• 27 Luglio 2024 4:04

Azione nonviolenta – Settembre 1999

DiFabio

Feb 6, 1999

Azione nonviolenta settembre 1999

– La voce dei senza voce, contro miseria e violenza, di Gabriele Colleoni
– Segreti e misteri di una guerra ignobile, di Piercarlo Racca
– Una nonviolenza in movimento, di Gloria Gazzeri
– Sono convinto vengo al congresso, di Massimiliano Pilati
– Cesare Beccaria contro la pena di morte, di Claudio Cardelli
– Gli ingredienti della convivialita’ nella cura dei dettagli, di Christoph Baker
– All together now all together now, di Paolo Predieri
– Esercito professionale e servizio militare femminile
– La strategia lillipuziana e i capelli di Gulliver, di Francuccio Gesualdi

A RECIFE, IN BRASILE, E’ MORTO DOM HELDER CAMARA

La voce dei senza voce, contro miseria e violenza

Dom Helder Camara se n’è andato nel sonno all’alba del 28 agosto nella sua casa di Olinda, a Recife, nel Nordest del Brasile. Aveva 90 anni, essendo nato nel febbraio del 1909 a Fortaleza, capitale dello stato nordestino del Ceará, terra di siccità, povertà e di emigrazione ma anche di una forte religiosità popolare. Le sue spoglie ora riposano nella Igreja das Fronteiras, dove dalla metà degli anni Sessanta intorno all’esile vescovo di Recife dalla tunica color sabbia si incontravano insieme a collaboratori ed amici, anche gli altri amici di dom Helder, quelli più amati, i diseredati. “Chiesa delle frontiere”: quelle che l’azione, le parole ed il sorriso di dom Helder, ormai non conoscevano più.

di Gabriele Colleoni

Oggi può apparire anche paradossale che il servizio pastorale di quello che sprezzantemente i militari brasiliani ed i loro giornali durante la dittatura (1964-1985), definirono “il vescovo rosso”, sia iniziato negli anni ’30 a fianco delle organizzazioni del cattolicesimo integralista del Ceará, molto attive nella regione ma anche molto vicine al movimento fascista brasiliano. L’unica spiegazione plausibile sta forse nella incontenibile spinta che urgeva un giovane prete nordestino ad aiutare la sua gente dalla “vita e morte severina”, come quella cantata da un poeta conterraneo. Un eccessivo attivismo costatogli l'”esilio” in una parrocchia a Rio de Janeiro dove poi diventerà vescovo ausiliare, con il divieto dei superiori a qualsiasi attività politica – proibizione rispettata fino al 1963, quando con l’avvento del regime militare brasiliano, ne diventerà l’avversario più noto fuori e temuto. Nel frattempo, l’irrequieto prete del Ceará aveva già lasciato comunque il segno in seno alla chiesa: nel 1952, diede vita alla Cnbb, la Conferenza Episcopale brasiliana, prima organizzazione al mondo a riunire i vescovi di un Paese. Solo dopo il Concilio Vaticano II questo tipo di organizzazione sarà approvato e incoraggiato nel resto del mondo, ma intanto la Cnbb aveva già acquisito un grande peso, anche politico, nella vita brasiliana. Durante il Concilio, con l’appoggio di Paolo VI, dom Camara fu tra i promotori della “Chiesa dei poveri”, attenta al grido di giustizia delle fasce più umili della popolazione mondiale e del Terzo Mondo. Una delle sue affermazioni più citate – “la povertà è sopportabile, ma la miseria è un’offesa alla natura umana” – venne pronunciata al Concilio. Dopo la nomina nel 1964 ad arcivescovo di Recife e Olinda in Pernambuco, riprese la lotta politica, enfatizzando l’impegno a favore dei diritti umani e le denunce delle violenze della dittatura militare, che lo accuserà di attività comuniste quando sarà tra i fondatori delle comunità ecclesiali di base, altra decisiva innovazione nella Chiesa brasiliana contemporanea. Nel 1969, durante la “stretta” più brutale della repressione, uno dei suoi più stretti collaboratori, padre Enrique Pereira Neto, venne assassinato. É il momento in cui attorno al “vescovo rosso” si fa il vuoto. “Quel che è davvero terribile”, dirà, “è che anche i piccoli si allontanano, si lasciano intimidire….”. Ma è a questo punto che avviene lo scarto: convinto che la causa della giustizia è indivisibile, che il destino del Terzo Mondo dipendeva da una riforma radicale dei rapporti politici ed economici tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri, dom Helder alza la sua voce in nome dei troppi “senza-voce” per farla arrivare alle “superpotenze”, capitaliste e socialiste, alle multinazionali, ai governi ed ai popoli del Nordamerica e dell’Europa, e nel 1970 con Ralph Abernaty, il successore di Martin Luther King, sottoscrive un appello comune in cui tra l’altro si dice: “per far fronte al pericolo costante di una guerra mondiale, dobbiamo costruire un movimento mondiale per la pace. Per far fronte al problema della povertà, dobbiamo istituire una lotta mondiale contro la miseria e l’ingiusta ripartizione delle ricchezze…”. Sono le basi, lungimiranti se si pensa che la globalizzazione era allora una prospettiva remota, del costante impegno futuro di dom Camara ad invocare ed a costruire quella che chiama “la multinazionale della solidarietà”, capace di contrastare, nel segno di una libertà creativa, ma al tempo stesso solidale e responsabile verso tutti gli uomini, la sfida delle altre multinazionali. L’ostilità del regime nei suoi confronti divenne talmente viscerale che ai media venne imposto il divieto di qualsiasi menzione del suo nome sulla stampa o in pubblico, arrivando a boicottarne la stessa candidatura al premio Nobel per la Pace. E ciò nonostante il risaputo orgoglio brasileiro per i concittadini che hanno tenuto alto il nome del Paese all’estero. Per la sua radicalità evangelica dom Helder era diventato comunque “scomodo” anche dentro la Chiesa, anche se in uno dei primi viaggi in Brasile il Papa stesso lo abbracciò pubblicamente con le parole “dom Helder, fratello degli uomini e fratello mio”. La riprova la si ebbe quando nel 1985 – casualmente in contemporanea con la fine del regime militare – anche dom Helder si fece da parte lasciando l’incarico di arcivescovo di Recife per limiti di età. Le sue iniziative pastorali costruite in vent’anni nello spirito conciliare vennero gradualmente ma sistematicamente svuotate o smantellate a colpi di diritto canonico dal successore scelto dal Vaticano, dom José Cardoso. Gli ultimi quindici anni sono stati di relativo silenzio. Eppure, di fronte all’ennesima dura prova, dom Helder non ha voluto allontanarsi dalla sua gente, è rimasto ad Olinda nella sua modesta casetta, dedicandosi alle iniziative sociali promosse dalla sua fondazione Obras di Frei Francisco, ed alla campagna “Duemila senza miseria”, avviata con l’aiuto di religiosi, vescovi e laici, che erano cresciuti avendo dinanzi l’esempio di questo piccolo grande “fratello degli uomini”. “Il sogno di un uomo solo è destinato a rimanere un sogno, il sogno di molti uomini può diventare realtà”: nella sua semplicità dom Helder Camara ha regalato a più di una generazione – quelle vissute sentendosi addosso il vento rinnovatore scaturito dal Concilio – una piccola grande bussola che alla fine ha portato a precorrere molto cammino. In questa “necessità” di condivisione come presupposto alla ricerca di ogni utopia autenticamente umana e per l’uomo, sta la prima e fondamentale lezione che a molti di noi diede quel piccolo vescovo mite che, a dispetto della sua esilità fisica, gridava dai tetti contro l’oppressione del suo popolo da parte dei “gorilla” dell’esercito più potente del Sudamerica, e che ad un certo punto si era “mescolato” con i poveri, scegliendo non solo di stare dalla loro parte ma anche una vita frugale e semplice, senza distanze. Rifuggendo ogni pompa ecclesiastica ed insieme ogni tentazione paternalistica di potere. Il suo terreno privilegiato rimase quello dell’azione concreta, della condivisione “libera e liberatrice”, della parola che rompe il silenzio e porta conforto. Qualsiasi fosse il peso da sopportare. Per questo i tanti “deserti” che nel corso della sua vita Helder Camara ha dovuto affrontare, non sono mai stati – ha scritto qualcuno – il “cimitero della speranza”. E del resto ce lo ricordava lui stesso con il titolo dato ad un suo libro del 1971 sulle “minoranze abramiche”: Il Deserto è fertile. Come potrà esserlo anche il deserto che oggi la sua scomparsa si lascia alle spalle. E lo sarà se sapremo farci ancora mettere in crisi dall’esempio di questo umile ed instancabile “costruttore di pace”.

