, non contaminata da sospetti di filosovietismo, dava luogo a molteplici iniziative spontanee. Tra queste va ricordata quantomeno l’attività della Campaign for Nuclear Desarmament, che a partire dal ’59 organizza le cosiddette “marce di Pasqua” da Londra ad Aldermaston, un centro per la costruzione di armi nucleari. Con una durata di quattro giorni, le marce sono un punto di ritrovo per la costellazione pacifista, e nel ’61 vedono la partecipazione complessiva di 150.000 persone.
Un modello come questo deve senz’altro essere stato presente a Capitini ed al comitato organizzatore della marcia Perugia – Assisi. Per ricostruire l’origine della marcia, molto utile risulta un testo dello stesso Capitini, che oggi potremmo definire un instant book, pubblicato nel giugno ’62 dall’editore Einaudi, nella collana dei “libri bianchi”, dedicata all’attualità politica. Nella stessa collana, erano appena stati pubblicati, tra gli altri, il pamphlet di Franz Fanon I dannati della terra e Sei milioni di accusatori, la requisitoria del procuratore generale al processo contro il gerarca nazista Eichmann tenutosi in Israele nel ’61.
Il libro, intitolato In cammino per la pace, è composto da una prefazione del filosofo umbro, dalle testimonianze di partecipanti quali Pasolini, Bobbio, Binni, Arpino, Piovene, Fofi, Enriques Agnoletti, oltre che di amici di Capitini come Lanfranco Mencaroni o Luisa Schippa, da un’ampia documentazione delle reazioni degli organi di stampae dai telegrammi di adesione di vari intellettuali e politici. Ricorderòà soltanto, tra gli altri, La Pira, Dolci, Parri, Togliatti, Nenni, Lombardi, Arturo Carlo Jemolo, Garin, Bo, Rigoni Stern. Concludono il volume gli elenchi di persone ed istituzioni aderenti alla marcia, troppo numerosi per poterli anche solo citare, tra cui ricorderò solo, per segnare in qualche modo gli ‘estremi’ ideologici, i nomi di Guido Ceronetti e Renato Guttuso, le Amministrazioni comunali, tra le altre, di Milano e di Vezzano sul Crostolo.
Questo elenco di nomi, che pecca contemporaneamente per eccesso, nella lunghezza, e per difetto, nella completezza, vuole dare l’idea dell’ampiezza della mobilitazione spontanea nata intorno alla proposta iniziale. Nel suo scritto, Capitini ricollega il nucleo originale al Convegno internazionale per la nonviolenza tenutosi qui a Perugia il 30 gennaio ’52, nel quarto anniversario dell’assassinio di Gandhi, ed organizzato da Capitini, dalla quacchera inglese Emma Thomas e dalla fiorentina Maria Comberti.
Il progetto della marcia, voluto da anni, rimane a lungo inattuato. Entra nell’ordine del giorno solo nella primavera del ’60, senz’altro sulla spinta dei fatti intenzionali già ricordati, ma con un preciso orizzonte regionale e popolare. Anticipando in qualche modo lo slogan dei Verdi “pensare globalmente, agire logicamente”, Capitini radica con forza l’iniziativa nel panorama umbro da lui tanto amato, scegliendo un percorso dalle forti valenze simboliche.
I circa 20 chilometri tra Perugia ed Assisi erano stati teatro fin dagli anni ’30 delle passeggiate di Capitini con i suoi compagni di antifascismo Walter Binni e Alberto Apponi, nelle quali, al riparo da orecchie indiscrete, erano stati fissati i punti salienti della loro peculiare accezione del liberalsocialismo.
La scelta dell’arrivo ad Assisi si ricollega alla vocazione ‘francescana’ di Capitini, che si pone da sempre in tensione dialettica, non in contraddizione, con il suo rifiuto di dogmi e rituali del cattolicesimo.
In Francesco, Capitini vede non solo il cattolico, ma il riformatore, che, pur senza successo, aveva tentato già nel ‘200 di spezzare i vincoli di una Chiesa troppo accentrata, di riportare all’originale povertà e umiltà evangelica una gerarchia troppo compiaciuta del suo potere terreno. A chi lo accusa di aver fatto “concessioni al potere cattolico o compromessi con la religione tradizionale” Capitini risponde con l’accostamento, poco meno che blasfemo prima del Concilio Vaticano II, tra Francesco e Gandhi. In questo modo, si coglieva l’occasione per mostrare un esempio di santità al di fuori della confessione cattolica, diffondendo la conoscenza di un personaggio all’epoca poco noto (tra l’altro con tremila copie di un opuscolo sul Mahatma).
Tutta l’organizzazione dell’iniziativa si svolge nella dialettica fra le opposte necessità di coerenza e di diffusione. Da un lato risulta chiaro l’obbligo di non disperdere il messaggio nonviolento in una generica iniziativa ‘contro il male, per il bene’, o, peggio, di portare acqua al mulino di forze politiche che coprano con l’immagine nonviolenta un atteggiamento pregiudizialmente anti-americano e filo-sovietico; dall’altro c’è anche la consapevolezza che i nuclei rigorosamente nonviolenti , in un Paese conformista come l’Italia, sono minimi e poco collegati tra di loro. Capitini ha già troppe volte organizzato convegni ed incontri tra pochi intimi, per non avere piena coscienza dei rischi per il movimento pacifista che comporterebbe una scarsa partecipazione alla marcia.
Si fissano così i due criteri a cui attenersi rigorosamente: che l’iniziativa partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale; che la marcia fosse l’occasione per la presentazione ed il lancio dell’idea nonviolenta al cospetto di persone ignare o avverse. A questo punto, per la diffusione dell’iniziativa (e non certo per la definizione dei suoi contenuti), si decide di affidarsi a tutte le forze politiche e sindacali disponibili a partecipare, sempre avendo cura di non perdere di vista gli obiettivi nonviolenti di fondo.
Scelti data (il primo pomeriggio di domenica 24 settembre ’61) e percorso (non il più breve, Bastiola – Campiglione – Assisi, ma quello passante per Bastia e Santa Maria degli Angeli, per raggiungere il maggio numero possibile di spettatori), si passa a richiedere adesioni e collaborazioni. Fino al giugno ’61, le risposte sono piuttosto scarse: un grosso incremento viene da due fattori.
Da un lato una circolare per l’adesione all’iniziativa, firmata da Ferruccio Parri, Walter Binni e Enzo Enriques Agnoletti, che stimola molti esponenti laici e socialisti: dall’altro l’appoggio esplicito dato dal Partito Comunista. Non va dimenticato che il ’61 è l’anno della costruzione del Muro a Berlino Est, effetto e causa a sua volta di forti tensioni in un’area cruciale per la pace europea, in un clima caratterizzato dal riarmo della Germania di Bonn e dal confronto sotto l’egida del roll back. Capitini, attentissimo ad evitare strumentalizzazioni (citando Giovanni Boine, spesso ribadiva “il vanto che ognuno mi possa ingannare”. In questo caso, tuttavia, di tratta di un’iniziativa che travalica la sua persona singola, per cui il rapporto con le forze politiche viene gestito con estrema prudenza), impone condizioni precise: i manifesti di propaganda saranno scritti da lui e stampati a spese del PCI, i partecipanti non recheranno simboli di nessun partito, gli oratori che chiuderanno la manifestazione, sul prato della Rocca, saranno scelti solo dal Comitato organizzatore, e via dicendo. Anche le scritte sui cartelli portati durante il percorso saranno sottoposte alla revisione del filosofo umbro.
In questo modo sono evitati, o quanto meno esplicitati, i rischi di strumentalizzazione da parte marxista. A questo proposito, è significativo, anche se certo isolato, il caso di una ‘conversione’ dello stalinismo al pacifismo integrale, ricordato dalla rivista “Azione nonviolenta” dell’ottobre ’88 con l’intervista all’operaio sardo Agostino Calledda, che proprio in occasione della marcia si avvicina a Capitini ed alla nonviolenza, poi da lui applicata anche in ambito sindacale.
Tornando ai rapporti con le forze politiche, l’altro punto dolente è invece il rapporto con i partiti di governo, che hanno scelto l’alleanza con gli USA e l’occidente nel bene e nel male (l’esempio più evidente è stato l’appoggio all’intervento militare nella crisi di Suez, nel ’56).
All’invito a partecipare alla marcia, non rispondono affatto liberali e socialdemocratici, da sempre le forze politiche più atlantiste. Più sfumata la reazione della Democrazia Cristiana umbra, che fino ai giorni immediatamente prossimi all’iniziativa tenta di sottovalutare la cosa, non rispondendo agli inviti a partecipare e non prendendo posizione ne’ in un senso, ne’ nell’altro anche perché al suo interno coesistono posizioni diverse sensibilità anche molto avanzate. Solo pochi giorni prima della marcia il giornale democristiano “Giornale del Mattino”, nella cronaca di Perugia, pubblica un comunicato ufficiale del comitato provinciale democristiano, che rifiuta di aderire all’iniziativa “per non ingenerare pericolose confusioni” con il partito comunista, teso a “condannare gli atti di una parte e a giustificarli per la propria”.
I commenti su questa presa di posizione potrebbero essere vari: Capitini risponde con una lettera aperta che ricorda l’esempio evangelico (“coloro che portano la pace, saranno detti figli di Dio”) e pone alcune domande retoriche (“come si può avere un ‘animo di pace’ se non si ha la pazienza, specialmente in momenti difficilissimi, di trovarsi con ‘diversi’? Durante il Risorgimento un Manzoni poteva trovarsi in certe occasioni accanto ai fedeli di Garibaldi. Poi, il 25 settembre, ognuno riprenderà il suo lavoro specifico e distinto”). In realtà, anche se è mancata l’adesione ufficiale dei vertici del partito, molte amministrazioni locali guidate dai democristiani hanno aderito alla marcia, così come molte individualità, tra cui basti ricordare il sindaco di Firenze Giorgio La Pira.