La N.A.T.O. e il Kossovo
Segreti e misteri di una guerra ignobile

Di Piercarlo Racca

Probabilmente non si verranno mai a sapere quali sono le “vere motivazioni” per cui la N.A.T.O. ha deciso di bombardare (24 marzo 99) la Federazione Jugoslava, esse entreranno a far parte di quei tanti segreti per lo più legati a stragi, attentati, ecc… di cui il nostro paese abbonda.

La verità andrebbe cercata nell’ambito di quel “nuovo ruolo” che la N.A.T.O. sta disperatamente cercando dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia che rappresentava il suo potenziale nemico. Infatti sono almeno sei anni che la N.A.T.O. sta cercando di imporsi come forza militare di pace e sostituirsi in questo ambito all’O.N.U..

Parlando di N.A.T.O. occorre essere consapevoli che stiamo parlando di un’alleanza militare in cui gli U.S.A. hanno un ruolo predominante e di fatto determinano le decisioni politiche; mentre se parliamo di O.N.U. ci troviamo di fronte ad un organismo mondiale in cui il ruolo degli Stati Uniti è fortemente limitato dalla possibilità di Russia e Cina di esercitare il cosiddetto diritto di veto.

Quest’anno in aprile si doveva inoltre celebrare in pompa magna il 50° anniversario della fondazione della N.A.T.O. e presentarla nel suo nuovo ruolo di “forza indispensabile e necessaria per le missioni di pace”. Occorreva quindi “creare” almeno una dimostrazione pratica da presentare all’opinione pubblica e al mondo intero. Ecco quindi che il Kossovo diventa il casus belli, e la Serbia la vittima predestinata.

1. In Kossovo è in atto una repressione da parte delle autorità serbe nei confronti della popolazione di etnia albanese.

2. La Federazione Jugoslava non fa parte della N.A.T.O. né ha chiesto di farne parte.

3. Il Kossovo è vicino alle basi N.A.T.O., quindi si può bombardare senza grossi problemi.

La N.A.T.O. si autopropone come “Forza militare di pace” in Kossovo e chiede alla Federazione Jugoslava, in pratica alla Serbia, di sottoscrivere degli accordi capestro fortemente limitativi della propria sovranità:

Se venivano accettati la N.A.T.O. poteva presentarsi con successo come forza di pace.

Se venivano respinti…..sarebbe stato sufficiente qualche giorno di bombardamenti e la Serbia si sarebbe piegata, quindi la N.A.T.O. poteva presentarsi con successo come forza di pace.

Se queste previsioni si fossero avverate, il successo sarebbe stato pieno e la N.A.T.O. il 4 aprile 99 avrebbe potuto celebrare festosamente il suo 50° anniversario.

Questa è forse la verità inenarrabile per cui i nostri politici, come sempre succubi delle scelte militari e forse trascinati dagli Stati Uniti, hanno deciso di appiccare il fuoco innescando una guerra che nelle previsioni doveva durare al massimo qualche giorno. Invece le cose non sono andate così e una volta appiccato il fuoco è diventato difficile spegnere l’incendio provocando i disastri cui tutti abbiamo assistito.

DIBATTITO PRECONGRESSUALE DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Una nonviolenza in movimento

Siamo ormai prossimi al Congresso del Movimento Nonviolento. Proseguiamo con la pubblicazione degli interventi che arricchiscono il dibattito in vista dell’incontro di Pisa, che si preannuncia ricco di idee e partecipazione.

SULLA PACE E SULLA GUERRA

Di Gloria Gazzeri*

La guerra della NATO contro la Serbia va allontanandosi dalla nostra attenzione; altri problemi, altre notizie occupano i telegiornali estivi. Occhio non vede, cuore non duole – recita un vecchio proverbio! Invece né la nostra indignazione di ieri, né le altrui sofferenze di ieri e di oggi debbono passare così, senza lasciare un segno forte nelle coscienze. Sarebbe estremamente pericoloso non aver capito, non imparare, dimenticare.

Per questo proviamo a comunicare a tutti gli amici una riflessione sui passati avvenimenti, suddivisa in quattro punti.

L’INGANNO- In una fiaba di Andersen -più volte citata e commentata da Tolstoj nelle sue denunce contro i governi- si narra che alcuni impostori tesserono per un re abiti inesistenti. Il re li indossò e si presentò al popolo con i supposti abiti nuovi. Tutti lo applaudirono e si misero ad ammirare ciò che in realtà non c’era. I recenti avvenimenti hanno illustrato la verità della fiaba come non mai ; cioè il misterioso dominio del potere politico sulle menti.

Il governo americano ha sostenuto che la guerra veniva fatta in nome della umanità e della giustizia, per difendere i Kossovari dalle prepotenze serbe. Una bugia grossa come un grattacielo.

Il nostro mondo occidentale sopporta con olimpica serenità le peggiori nefandezze contro i deboli : dalla decimazione di tanti popoli, in Sudan, Guatemala, Tibet o Kurdistan, ai milioni di morti per fame ogni anno, allo sfruttamento lavorativo o sessuale dei bambini, alla prostituzione nelle nostre strade di migliaia di ragazze negre o slave ecc. ecc. ecc.

Ma tutti questi infelici sono poco interessanti per gli USA. Guarda caso, l’unica ingiustizia insopportabile è nei Balcani. Gli unici che si devono difendere, fino ad imbastire una guerra apocalittica, sono una piccola minoranza di una regione sperduta, ma strategicamente molto interessante, posta fra il Mediterraneo e l’Oriente, canale di passaggio di petrolio e droga. Veramente anche un bambino avrebbe capito l’assurdità del pretesto, la bugia evidente da risultare ridicola.

La guerra è costata miliardi di dollari e la NATO non è un istituto di beneficenza. Persino in trasmissioni TV governative sono trapelate verità diverse. In “Morte di una nazione” (I canale, 26 aprile) in cui è stato trasmesso un raro filmato di una riunione della Presidenza jugoslava tenuta nel lontano 1991, si è udito il Ministro della difesa, generale Kadijvic, pronunciare queste parole :”E’ in atto un subdolo piano per distruggere la Jugoslavia : la prima fase è la guerra civile, la seconda l’intervento straniero, l’ultima l’insediamento di governi fantoccio.” Il che alla luce dei successivi avvenimenti appare una straordinaria profezia !

E invece tutti, politici, capi di stato, giornalisti, persino i sinceri amanti della pace – tranne poche deboli voci, ora per la verità in crescita- si sono messi a sostenere l’inderogabile necessità di difendere i Kossovari, rifiutando se mai solo il modo. Perfino i vescovi USA scrivono : “Sebbene ci sia chiaro che le intenzioni dell’Alleanza atlantica fossero quelle di proteggere gli Albanesi, non condividiamo i mezzi con quali si è perseguito il fine.”

E invece no ! non è per niente chiaro, o meglio è chiarissimo il contrario : che la guerra rispondeva a grossi interessi politici e strategici americani, anche se forse alla furberia politica si è mescolata una dose di follia e non tutto il progetto USA è ancora intelligibile per noi.

Così si sono denunciati errori di bersaglio, apparente inutilità della guerra, crudeltà ecc. ecc. ma il punto fondamentale, che avrebbe reso superflui gli altri, che la difesa dei Kossovari era un semplice pretesto e la guerra rispondeva ad un progetto di potere USA o meglio della lobby che è al potere in USA, è stato pochissimo evidenziato.

Così si sono denunciati errori di bersaglio, apparente inutilità della guerra, crudeltà ecc. ecc. ma il punto fondamentale, che avrebbe reso superflui gli altri, che la difesa dei Kossovari era un semplice pretesto e la guerra rispondeva ad un progetto di potere USA o meglio della lobby che è al potere in USA, è stato pochissimo evidenziato.

Cioè si è discusso sul taglio, il colore, le asole e le nappine di un abito che non c’era !

E poi come mai, è stato osservato da qualcuno, in Kossovo si è ripetuta tal quale la falsariga della guerra in Kuwait ? Come mai la politica di Milosevich si è inserita con assoluta precisione nei piani USA, come le battute di una controspalla in quelle dell’attore principale ?

Sono domande per il momento senza risposta.

AIUTARE GLI ALTRI – Se anche i mali nei Balcani, riportati alle debite proporzioni, sembrano quasi annegare e dissolversi nel grande oceano della sofferenza mondiale, resta pur sempre aperto il problema se e come si poteva o si può tentare di soccorrerli. Molti operatori di pace sono sinceramente desiderosi di farlo e si sono impegnati a farlo.

Ma per soccorrere questi mali bisognerebbe forse comprenderli meglio, lavoro questo, crediamo, da continuare ed approfondire. Una malattia per esser curata deve prima esser diagnosticata.

Ci sono state buone analisi di studiosi sulle particolari condizioni storiche dei Balcani : i secoli di lotta fra Turchi e Slavi e poi la continua ingerenza delle grandi potenze europee hanno destabilizzato queste regioni.

Per illuminare meglio la questione, converrebbe, crediamo, andare a rileggersi certe pagine di Erich Fromm sul narcisismo di gruppo. (E.F. The Anatomy of Human Destructiveness- 1973, tradotto anche in italiano). “Una delle fonti più importanti di aggressione difensiva -egli scrive- è rappresentata dalle ferite del narcisismo…Anche se si è il membro più misero, povero, meno rispettato si trova compensazione nel sentirsi parte del gruppo più meraviglioso del mondo…basta pensare ai sanguinosi crudeli massacri fra Indù e Mussulmani all’epoca della divisione dell’India (cioè quando l’India fu lasciata dagli Inglesi e anche Gandhi fu assassinato)… Tali episodi non ci sorprendono se si tiene presente il fatto che si tratta delle popolazioni più povere e miserabili del mondo”.

Significa, cioè che popolazioni povere e marginali che si sentono in condizioni di grave inferiorità, cercano di recuperare prestigio ed autostima aggredendo ed opprimendo i popoli vicini più deboli. E ciò è applicabile sia per i popoli della ex Jugoslavia, sia in tanti altri microconflitti in ex colonie ; fermo restando che appare abbastanza provato che i conflitti etnici jugoslavi siano stati rinfocolati a bella posta da coloro che avevano interesse a pescare nel torbido.

E veramente sia i singoli che i popoli è innanzitutto di rispetto e stima profonda che hanno bisogno, mentre la condivisione dei beni economici è solo la necessaria conseguenza di questa stima . (e un aiuto economico dato senza tale rispetto è un pane assai amaro).

Chi ha conosciuto qualche Serbo-intellettuale o funzionario- si sarà accorto di quello strano, quasi incredibile per noi, senso di inferiorità misto ad orgoglio che è in loro. Ci si potrebbe chiedere quali forme di disprezzo, quali disconferme hanno subito questi popoli da secoli, da parte dell’Europa, se la parola “slavo” deriva da schiavo e la parola “serbo” da servo ?

E dobbiamo anche ricordare che hanno vissuto ai confini della “cortina di ferro”, hanno visto più da vicino il cosiddetto “benessere” senza parteciparvi. Chi visitava Belgrado qualche anno fa, non poteva non restare colpito dall’enorme sbalzo di tenore di vita fra noi e loro, dalla povertà generalizzata, se pur dignitosa.

E poi chi non avanza, deve tornare indietro, la storia non si ferma. Popoli che non riescono ad avanzare verso la mondialità, l’intercultura, tornano per forza di cose all’identità etnica o tribale. Anche in campo religioso, o ci si apre all’ecumenismo o si torna alle lotte religiose più retrive.

E’ stato giustamente detto che l’unica via di uscita ai conflitti etnici della ex Jugoslavia è una integrazione al resto d’Europa, una inculturazione.

E qui arriviamo ad un altro nodo cruciale del problema. Quale esempio, quale guida, quali valori l’Europa e gli USA offrono ai popoli in cerca di un modello ? Una pseudo civiltà fatta di arrivismo, violenza, smarrimento esistenziale ? Un solo bene, un solo vantaggio : la straordinaria abbondanza di merci, la facilità e mollezza della vita materiale. Ma questo “benessere” -che è per tanti versi un malessere- non è esportabile. E’ ormai tecnicamente impossibile estenderlo ad altri, né le grandi potenze hanno intenzione di farlo. E infatti che cosa abbiamo potuto esportare nei Balcani se non missili e bombe, veleni e morte ?