La partecipazione popolare alla marcia è stata poi intensa: nello splendido pomeriggio di sole, si sono contati partecipanti da un minimo di diecimila, secondo la Questura, ad massimo di trentamila, per alcuni commentatori, tra cui Norberto Bobbio. È chiaramente impossibile fare una valutazione realistica su un fiume di persone in movimento, di cui la maggior parte, radunatasi con i pullman da zone distanti, ha partecipando marciando solo all’ultimo tratto, da Santa Maria degli Angeli alla Rocca di Assisi. Senz’altro, comunque, si è trattato di un fenomeno rilevante, soprattutto considerando che si trattava di una vera novità nel panorama politico italiano. Come un fenomeno rilevante è stata considerata nei commenti a caldo di partecipanti e testimoni.
Prima di passare ad analizzare questi commenti, va ricordato un episodio minimo, che rende comunque il tono del livore che alcuni avversari di Capitini hanno saputo raggiungere nell’occasione. Il filosofo, reduce da un malore cardiocircolatorio dovuto anche allo stress dell’organizzazione, marcia per i primi chilometri, per poi raggiungere Assisi in automobile: da questo alcuni giornali traggono spunto per screditare la marcia tout court (“Il Borghese” scrive: “Ripensandoci, tra baluba e vegetariani preferiamo i baluba”).
Liquidiamo senza commento queste affermazioni. I marciatori, aggiungendosi via via alla manifestazione, raggiungono Assisi dietro un grande striscione, retto fra gli altri da Italo Calvino e Giovanni Arpino. Tra i partecipanti, vanno ricordati Franco Fortini ed il musicisti Fausto Amodei, del gruppo Delle Fantacronache, che compone “in diretta”, su testo di Fortini, una ballata, cantata in un coro dai manifestanti. Tra gli altri, va poi ricordato Elio Petri, che filma il corteo per una pellicola con Salvo Randone.
Alla Rocca di Assisi, Capitini legge un breve saluto che proclama “maturo il tempo per una grande svolta del genere umano: basta con le torture, basta con le uccisioni per qualsiasi motivo”. Segue poi la traduzione del discorso di uno studente giapponese, esponente per il movimento per il disarmo nucleare (curiosamente, i giornali progressisti lo definiscono ‘socialista’, quelli conservatori ‘comunista’).
Invitati a parlare sono poi Jemolo, Guttuso, Piovene, Ernesto Rossi, Parri (appositamente rientrato da un viaggio in URSS e poi appiedato da un guasto all’automobile) e Cesare Zavattini: anche quest’ultimo non può intervenire, perché malato.
Il deflusso dei manifestanti avviene senza incidenti, anche grazie all’impegno degli organizzatori a non raccogliere alcuna provocazione.
Vorrei recuperare, tra i commenti dei mesi seguenti, due spunti a mio parere significativi. Il primo è un parallelismo, notato da molti (tra gli altri da Cesare De Simone con un articolo su “Nuova generazione”, il mensile della FGCI) con l’esplosione popolare del luglio ’60, con gli scontri di piazza a Roma, Genova ed in altre città. Anche se con modalità del tutto diverse, in entrambi i casi si è trattato di una partecipazione spontanea ad iniziative non controllate dai partiti tradizionali, di una volontà di protagonismo da parte di giovani che non si riconoscono nelle forme usuali della politica.
L’altra notazione, sviluppata da Pier Paolo Pasolini con un articolo su “Vie nuove” del gennaio ’62, nota un parallelo ancora più significativo: “queste marce della pace sono state il fenomeno politico italiano più interessante dell’anno. Una specie di riproposta, modernissima, del CLN. In esse era inclusa la svolta del XXII Congresso (del PCUS, con la destalinizzazione, ndr) e la possibilità reale di un centro-sinistra”. In questa chiave, Pasolini coglie la spinta ‘dal basso’ verso un cambiamento già oggetto di discussione da tempo, che si attua (purtroppo in forme poco limpide, che deluderanno molte speranze) proprio nel corso de ’62.
La marcia per la pace Perugia – Assisi è senz’altro il punto più alto , più visibile, dell’attività politica di Aldo Capitini nel dopoguerra. Tra l’altro, va ricordato che l’iniziativa verrà ripresa varie volte nel corso degli anni seguenti: il Movimento Nonviolento organizzerà la seconda marcia nel ’78, per il decennale della morte di Capitini, la terza nell’81 e la quarta, nell’85, nel vivo della mobilitazione contro il riarmo nucleare a Comiso e in tutta l’Europa. La quinta edizione, nell’88, vede invece la dissociazione del Movimento, che in un articolo di Pietro Pinna su “Azione nonviolenta” segnala il rischio di una ‘appropriazione indebita’ di tematiche nonviolente e pacifiste a fini di propaganda partitica.