C’è una frase di Tolstoj che apre tutto un mondo di riflessione – riflessioni che egli ha poi elaborato negli scritti degli ultimissimi anni- “Verrà distrutto il male fuori di noi, quando lo avremo distrutto in noi”(“Tre giorni in campagna”)

Forse ci si dovrebbe chiedere negli ambienti dove si lavora per la pace. Non è la nostra pseudo civiltà il nostro dissennato modo di vivere, i nostri consumi, i nostri spettacoli ecc. ecc. che vanno rivisti a fondo prima o piuttosto che occuparci dei mali altrui ? o almeno contemporaneamente ? affinchè l’aiuto agli altri non sia una fuga dai nostri problemi ?

E’ forse il buon esempio la prima cosa che occorre dare agli altri ?

3)LA NONVIOLENZA E LA NON RESISTENZA- “Si vis pacem, para bellum”, è un vecchio motto romano, usato ed abusato in questi tempi per supportare con la presunta antica saggezza l’idea modernissima che per pacificare i popoli bisogna bombardarli. (Del resto ai potenti tutto è permesso. Se Caligola potè nominare senatore un cavallo, il Pentagono può proclamare “umanitaria” una guerra !).

Torniamo al nostro motto. Coniato da un popolo imperialista e brutale come i Romani, esprime la logica della forza, soprattutto risponde ad ottica di dominio. Significava per loro : se vuoi che i popoli a te sottomessi, si mantengano quieti, devi esser più forte e pronto a colpire.

Per un rapporto paritario, per una pace autentica, per lo shalòm, converrebbe invece meditare questo altro motto :”Come non si può spegnere il fuoco con il fuoco, né asciugare l’acqua con l’acqua, così non si può eliminare la violenza con la violenza.”(L.Tolstoj-Lettera ad Engelgardt)

E’ una legge matematica , diremmo. Due numeri dello stesso segno si sommano, non si elidono fra loro. Per eliminare la violenza occorre un’energia di segno contrario : verità, amore.

Se ben compreso e più conosciuto questo principio inattaccabile avrebbe reso improponibile di fronte all’opinione pubblica il trucco NATO : fingere di spargere bombe per ottenere giustizia e pace.

Fini e mezzi sono interdipendenti, ha ripetuto continuamente Gandhi. Non si può ottenere un fine buono : la difesa del debole, con un mezzo cattivo : violenza ed assassinio (per di più quasi sempre di innocenti !)

Voler eliminare la violenza con altra violenza è un po’ come chi volesse eliminare una macchia d’inchiostro con altro inchiostro. Alla fine ci sarebbe solo una macchia più grande che copre la prima. I successi sono solo momentanei ed apparenti !

“La violenza è un concatenamento – diceva Lanza del Vasto- Chi pensa di liberarsi grazie a lei, forgia la sua catena. Le catene della violenza legittima (cioè giustificata dall’autodifesa o la difesa del debole) sono di ferro più duro e di fattura migliore di tutte le altre.”

La catena della violenza può essere interrotta solo dalla volontà volta al bene, buon esempio, persuasione, fiducia, condivisione, risveglio delle forze sopite della coscienza morale e della ragione, richiamo a principi religiosi superiori.

Su questo punto, bisogna dire, che gli operatori di pace si sono battuti a lungo e con la forza, ma inascoltati.

Ed è doloroso che queste verità così semplici, intuitive, riaffermate con tanta forza in questo ultimo secolo da Tolstoj e Gandhi non siano penetrate ancora nella coscienza collettiva con quella evidenza che avrebbe -ripetiamo- reso improponibile di fronte alla opinione pubblica la guerra del Kossovo.

1 9 9 9 – L’an mil neuf cent nonante neuf sept mois

Du ciel viendra un grand Roy d’effrayeur (X, 72)

“L’anno 1999, sette mesi (o fino al settimo mese) verrà dal cielo un grande Re (o una grande Potenza) terrificante .” Questi versi di Nostradamus, oscuri (ma non troppo, interpretati da sempre come l’inizio delle guerre dell’anticristo) sono gli unici, delle sue dodici centurie, che contengono una data precisa :1999. E’ una data dunque, fortemente simbolica, che ha un suo peso nell’immaginario collettivo : la fine di un millennio, l’ingresso di una nuova era.

Data a parte, è stato avvertito e scritto da più parti che questa guerra improvvisa e tremenda, e per certi versi misteriosa, la prima in Europa dopo più di cinquanta anni, segna un passaggio storico, sia una “cerniera dei tempi”, quasi l’apertura di un altro apocalittico sigillo (dopo Cernobyl, dopo il bombardamento di Bagdad). Più concretamente significa forse un fatto nuovo nella storia : l’affermazione a livello mondiale di una potenza unica, quella degli USA, o meglio della lobby che è al potere in USA. E pensare ad una leadership mondiale di tal genere, tanto ben organizzata e supertecnologica quanto insipiente o addirittura folle, dà i brividi.

Eppure questo potrebbe rovesciarsi in positivo . Pensandoci bene, l’affermarsi di una potenza militare unica ed incontrastabile, significa anche la fine di ogni confronto militare, almeno a macrolivello. (In questo senso i recenti progetti di riarmo dell’Europa appaiono solo penosi tentativi di accodarsi, per recuperare prestigio.)

Una forza unica è anche la fine della forza, non c’è più competizione, non c’è più sviluppo.

Sembrerebbero aprirsi allora due possibilità : o sottomettersi e ubbidire – e questo sarebbe davvero la fine della storia…una brutta fine !- o aprire il confronto su altri piani.

Sembrerebbe giocoforza che una qualsiasi forma di opposizione debba d’ora in poi, usare i principi e i metodi della nonviolenza non resistenza più integrale, essendo lo scontro armato e perfino quello politico, improponibile.

Tanto per fare un esempio, non si può sperare di eliminare le basi NATO dall’Italia, si può solo tentare di accerchiarle culturalmente, dibattere con i militari ecc. Anche da un punto di vista strettamente strategico, si attacca il nemico là dove esso non è preparato o è più debole.

Occorrerà opporre la forza della ragione volta al bene comune, alla forza delle armi…e del mercato ! Il livello di confronto non potrà essere che culturale, morale, nelle costruzioni del pensiero, nella ricerca di verità e salvezza, nella proposta di “valori” – come si usa dire oggi- cioè religioso nel senso più vasto del termine, se “l’autentica religione è prima di tutto la scoperta di quella legge suprema, comune a tutti gli uomini, che permette loro di raggiungere quello che in un dato momento storico è il massimo bene a loro accessibile.”(L.Tolstoj-La fine del secolo – )

Oltre a porsi seriamente il problema della rete di comunicazione di tali contenuti !- altro punto su cui si gioca veramente il destino del mondo.

In questo senso sembra potrebbe aprirsi una nuova fase storica, quella preconizzata dai grandi profeti moderni della nonviolenza . Ma non è scontato che ciò avvenga, o avvenga in tempi brevi.

Perché questo avvenga i valori proposti devono essere autentici e convincenti. Se si deve mettere in campo la forza dell’amore contro la forza delle armi, questo amore deve essere veramente forte e chiaro. Dobbiamo recuperare certezze, lasciare alle nostre spalle ingenuità o compromessi.