(Tratto da “Aldo Capitini, libero religioso, rivoluzionario nonviolento”, Atti del Convegno organizzato dal Comune di Perugia e dalla Fondazione Aldo Capitini nella Sala dei Notari, a Perugia, il 19 ottobre 1998)

* docente di Lettere all’Istituto Tecnico Industriale “A Volta” di Tivoli

ISLAM
A cura di Claudio Cardelli
Il Libro dei Re, poema epico di Firdusi

L’impero persiano ha conosciuto una storia millenaria, a partire dalla dinastia degli Achemendi : sono molto noti in Occidente Ciro il grande, Cambise, Dario I e Serse, perché ne trattano ampiamente gli storici greci Erodoto e Senofonte. Alessandro Magno conquistò l’intero impero persiano (330 a.C.), che seppe tuttavia risorgere con i Sasanidi (dal secolo III al VII d.C.).
La conquista araba (651) chiuse la fase di vita indipendente e originale della Persia (Iran), e diede origine a un periodo nuovo nella fede e nella lingua : l’Islamismo sostituì la religione iranica, che risaliva alla predicazione di Zarathustra e al sacro testo l’Avesta.
Nondimeno, i legami con l’antica civiltà non furono del tutto spezzati ; verso il secolo X d.C., quando entrò in crisi il centralismo degli Abbasidi, si verificò un vero risorgimento culturale persiano, favorito dalle dinastie autonome della Persi orientale, i Samanidi e i Ghaznevidi.
Tale risorgimento culturale riaccese l’interesse per l’antica epopea persiana, dalle mitiche origini alle alterne vicende dell’impero. Un primo tentativo di poesia epica, per incarico di un sovrano samanide, fu compiuto dal letterato Daqiqi, che però morì prematuramente intorno al 980 lasciando poco più di mille versi. Colui che, riprendendo l’opera di Daqiqi, dotò la Persia di una vastissima epopea (circa 60 mila versi) fu Firdusi (in persiano, Firdausi, “il paradisiaco”).

La personalità di Firdusi
Sulla vita del massimo poeta iranico, il Dante persiano, si sa relativamente poco. Nacque a Tus nel Khorasan verso il 935 da una famiglia della piccola nobiltà contadina ; innamorato dell’antica tradizione iranica, compose il proprio poema, Libro dei re (Shahname) , in circa trent’anni, poi, intorno al 1010, lo presentò al sultano Mahmùd di Ghazna, uno dei più potenti capi dei regni semiautonomi formatisi con lo sgretolamento dell’impero abbaside. Ma il sultano non apprezzò adeguatamente il grande poema ; il poeta amareggiato tornò a Tus, dove morì verso il 1020.
Il Libro dei Re si apre con le lodi a Dio, un Dio trascendente e altissimo ; poi prosegue descrivendo, a grandi pennellate, la creazione del mondo, del cielo, degli astri, dell’uomo. La narrazione continua, come un fiume maestoso, presentando i miti sulla protostoria della nazione e gli eroi più antichi. In una divisione del potere tra i figli di Feridùn (eroe mitico e re), si spezza l’unità del regno, e si iniziano la divisione territoriale e l’antagonismo tra Iràn e Turàn, che riflettono l’effettiva lotta tra stirpi iraniche e turaniche (turche nell’Asia centrale e anteriore.
Seguono poi le vicende storiche della Persia, passando attraverso i vari imperi fino all’ultimo sovrano sasanide, con cui crollò lo stato nazionale iranico . Il poema, partendo dalla creazione, canta le gesta di ben cinquanta re. Per dare un’idea dello stile di Firdusi, presentiamo, nella traduzione di Alessandro Bausani, l’episodio del duello tra Rostam (o Rustem) e il figlio Sohràb, i quali si scontrano senza sapere nulla della loro reale identità :

Rostam ratta trasse la spada leggera dal cinto e al figlio dall’animo desto lacerò il petto ; si contorse Sohràb allora e con gemito lungo distolse il pensiero ormai dal bene e dal male ; gli disse :”Vendetta m’è giunta, ahimè , per mia colpa, della mia vita, il Destino t’ha dato in mano la chiave ! Non tu n’hai colpa, chè questa gobba volta del cielo m’ha scelto fra tutti e troppo presto m’ha ucciso. Si befferan di me, ora, i miei coetanei compagni che nella polvere cadde questa mia nuca possente ! Ma la madre mia m’aveva parlato del padre e dell’amore per lui avevo piena la mente : e lo cercavo, chè alfine potessi scorgerne il volto, eppure la vita devo finire, inappagato quel voto ! Ahi, che lo sforzo mio a nulla è approdato e in vita non mi fu dato vedere il volto del padre ! Ma ora, se pur tu fuggissi, Pesce, sott’acqua o ti nascondessi, come notte, in velo di tenebra o balzassi alto nel firmamento, Stella, o strappassi via dal volto della terra il sole, il padre mio pur di te prenderebbe vendetta quando vedrà la terra cuscino al mio capo ! Vi sarà pure fra questi eroi famosi qualcuno che a Rostam, mio padre, porterà notizia di me !”. (p.373)

Rostam non vuole dapprima credere al guerriero sconosciuto, non pensa che il caduto sia proprio suo figlio ; ma, alla vista del monile da lui regalato alla madre di Sohràb, erompe in tristi grida di lamento e trasporta poi nel Sistàn la bara del figlio morto.
Altrove il poeta commenta alla morte di un eroe :

O mondo ! Non allevarci, se poi ci vuoi falciare !
Se poi qual messe ci tronchi, a che piantar i germogli ?
Tu prima innalzi qualcuno fino alle sfere del cielo,
e poi lo consegni, d’un tratto, alla terra umida e torba. (p.370)

Il prof. Italo Pizzi, che apprezzava Firdusi alla pari di Omero, tradusse in endecasillibi tutto il Libro dei Re (Torino, 1886-88, 8 volumi).
Le citazioni del presente articolo sono tratte da : Pagliaro-Bausani, La letteratura persiana, Sansoni-Accademia, Firenze, 1968.

LIBRI

A cura di Silvia Nejrotti

Profughi silenziosi di un’umanità dolente

Marco REVELLI, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp.114, L. 18.000.

In un piccolo libro, che dovrebbe essere letto nelle scuole come modello paradigmatico della condizione di profugo (nel nuovo millennio il mito di Ulisse, il nostos, sarà forse sostituito dal mito di Enea), Revelli descrive il disagio di una sinistra che, chiusa in una normalità amministrativa, in ragionevoli conversazioni, non sente l’odore di stracci, corpi umani, escrementi, il lezzo dolciastro della miseria (p.48). I nuovi dannati della terra vengono qui rappresentati con grande dolcezza, con la volontà di capire al di là di ogni stereotipo e con un linguaggio che va oltre la dimensione sociologica e politica, per diventare poesia. Traspare alla lettura una commovente atmosfera dove si alternano amare riflessioni ad accenti lirici (quei bambini dalla pelle cotta dal sole e dall’aria, quegli uomini dallo sguardo triste…p.30), in uno stile letterario realistico e scarno che ci riporta alla lucida follia del campo di Primo Levi. Qui però la deportazione avviene alla fine, con l’espulsione dei nomadi dalle loro baracche.
Gli agenti bussano alle porte di dieci roulottes, tirano giù dal letto le famiglie insonnolite, spingono uomini, donne e bambini verso i furgoni in attesa, con il motore acceso. (p.71).
Il dies irae è più sconvolgente e sono gli uomini del comune di Venaria a fare terra bruciata.
Due ruspe e un ragno meccanico attaccano le roulottes, le sventrano, si accaniscono sui rottami fino a ridurli in frantumi. Afferrano e schiacciano quello che resta delle auto in sosta. Spianano le poche canadesi rimaste, ne disperdono il contenuto sull’erba, appiattiscono tutto ciò che resiste. (p.73).
Questo climax non è solamente un’espressione letteraria significativa, è l’atto finale di un’umanità dolente, che come unica traccia lascia sul terreno due pentole da cucina ancora in buono stato, un cucchiaio, un piatto fondo, tante scarpe, d’ogni foggia, soprattutto sandaletti di plastica da bambino e coperte, (p.74). La loro sopravvivenza sta nel partire, senza proteste, in silenzio.
L’incalzante analisi di Revelli mette a nudo non solamente le miserie umane di tanti intellettuali e della sinistra, ma i limiti stessi della democrazia, da strumento a ostacolo del principio di eguaglianza, ostaggio di un certo populismo demagogico, subalterna agli umori più elementari e più bassi. Le critiche coinvolgono tutti noi, rimettono in gioco un’economia competitiva ed efficientista, un contesto sociale dove sono scomparsi valori quali la condivisione, la gratuità, la riclassificazione ed il recupero degli oggetti (atteggiamenti comuni tra i rom, tipici della loro società fuori luogo).
E’ un dovere di tutti noi rifiutare questa mutazione antropologica, cui ci spinge il nuovo totalitarismo, ribellarci alla perdita del senso dell’ospitalità, così caro ai nostri padri, rivendicare un nuovo umanesimo, dove la solidarietà e l’uguaglianza ritrovino dignità.
La convivenza del nuovo millennio si giocherà sul grado di accoglienza e di tolleranza che la società saprà mostrare.
Il fatto che la lettura di questa piccola cronaca sia stata fatta all’interno di un Municipio, in un luogo destinato per eccellenza al dibattito democratico ed alla gestione della cosa pubblica, ben rappresenta la messa in discussione, la domanda senza risposta che ci siamo posti: “Chi è veramente fuori luogo? Noi o loro?”.
Maria Teresa Gavazza

Tolstoj, il profeta

Invito alla lettura degli scritti filosofico – religiosi
Ricerca a cura degli Amici di Tolstoj, Il Segno dei Gabrielli editori, Negarine (Verona), Marzo 2000, pagg. 150, Lire 26.000

Tutti sanno che Gandhi affermò di essersi convertito alla nonviolenza in seguito alla lettura del Regno di Dio di Leone Tolstoj, e anche in seguito fu costantemente ispirato dal pensiero di questo autore.
Tale pensiero, però, presso la cultura occidentale ha subìto un misterioso occultamento.
Ben venga dunque il saggio degli Amici di Tolstoj che per la prima volta forse in Europa, certamente in Italia, affronta il problema del “secondo” Tolstoj in maniera organica e globale, offrendo un elenco ragionato delle opere saggistiche e un’ampia sintesi del pensiero tolstoiano, ricco di citazioni dirette.
Un capitolo specifico viene anche dedicato ai rapporti fra Tolstoj e Gandhi.
Il testo, pur rigoroso e ben documentato, si presta ad un’agile e piacevole lettura e faciliterà enormemente l’approccio al messaggio salvifico di Tolstoj, tanto necessario alla nostra epoca.
Scriveva infatti Tolstoj: “Noi ci troviamo alle soglie di una vita nuova e completamente gioiosa, accedere ad essa dipende unicamente da ciò, liberarsi dalla tormentosa superstizione che sia necessaria la violenza nella vita di relazione ed accettare l’eterno principio dell’amore.”
Il volume è arricchito da alcuni scritti tolstoiani inediti. Segnaliamo come particolarmente belli i pensieri sull’amore e la felicità estrapolati dai Diari.