Già Tolstoj intitolava un saggio scritto nel 1904, al momento della guerra russo-giapponese : “Convertitevi” e scriveva : “Giovanni il Battista e dopo di lui il Cristo dissero agli uomini : Il tempo è compiuto…Convertitevi (metanoeite). E se non vi convertirete, perirete tutti.”…Le parole di Cristo ora più che in qualsiasi epoca…si riferiscono all’epoca nostra.”

Così anche noi potremmo leggere i recenti avvenimenti come un duro richiamo al compattamento e all’approfondimento per i movimenti nonviolenti, come una grossa chiamata a conversione per tutti.

*Gruppo ricerca ”Amici di Tolstoi” Via Casole d’Elsa 13- 00139 Roma – Tel. 06-8125697

Gli “Amici di Tolstoi” sono un gruppo costituitosi in Italia nel 1990, con lo scopo di diffondere gli scritti e il pensiero di Leone Tolstoi e rendere operante il suo messaggio di fratellanza e di pace.

Sono convinto Vengo al Congresso

Di Massimiliano Pilati*

Sono abbonato ad A.N. e iscritto al M.N. da circa due anni. Ho venticinque anni e mi interesso di nonviolenza dai tempi della guerra del Golfo perché già allora consideravo aberrante l’uso della forza nella risoluzione dei problemi tra stati e perché trovavo incoerente il comportamento di tantissimi compagni che come me si opponevano alla guerra degli “Americani”. Era per me assurdo il comportamento di taluni “pacifisti” che da una parte cantavano “Give peace a chance” e dall’altra erano carichi di odio e violenza nei confronti del “nemico Yankee”. Sono passati già otto anni dalla guerra in Irak e da allora sono cresciuto e maturato dal punto di vista nonviolento e in questi ultimi due anni soprattutto grazie alla “mia – vostra” rivista.

Come ai tempi della guerra in Irak anche quest’anno mi sono ritrovato a fianco di migliaia di persone ad oppormi ad un intervento armato stupido e ingiusto e ancora, come allora, rimango esterrefatto dal comportamento di molti compagni che più che pacifisti sembrano in guerra sia per gli slogan che cantano sia per il loro agire violento.

Ed è per questo , anche in vista del nostro futuro (e per me primo) congresso, che io neofita del Movimento mi permetto di fare alcune considerazioni e proposte. Di recente ho conosciuto, a Bologna e poi al seminario su “economia e nonviolenza” di Firenze, alcuni “esponenti” del Movimento che mi hanno raccontato di eroiche gesta di compagni nonviolenti; ho poi letto lo stupendo libro “Nonviolenza in cammino” e mi sono fatto l’idea che il M.N. sia diventato da movimento di avanguardia dell’azione nonviolenta e della protesta antimilitarista a punto di riferimento “culturale” e di studio teorico sulla non violenza. Credo sia importante e fondamentale discutere di nonviolenza, ma considero altrettanto necessaria l’azione, poiché non è giusto delegare ad altri l’azione per poi limitarsi alla critica sulle modalità da questi utilizzate. Penso che tutti noi nonviolenti si debba tornare ad agire, si debba intervenire alle manifestazioni e ai dibattiti come M.N. e far capire la gioia e la rivoluzione del nostro messaggio; si deve dimostrare, anche attraverso l’azione che non basta essere genericamente contro la guerra ma che bisogna opporsi a tutte le forme di violenza quotidiana. Per questo non posso che appoggiare in pieno la proposta del grande Pietro Pinna di una marcia a carattere puramente nonviolento e anzi io stesso vorrei proporre per il 2000 anche una marcia antimilitarista, magari proprio come quelle storiche che organizzavate nel Friuli-Venezia-Giulia. Sarebbe bello anche rispolverare vecchie esperienze come il G.A.N., penso che ci siano persone come me con voglia di agire e sicuramente motivi per muoversi ce ne sono. In definitiva, tutto questo anche per far capire a molte persone, teoricamente vicine al pensiero “Capitin-Gandhiano”, che il M.N. non è solo un piccolo club elitario che si ritrova su una rivista a sognare di cose impossibili; ma che è, sì un piccolo gruppo di persone, ma con in testa delle idee realizzabili anche nella pratica quotidiana.

*Bologna

La NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 7
Cesare Beccaria contro la pena di morte

di Claudio Cardelli

Dopo la conclusione della guerra per la successione d’Austria (pace di Aquisgrana, 1748), l’Italia poté godere di un cinquantennio di pace fino alla calata nella penisola delle armate napoleoniche (1796).

La pace rese possibile un’intensa attività riformatrice da parte dei prìncipi più illuminati, all’unisono con quanto avveniva negli altri Stati europei.

Nella Lombardia, benché dipendente dall’Austria, le riforme furono sollecitate da una vivace ripresa culturale. I fratelli Pietro e Alessandro Verri con Beccaria ed altri intellettuali diedero vita a un combattivo cenacolo culturale, l’Accademia dei pugni, e ad una rivista “Il Caffè”, che uscì a Milano dal 1764 al 1766.

Dalle discussioni tra i fratelli Verri e Cesare Beccaria (1738-1794) nacque – grazie alla penna di quest’ultimo – un’operetta memorabile, Dei delitti e delle pene (1764), che conobbe una straordinaria diffusione in Europa. Lo scopo dell’autore era l’introduzione di un nuovo diritto penale, rispettoso della personalità dell’imputato, il quale deve essere considerato reo soltanto dopo la sentenza di colpevolezza.

Secondo Beccaria, che l’uomo, il cittadino, non possa essere trattato come reo fino a quando non sia stata provata la sua colpa, è il principio fondamentale di ogni procedimento illuminato, e serve a distinguere una società fondata sui principi del diritto da una società fondata invece sull’arbitrio tirannico. In pagine ispirate da un’intensa passione civile, lo scrittore condanna vigorosamente l’uso della tortura durante il processo (cap. XII) e la pena di morte (cap. XVI). Dal famoso libretto, che meriterebbe di essere letto integralmente, riportiamo la conclusione:

Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all’uso, legislatore il più ordinario delle nazioni, cioè: “perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”.

(BUR Rizzoli, Milano, 1994)
Le osservazioni sulla tortura

Alcuni anni più tardi Pietro Verri (1728-1797) scrisse le Osservazioni sulla tortura (1777, ma pubblicate nel 1804), prendendo in esame i processi del 1630 contro gli “untori”, che in seguito furono studiati anche dal Manzoni. Il Verri giunse alla conclusione che la tortura impedisce di conoscere la verità e che per una corretta amministrazione della giustizia è necessario abolirla.

Quale è il sentimento che nasce nell’uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Più sarà violento lo strazio, tanto più sarà violento il desiderio e l’impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col quale un uomo torturato può accelerare il termine dello spasimo?

Coll’asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli la verità che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse il torturato innocente è spinto egualmente come il reo ad accusare sé stesso del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per scoprire la verità, ma bensì un mezzo che spinge l’uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia egli, ovvero non lo abbia commesso.

(cap. IX, UE Feltrinelli, Milano, 1979)

Il movimento di opinione pubblica contro l’uso della tortura e della pena di morte portò, in vari Stati, a una serie di riforme della legge penale: ad esempio, Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, con l’editto del 30 novembre 1786 abolì la tortura e la pena di morte.