Il volume è in vendita presso Azione Nonviolenta oppure in libreria, distribuito dalle Ed. Dehoniane.
CINEMA

A cura di Flavia Rizzi

Quando l’integralismo religioso nega anche la libertà di amare

KADOSH, di Amos Gitai

Soggetto e sceneggiatura Amos Gitai e Eliette Abécassis
Fotografia Renato Berta
Montaggio Monica Coleman e Kobi Netanel
Musica Philippe Eidel
Produzione Agav Fims, M.P. Productions, Studio Canal +
Durata 110’
Origine Israele, 1999

In Concorso al Festival di Cannes 1999

Se organizzate rassegne cinematografiche, volete approfondire con il vostro pubblico il tema dell’integralismo religioso, connesso al ruolo svolto dalla donna e al suo grado di emancipazione all’interno della società, e non vi è mai capitato di vedervi dirottare l’aereo in Afghanistan da un gruppo di Talebani, allora Kadosh è il film che fa per voi. Del resto se Meir, il personaggio maschile principale, studioso della Torah, proprio nella scena iniziale del film, quella della vestizione, assorto in preghiera e con il braccio avvolto da un solido nastrino di cuoio nero, recita una frase del tipo: ”…benedetto sia tu, oh Dio, perché non mi hai fatto nascere donna…”, un motivo dovrà pur esserci. E il motivo è che Amos Gitai, regista israeliano con domicilio in Francia, poco “simpatico” alle autorità di Gerusalemme per le sue posizioni filo-palestinesi, vuole raccontarci le contraddizioni, l’ermetica chiusura e la monolitica graniticità della comunità ebraica “ultraortodossa”, attraverso le vicende di Rivka e Malka, due giovani donne abitanti in Mea Shearim – quartiere ultraortodosso di Gerusalemme – alle quali è negata la più elementare ed imprescindibile libertà concessa ad un essere umano: la libertà di amare. Negata dalla tradizione e dalla Legge. “…Il Sabato (la Legge) è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il Sabato…”, lasciò detto un “tizio” all’incirca duemila anni fa nei pressi di Gerusalemme, rivolgendosi agli antenati dei rabbini presentati nel film. Perché se si accetta che l’uomo sia in funzione della Legge, allora la donna (che per la stessa Legge vale molto meno) può benissimo essere considerata in funzione dell’uomo “…e del suo respiro…”, del suo piacere e del suo istinto riproduttivo.
Ci sono due Gerusalemme in questo claustrofobico ed antispettacolare film (potesse Oliver Stone imparare questo da Gitai!!!), girato quasi esclusivamente in interni, con un’illuminazione ed una sceneggiatura essenziali e rarefatte:
una, quella laica e “moderna”, è quasi sempre fuoricampo nonostante prema continuamente per entrarvi, proprio come Iaakov – incarnazione di questa “Gerusalemme rinnegata” – tenta disperatamente di “entrare” nella vita di Rivka;
l’altra, quella conservatrice ed integralista, scandisce la propria esistenza quotidiana attraverso una ritualità meticolosa e precisa ( oltre alla vestizione iniziale, ogni gesto ed ogni parola appare frutto di una ossessiva e perfetta liturgia codificata in un minuzioso formulario: persino il momento di semplicità e naturalezza dell’atto d’amore nel primo giorno di nozze viene preceduto, corrotto e viziato, da frasi tanto imbarazzate quanto stereotipate, che sembrano essere prese di peso dai versetti di un qualsiasi salmo biblico), impiega il proprio tempo in disquisizioni dottrinali che appaiono del tutto sterili ed accademiche (la disputa tra i due rabbini sullo zucchero nell’acqua calda nel giorno di Sabato è da neurodeliri!!!) e coltiva l’antistorico progetto di creazione di uno stato di Israele costituito unicamente da “puri” ebrei osservanti (perché gli “altri”, i “perduti”, quelli laici, non fanno più figli) fondato sulla Legge e sul matrimonio combinato.
Ma il progetto alla fine fallisce. Subisce uno scacco profondo e irreparabile proprio ad opera di Rivka e Malka, delle loro scelte e della loro insopprimibile volontà di amare: amare sopra tutto e ad ogni costo.
La volontà di amare di Rivka come fuga liberatoria da un mondo chiuso ed opprimente, ma anche come doloroso commiato da una comunità decisamente inglobante nella quale è comunque fortemente ubicata e radicata;
la volontà di amare di Malka come sacrificio estremo della propria vita, come dono totale di sé per amore dell’altro da sé.
E se dopo aver visto questo film non avete ancora capito perché il processo di pace tra Palestinesi e Israeliani, perennemente in ostaggio degli opposti integralismi, sia stato ed è ancora così faticoso, impervio e lento, beh…allora vi meritate proprio l’ultimo Oliver Stone!”

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Cantare per crescere e crescere cantando

Fra i lettori di An non mancheranno certo mamme e papà, maestri e maestre, insegnanti e animatori di tutti tipi. Le potenzialità, espressive, giocose, educative, per non dire terapeutiche della musica e del canto, sono riconosciute: riusciremo a inserirle e utilizzarle al meglio nella prospettiva nonviolenta ? Giocare con le parole, giocare con le note: una competenza che tutti i bambini hanno o possono esprimere con facilità.
Woody Guthrie, il folk-singer delle lotte dei lavoratori negli Usa anni ’30 e ’40, precursore dei cantautori come Bob Dylan, aveva sperimentato qualcosa del genere, chiamandolo “Canzoni per crescere”: ascoltando la figlia, seguendone le attività durante il giorno, cercando il modo migliore di comunicare con lei, aveva realizzato canzoni piene di spirito egualitario, senza smancerie e paternalismo, non solo da ascoltare o ricantare, ma soprattutto da adoperare per creare continuamente qualcosa di nuovo.
Anche se il contenuto non è mai tutto soltanto nei testi, l’inizio più semplice può essere nella ricerca di un repertorio interessante, come base per esercitarci con bambine e bambini, imparando a rielaborare e a inventare, crescendo insieme…
Partiamo allora da qualche esempio più o meno conosciuto di canzoni e filastrocche. Materiale abbondante, accessibile e notissimo è quello dello “Zecchino d’Oro”, la rassegna di canzoni per bambini che puntualmente si rinnova da oltre 40 anni, collaborando con iniziative di solidarietà e beneficenza, anche insieme ad enti come l‘ Unicef. Un tema abbondantemente presente nella storia dello Zecchino è quello della pace e della fratellanza fra i popoli, che ha trovato impulso particolare soprattutto da quando la rassegna si è fatta internazionale, con partecipanti provenienti da tutto il mondo. Di questo genere possiamo trovare “Noi noi noi” (dall’Uruguay – Zecchino ’88: “ Se siamo amici dai/ prendiamoci per mano/ noi noi noi/ che basta poco per volersi tutti bene”); “Frund, amico, ami “ (dalla Svizzera – Zecchino ’91: “Io vorrei che il mondo fosse capace/ di moltiplicare l’amore in tre/ insegnamo ai grandi a far la pace…”); “Né bianco né nero” (Zecchino ’92). Ma troviamo anche qualcosa di più caratterizzato in senso antimilitarista e nonviolento: “Re Trombone” (’66: “Re Trombone stamattina s’è svegliato/ con l’idea di far la guerra/ ma la guerra non si fa/ perché mancano i soldati… i fucili e… i nemici); “Il lungo il corto il pacioccone” (’70: “non usano mai le pistole/ perché lo sceriffo non vuole” e mettono in fuga i banditi a suon di musica) un po’ come “Tommy Tom” (ancora ’70 che, fischiettando in modo magistrale, fa scordare la fame al lupo che se lo vorrebbe divorare); “Corri corri topolino” (’89: dove il topolino/bambino sfuggito al gatto “sogna un fiore grande più della luna/ con tante stelle e arcobaleni/ senza i fucili che son rimasti qua”); “Il più grande motore” (‘91: “Perché l’Amore è il più grande motore/ per imparare a vivere insieme/ per cancellare il male col bene/ e dagli atlanti ogni confine”) e, a proposito di motori, “L’astronave di Capitan Rottame” (’96: “viaggia a cento amici all’ora/ e noi siamo il comandante/ il motore è la ragione/ che va a traino e che va a spinta/ ricicliamo quello che possiamo/ mentre consumiamo e consumiamo”).
Ma non c’è solo lo Zecchino d’Oro. Una fonte notevole di canzoni sono i testi di Gianni Rodari, musicati in diversi momenti da svariati autori come Sergio Endrigo, Beppe Dati, Marco Piatti, Fausto Amodei ( “Il giornalista”, cantata da Margot:”porta una sola notizia/ il fatto è sensazionale/ merita un titolo cubitale/ tutti i popoli della terra/ han dichiarato guerra alla guerra”) e Virgilio Savona (“Re Federico” : “andò in guerra e cercava il nemico/ ma il nemico era andato a comprare il gelato/ Re Federico per la disperazione/ buttò la corona e andò in pensione”).
Poi c’è l’abbondante produzione di Roberto Piumini che opera spesso in tandem con Giovanni Caveziel in progetti didattici basati su giochi di parole e musica: da “Rimelandia” dove ha collaborato con Bruno Tognolini possiamo estrarre “Per litigare e fare la pace” (“Ti prendo ti stringo ti tengo/ ti graffio ti strappo ti gratto/ ti picchio ti rompo ti stendo/ ti spacco ti storto ti batto/ ma dopo facciamo la pace/ ti dono la mia caramella/ perché fare lotta mi piace/ però la pace è più bella”).
Chiudiamo questa improvvisata carrellata con Antonella Bottazzi, che gode di una notevole popolarità fra i bambini grazie alla sua “Muccalla” (una mucca un po’ farfalla…) che ci ha dato anche “Il bosco si ribella”, dove si canta di un cacciatore che, entrato con pessime intenzioni in un bosco, si trova disarmato e rieducato dagli animali e dalle piante.