Il 2 gennaio 1776 Maria Teresa d’Austria aveva abolito la tortura in tutti gli Stati ereditari; ma a proposito dell’estensione del decreto imperiale alla Lombardia, il Senato milanese, composto da nobili, espresse parere negativo almeno per tre casi: qualora cioè il delitto fosse particolarmente grave, ove non fosse possibile far emergere diversamente la verità, nei casi di giudizio urgente.

Commentava ironicamente il Verri, scrivendo al fratello Alessandro l’undici settembre:

Non so se t’abbia scritto che sua Maestà nella Germania ha abolito la tortura e limitata la pena di morte ai soli casi di delitti atroci. Ha interpellato il Senato di Milano se vi fosse inconveniente a estendere qui una tal riforma. Il Senato, e quello che è più, tutti quei che si nominano prudenti hanno opinato che nelle circostanze nostre, e attesa l’indole del paese, convenga mantenere la tortura e impiccare di spesso. Poi si lagneranno se i tedeschi dicono che noi non siamo buona gente; hanno la nostra propria confessione!

(ivi, pp. 13-14)

DECALOGO MEDITERRANEO / 7
Gli ingredienti della convivialità nella cura dei dettagli

Di Christoph Baker

Mi è difficile immaginare la vita senza la tavola. Imbandita o sparecchiata. Comunque con qualche bicchiere e bottiglia, o qualche tazza e teiera, una conversazione nell’aria, oppure un silenzio meditativo. Forse una nuvola di fumo sopra la testa di un commensale. La tavola è un luogo sacro, che scandisca un rito di famiglia domenicale o che serva da paciere in un negoziato. E’ un oggetto che lega la gente, che da corpo al sentimento di appartenenza. In ogni angolo del mondo, ogni cultura ha fatto della tavola un mezzo di comunicazione, di socialità. Intorno alla tavola si incontrano le generazioni, intorno alla tavola si condividono gioie e paure. La tavola può essere rotonda, ovale, quadrata, rettangolare, addirittura ottogonale. Può essere fatta di plastica come di marmo. Rimane se stessa, rimane insostituibile.

Ognuno ha la propria immagine della tavola. Ognuno ha dei ricordi particolari. L’immagine che mi viene subito in mente è la tavola quando si serve il pranzo. Il bianco della tovaglia di lino, i motivi floreali dei piatti, la forma dei bicchieri di cristallo (diversi se per il vino bianco, il vino rosso o l’acqua – giammai la coca-cola…). Le posate di argento pesanti un po’ sbiadite, con qualche coltello dal manico traballante. Il sottopiatto di Faenza o di Delft o di Lisbona. Il cestino di vimini per il pane. E uno ad uno i piatti che vengono serviti, freddi o fumanti, riempiendo la stanza di odori, sapori e sensazioni. La bottiglia che si stappa e il rumore del vino che sgorga nei bicchieri. L’aspettativa, e poi il via dato dalla forchetta alzata della padrona di casa. E la conversazione che si incanala strada facendo verso un andazzo severo o scherzoso, man mano che si cambiano i piatti per le varie portate.

E quanta preparazione ci sta a monte. Perché un pranzo non inizia con la forchetta alzata della padrona. Inizia molto prima, con la voglia – anche passeggera – di invitare qualcuno a condividere il cibo. Si pensa a questo o quell’altro amico, ad uno o più parenti. Si soppesano i pro ed i contro del mischiare persone diverse. Si passano rapidamente in rassegna i caratteri degli amici e conoscenti, per il raggiungimento di un equilibrio anche creativo a tavola. A volte ci si riesce, altre volte no. Una volta scelta la compagine, ci si sforza di ricordare cosa non mangiano – niente di peggiore che sbagliare verdura, o servire pesce a chi mangia solo carne o viceversa. Nel momento della scelta del menu, possiamo dire che l’egoismo della sfida culinaria si mischia sapientemente con l’altruismo per il gusto degli altri.

A questo punto si entra nella sfera dell’infinito possibile. Si valutano tutte le alternative, ci si butta in voli gastronomici pindarici, niente è vietato, tutto è fattibile. Tranne che manca quella spezie particolare, cruciale, insostituibile, senza la quale tanto vale comprare roba già precotta! Allora si riduce il campo della scelta, ma sempre un viaggio è. Ecco: la tavola è un invito al viaggio. E come per tutti i viaggi seri, bisogna preparare i bagagli. Ricordarsi dove si va e cosa servirà nelle varie tappe del viaggio. La mente allora si applica alla cura dei dettagli. Niente viene tralasciato (almeno si prova), sapendo che il minimo sbaglio, la minima mancanza può rovinare tutti i buoni propositi.

Ho osservato per anni mio padre in cucina, mentre preparava per noi viziati ed immeritevoli figli, pranzi e banchetti da alta cucina (francese, italiana, americana e cinese). Non l’ho mai visto in qualche modo calcolare, soppesare, discriminare in rapporto a chi quel cibo l’avrebbe mangiato. Lo sforzo era sempre teso all’eccellenza. Mi ricordo che era quasi impossibile interromperlo mentre lavorava (volevo dire creava), in mezzo a pentole, padelle, coltelli, verdure, spezie, legumi, carni e pesci, tant’era la concentrazione. Forse non vi era un rapporto lineare fra quello sforzo e il risultato, o ancora l’apprezzamento dei beati beneficiari di tanto regalo. Ma questo non importava. Importava compiere l’azione nel modo migliore. Così che al momento della forchetta alzata, tutto il possibile era stato fatto. Il resto era in mano alle dinamiche sociali di un incontro fra essere umani.

La cura dei dettagli è una delle condizioni fondamentali della convivialità. Senza questa cura, quest’attenzione, non si riesce a porre le basi per un approccio diverso alla nostra atavica tendenza ad allontanare gli “altri”, i diversi. Nel recente passato, si poteva illudere di essere da una parte o dall’altra, membri di strane famiglie ideologiche all’interno delle quali poteva anche succedere le cose più brutte. Ma oggi, che ci siamo risvegliati con la complessità come pane quotidiano, bisogna ammetterlo: come li abbiamo conosciuti, la solidarietà, la tolleranza e la militanza hanno fatto il loro tempo. Perché sotto sotto, questi pur nobili sentimenti nascondono una rapporto di forza fra l’io che sono solidale o tollerante o che lotto, e l’altro che spesso e volentieri non mi ha chiesto niente in partenza. Quanto danno è stato fatto nel nome dell’aiuto agli altri! C’è dietro ogni tentativo di “migliorare” la vita altrui qualcosa che sa di crociata, di missione.

Lo so: com’è difficile sbarazzarci di secoli, di millenni, di pretesa universale alla verità. Com’è difficile nel momento in cui pretendiamo un dialogo con gli altri, non averli già cacciati in una categoria che vediamo solo noi. Abbiamo edificato una montagna in nome della solidarietà, non rendendoci conto di averla costruito sulla falda sismica del complesso di superiorità. Vi siete chiesto come mai gli Africani, gli Asiatici, gli Indios, non hanno sentito loro il bisogno di colonizzarci – noi occidentali -, di portarci la loro civiltà, di imporre una visione della vita, di dettare le regole del gioco? Vi è nell’attitudine di andare in aiuto all’altro, il pericolo (mortale) dell’arroganza culturale.