ESTERO

A cura di Stefano Guffanti

Afghanistan
Il Governo dell’Afghanistan ha, nei fatti, dichiarato una guerra contro le donne ed al loro diritto all’esistenza: divieto di lavorare; imposizione del velo ed altre restrizioni sull’abbigliamento (p.e. divieto di indossare scarpe rumorose per evitare di attrarre l’attenzione); divieto a circolare in pubblico senza l’accompagnamento di un uomo; mancanza di assistenza medico-sanitaria; potere di vita e di morte dei mariti sulle mogli; tolleranza nei confronti delle violenze quotidiane, che a volte si spingono fino alla lapidazione e alla morte.
Questa situazione di repressione e di negazione dei più elementari diritti all’esistenza, aggravatasi rapidamente negli ultimi anni, è estranea alla cultura ed alla situazione afgana: fino a prima della presa del potere da parte dei Taliban, la donna godeva di una discreta libertà e aveva opportunità di lavorare, studiare e circolare liberamente.
Donne laureate, lavoratrici, professioniste, persone integrate nella vita collettiva, sono state così espulse dalla vita e dal tessuto sociale; questa involuzione ha portato ad un aumento dei casi di depressione e di suicidio tra le donne afgane.
Il rispetto e l’uguaglianza tra persone non è un beneficio ma un Diritto dell’essere umano!
INFO: costomas@tin.it – panhuis.rojo@pi.be

Pena di morte
Amnesty International ha reso pubblici i dati relativi alle esecuzioni capitali eseguite nel 1999:
1.813 condannati sono stati uccisi in 31 paesi.
Sebbene il dato assoluto sia in calo rispetto all’anno precedente (2.258 esecuzioni nel 98), si registra un sensibile incremento in alcuni paesi (Iran, Arabia Saudita e USA).
Sempre nel 1999 sono state condannate alla pena capitale altre 3.857 persone in 63 paesi (AI precisa che alcuni stati non rendono pubblici i dati, per cui queste cifre sono sicuramente inferiori alla realtà).
Nella sola Cina sono state eseguite più esecuzioni capitali che in tutto il resto del mondo: almeno 1.077, secondo i dati ufficiali.
Negli USA sono state 98, 30 in più dell’anno precedente, tra cui quella di un condannato per un reato commesso da minorenne. Situazione analoga in Iran.
Dall’Iraq, invece, non si hanno dati ufficiali ma pare che vi siano centinaia di condanne eseguite, anche se non è chiaro se siano giudiziali o extragiudiziali.
Altri paesi (Cuba, Oman, E.A.U) hanno esteso la pena di morte ad altri reati e interrotto di fatto la moratoria contro le esecuzioni.
A questi dati negativi se ne possono, però, contrapporre alcuni positivi: Timor Est, Turkmenistan, Ucraina e Bermuda hanno totalmente abolito la pena di morte ed altri paesi hanno aderito e ratificato il Secondo Protocollo Opzionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR), che promuove la totale abolizione della pena capitale.
Nel mondo vi sono 108 paesi abolizionisti e vi è una campagna per chiedere alla Commissione per i Diritti Umani delle NU, di stabilire una moratoria mondiale sulle esecuzioni.

IRAQ
Approvata, il 13 aprile, una mozione del Parlamento Europeo, sull’embargo all’Iraq; si tratta di una mediazione tra 4 proposte di risoluzione presentate dai gruppi socialista, GUE/NLG (di cui fa parte Luisa Morgantini), Verdi e PPE. Il testo finale recepisce sostanzialmente le tesi del gruppo socialista e, malgrado riconosca che tale embargo abbia penalizzato la popolazione civile senza indebolire il regime (individuato quale vero responsabile del conflitto), vincola la proclamazione della revoca dell’embargo a due condizioni difficilmente realizzabili: la collaborazione con l’ONU, da parte del regime irakeno; un chiarimento, da parte del Consiglio di Sicurezza, sui termini della applicazione della risoluzione 1248. Nel frattempo la Campagna “Rompere l’embargo”, è arrivata alla sua chiusura; in data 11 giugno si è svolta un’ultima giornata di mobilitazione nazionale con raccolta firme, banchetti, proiezioni e assemblee locali.
INFO: “Un Ponte per …”, Via della Guglia 69/a. 00186 Roma. T: 06.6780808, f: 06.6793968.
E-mail: rompere-lembargo@libero.it , www.unponteper.eu.org

SUDAN
Il Sudan sta scomparendo, diamo vita al Sudan. Con questa parola d’ordine il CCM (Comitato di Collaborazione Medica) sta partecipando a “Operation Lifeline Sudan”, operazione di soccorso internazionale coordinata dalle Nazioni Unite a sostegno della popolazione civile del Sudan, martoriata e massacrata, da circa 40 anni, da una guerra civile che vede contrapporsi arabi e musulmani del nord a neri e cristiani del sud. Questa guerra dimenticata, oltre ad aver già provocato milioni di morti, feriti e profughi, ha determinato anche la scomparsa delle poche strutture sanitarie, scolastiche e di comunicazione prima esistenti. Il quadro drammatico è completato dalle carestie periodiche che stanno mettendo definitivamente in ginocchio queste popolazioni. L’obiettivo è quello di costruire piccoli ospedali rurali e rifornirli di attrezzature e farmaci essenziali, nonché formare personale locale, addestrandolo sul campo. CCM sottolinea che uno dei principali ostacoli alla realizzazione di questa operazione è la distribuzione: la rete viaria è pressoché inesistente e si rende necessario il trasporto via aerea dal Kenia, a costi molto elevati: 5.000 per 1 kg di materiale e, pertanto, il CCM ha lanciato una campagna di raccolta fondi a sostegno di questa operazione.
INFO: CCM, C.so G. Lanza, 100 – 10133 Torino. T + F: 011.6602793 – 6602798.
E-mail: cmedica@arpnet.it , www.arpnet.it/cmedica

Di Fabio