Ma con la convivialità, si possono porre le basi per un rapporto veramente egualitario. Si possono creare le condizioni determinanti dell’ascolto. Nel rapporto conviviale, non ho la necessità di impartire lezioni, di definire teoremi, di sanzionare risultati. Così, tolgo di mezzo pretese di controllo, voglia di dominio, tentativi di sopraffazione. La convivialità è uno spazio, ma anche un tessuto, un mosaico. All’interno di essa, l’uno parla e l’altro ascolta. E in quell’ascoltare, c’è la curiosità (merce in via di estinzione, temo…), nobile sentimento di andare incontro all’altro senza violenza, solo per saperne di più, per scoprire cose sconosciute, forse imbattendosi anche in similitudini mai immaginate. Intorno al tavolo della convivialità, capita che le storie diventino viaggi incantevoli, che emozioni si condividano laddove normalmente serpeggia la diffidenza, che in un attimo gli occhi si girino verso lo stesso punto invisibile della nostra condizione umana. E rendersi conto allora che il proprio viaggio in fondo a noi stessi non è più solitario. Nella convivialità, condividere diventa automatico.

La convivialità, la immagino come una passerella e anche come una amaca. Permette allo straniero, che siamo tutti, di essere contaminato dall’altro, permette alle generazioni di superare i muri ed i fossati fra di loro, smussa gli angoli spigolosi della differenza di genere, ci aiuta a sentirsi parte di qualcosa più grande di noi. Ma ci rende anche l’amarezza più sopportabile, lo scoraggiamento meno dirompente, l’amore perduto meno micidiale. All’interno della convivialità, c’è lo spazio per recuperare, senza fretta, senza forzare i tempi. Perché gli altri non sono là per spronarci, bensì per reggerci. Non per giudicare, ma per comprendere. Non per fare finta di niente, ma per accompagnarci anche fino a toccare il fondo. Perché sanno che solo toccando il fondo, si può ripartire puliti dentro.

Finalmente, l’uomo trova un luogo dove abbandonare i rapporti di forza. Sarebbe una contraddizione assassina cercare di “guidare” la convivialità verso un qualsiasi traguardo. Questo era il male oscuro della solidarietà. Mi ricordo chiaramente, da adolescente, in una serata “a favore” delle forze di liberazione dell’ El Salvador, come gli organizzatori svizzeri zittirono un esponente salvadoregno, appena egli aveva rifiutato che la propria storia fosse ridotta ad una definizione ideologica, ad uno slogan politico. Non si poteva accettare che proprio lui, che avrebbe dovuto personificare La Rivoluzione, fosse uno che esprimesse dubbi, perplessità, incertezze. L’amico salvadoregno cercava probabilmente solo un po’ di calore umano, un po’ di spazio tranquillo per raccontare la sua storia, la sua verità. Ed era capitato lontano della convivialità. Lontano dalla tavola, lontano dalla pace.

Non ho ricette immediate per i più grandi mali della terra. Non penso che sarà facile invertire le tendenze in atto che ci portano sempre più lontani gli uni degli altri, sempre più arroganti come singole persone e come specie. Mi rendo conto che l’andazzo è verso un isolamento sempre maggiore di ogni individuo – dietro il triste obbligo della competizione e dell’affermazione sociale. So bene che non esistono miracoli che da un giorno all’altro aprono gli occhi ed i cuori degli uomini. Ma sicuramente uscire dal proprio isolamento è il primo passo verso un futuro più tranquillo. Uscire per andare incontro all’altro senza pregiudizi. E questo non può accadere in una relazione asimmetrica, di tensione, di calcolo d’interessi. Anche se Don Chisciotte a volte mi seduce, so che non è possibile immaginare di cambiare modo di vivere, ritmi esistenziali, qualità dei rapporti su una base unilaterale. Abbiamo bisogno degli altri, siamo degli esseri fondamentalmente sociali. Allora vediamo di trovare il motus vivendi pacifico, calmo che dà a tutti il diritto di sedersi a tavola, dove nessuna ha ragione ma tutti possono parlare e sbagliare e farfugliare alla ricerca delle parole giuste.

La convivialità rappresenta questo terreno fertile, questo ramo portatore, questa sperimentazione della libertà. Voltaire ce lo diceva: la libertà degli uni finisce laddove comincia quella degli altri. Allora, perché non mettere insieme tutte queste libertà e cercare di imparare a riconoscere quella comune, quella che non fa male al più debole, che non lascia per strada i più stanchi, che non emargina i diversi?

E qui si aprono finestre mai viste prima. Atmosfere suggestive ci attirano, come il laboratorio di tappeti nel souk, la cantina dove riposano bottiglie pregiate, la sala di un vecchio caffè sul porto, o ancora le panchine sotto il baobab di un villaggio della savana. Un benessere avvolgente riscalda lentamente il corpo, il sangue arriva alle guance, i muscoli si rilassano. Nei gesti secolari di un quotidiano antico, si legge la storia della gente comune, dei portatori di saggezza. All’improvviso, quel pescatore che lentamente piega le proprie reti diventa tutti i pescatori di tutti i mari, quella donna anziana che ricama davanti casa diventa tutte le mamme e le zie e le nonne della terra. Il bambino che insegue un pallone, la bambina che salta a corda diventano tutti i bambini di tutto il mondo. Perché la convivialità non è delineata da limiti fisici, ma viaggia attraverso e dentro la condizione umana.

Se invece di vedere il mondo in categorie e scompartimenti, cominciassimo a guardarlo attraverso gli occhi meravigliati dei bambini o quelli socchiusi ma saggi dei nostri nonni, potremmo forse accorgerci che la nostra vita è la vita degli altri e viceversa. Che non siamo individui isolati, che rispondono al massimo al richiamo del clan, della tribù o dell’etnia. Che questo tipo di appartenenza non ha mai portato ad altro che alla guerra. Invece, scoprire di essere tessera di un mosaico, nota di una partitura, filo colorato di un tessuto, goccia di pioggia in un arcobaleno, scoprire la legge fondamentale della dipendenza di tutto e di tutti, spogliarsi delle troppe reticenze, ecco l’invito alla convivialità.

Mi guardo alle spalle. Rivisito i momenti chiave del cammino che mi ha permesso di non essere ancora adulto (spero mai…). Ogni ricordo si delinea su un fondo di spessore e di qualità della vita. Non ci sono solo rose, ci sono anche spine. In mezzo a risate incontrollabili, rivivo le lacrime o il vuoto dopo l’amore sconfitto. Fanfare trionfanti si mescolano a tristi accordi minori. Ci sono i gabbiani nel cielo di Cherbourg, ma anche lo smog di Stoccarda. So bene che la vita non è una passeggiata, che la lunga strada a volte sembra allontanare la meta, che tante volte la corrente è contraria. Ma ho la memoria colma di pique-niques in riva a torrenti gelidi, campeggi toscani coperti di polvere di sabbia, feste dell’Unità quando non sapevo niente del PCI o della DC, le fontane di Riquewihr che sputavano vino alla Fête des vendanges. Luoghi, spazi, sensazioni, emozioni, lezioni di vita. Testimonianze inconfondibili dello stare bene.

In fondo, non dovrebbe essere questo il modesto traguardo delle nostre esistenze: provare a stare bene, a stare bene insieme? Quanta fatica inutile, quanti sforzi disumani per “vincere”, “andare avanti”, “sorpassare”, “guadagnare”, quando a pochi centimetri ci aspettano la dolcezza, la quiete, i ritmi naturali e l’eterno ricominciare delle cose. Qual è il senso di tante invenzioni, di queste scoperte scientifiche, dell’ultimo traguardo tecnologico, se il risultato è un mondo sempre più spietato, grigio, impersonale? Se non conosciamo neanche più i nostri vicini di pianerottolo, se non sappiamo più riconoscere il sapore del cumino, il canto della civetta, la provenienza dei venti. Dubito che ci siano dei gadget che possano ridarci indietro questo patrimonio. Per non parlare del vecchio buon senso comune, seppellito dal frastuono di slogan pubblicitari, dal tintinnio di monete d’oro, dalla chimera del guizzo vincente.

Tuttavia, rimango fiducioso. Non riesco ad immaginare che il pendolo prima o poi non ritorni indietro. Allora mi dico che tanto vale prepararsi un po’. I ruderi e le macerie dei vari muri crollati sono forse i primi segni di una nuova era. I catastrofisti, o più semplicemente i conformisti, che odiano qualsiasi obbligo di rimettersi in gioco, indicano una vicina apocalisse, un peggiorare delle condizioni, dove regnerà sovrano il “si salva chi può”. Inneggiano ad un egoismo ancora più spinto, ancora più crudele, come unico modo di selezione fra chi ce la farà e chi cascherà per strada. Una incapacità intellettuale li condanna a cercare nella malattia stessa i rimedi al tanto annunciato disastro. Francamente, mi sembra ben poca roba. Intanto, perché se deve vigere la legge del uomo mangia uomo, rimarrà alla fine un enorme orco con una indigestione epocale e intorno a sè solo desolazione. Neanche un minimo nano a cui raccontare la grande abbuffata. Ma anche perché tradisce una povertà di spirito, incapace di vedere fuori dal seminato, dal preconfezionato, dal soporifero. Insomma più zombie che vincenti.

Invece, se potessimo per un istante coprire il pianeta con nostro sguardo curioso e conscio, scommetto che scopriremmo una catena virtuale di relazioni umane ancora tranquille. Di antichi segni di ospitalità e di accoglienza dello straniero. Di lunghe riflessioni comuni sul significato della libertà, sul senso della vita, sulla maniera di fare le cose. Salterebbero agli occhi tutti i simboli ed i rituali ancora presenti e che hanno tenuto insieme civiltà minori lungo il corso della storia. Si scoprirebbe che nell’era dei jet supersonici, c’è ancora chi sta ore fermo, le orecchie all’erta per riconoscere il primo grido dell’uccello che annuncia la primavera. E nel segno della longue durée (lo sguardo storiografico dell’amato Fernando Braudel), vedremmo che spesso i giochi dei bambini sono gli stessi a Papua come a Quito, a Cotounou come a Ostuni. Che il flauto è magico perché lo suonano tutti. Insomma, che esiste in questo mondo una comunione esistenziale molto profonda. Ed è su di essa che si dovrebbe possibilmente porre le basi di un nuovo patto fra gli uomini.

L’invito alla convivialità passa allora per un recupero del senso della storia. Alla faccia del povero illuso che ha detto che dopo il 1989 la “storia è finita”, tocca incamminarsi sui sentieri del passato, non per una glorificazione o una strumentalizzazione delle cose fatte. Anzi, proprio la manipolazione della storia è stata la prima ragione di tante violenze e di troppe guerre. Al contrario, il viaggio dentro la storia deve essere improntato all cerca delle storie incompiute, delle lezioni già imparate ma ignorate per troppi secoli. Che ce ne importa delle date delle battaglie o della numerazione dei Re Luigi! Quel che conta è vedere come hanno fatto i nostri simili in epoche diverse a fare fronte alle avversità, come hanno gestito l’incontro con l’altro, quali sono stati i connotati della contaminazione. Perché non c’è dubbio: la storia dell’uomo è una storia di contaminazioni, inevitabili per potere sopravvivere. Semmai c’è stata una razza pura, è scomparsa per forza prima ancora di potere raccontarsi! La questione dunque non è se si riesce a difendere la propria patria genetica, ma di identificare la strada più aperta per vivere tutti in pace.

Se mi permettete allora, chiudo queste piccole riflessioni sulla convivialità, ascoltando un po’ di flamenco, mangiando una insalata mista, sorseggiando un vino d’annata, intorno ad un tavolo e in mezzo a compagni di strada, convinti come me che l’unico vero traguardo è quello di arrivare a domani con un commensale in più.

SONO SOLO CANZONETTE? / 2
All together now…all together now…

Di Paolo Predieri

L’industria dello spettacolo che ruolo e che spazi ha offerto in una prospettiva nonviolenta o quantomeno di lotta ecopacifista? Dobbiamo risalire a trent’anni fa. Woodstock 15, 16 e 17 agosto 1969. “Tre giorni di musica e pace”: oltre ogni aspettativa degli organizzatori, mezzo milione di persone si è radunato avendo fra i motivi unificanti l’opposizione alla guerra in Vietnam. Per la prima volta i musicisti, in quel caso non del tutto consapevoli, si trovano coinvolti in un grande evento con valenze politico-sociali.

A Woodstock entra in campo l’industria dello spettacolo e viene sancita la separazione fra un pubblico giovanile pronto a radunarsi in grandi appuntamenti e i cantanti e musicisti potenzialmente coinvolgibili sui temi importanti, ma ormai distanti dalla gente (non a caso a Woodstock alcuni arrivano in elicottero…dal cielo!). Si apre così la strada agli eventi che caratterizzeranno, negli anni successivi e, fino ad oggi, l’intervento dell’apparato musicale-industriale. Ancora nel 1969 possiamo ricordare il Toronto Peace Festival promosso da John Lennon e Yoko Ono. E poi Isola di White, Altamont, Concerto per il Bangladesh, Live Aid, Farm Aid, Human Rights Now, Mandela Day, Moscow Peace Festival, Rainforest Concert, The Wall a Berlino, Tibetan Freedom Concert, Net Aid e chi più ne ha più ne metta.

Ma va ricordato, ed è un altro anniversario, il primo grande evento musicale con chiaro obiettivo politico, dove una parte importante del mondo musicale si unisce e si organizza: vent’anni fa, settembre ’79, un gruppo di musicisti si aggrega nel Muse (= musicisti uniti per un’energia sana) e ne aggrega tanti altri in una serie di concerti antinucleari, “No Nukes” a New York, coinvolgendo scienziati e movimenti dei consumatori col loro leader Ralph Nader che intervengono per denunciare il grave pericolo dell’energia nucleare, dopo l’incidente di Harrisburg. I fondatori del Muse sono: J.Browne, G.Nash, J.Taylor, B.Raitt, i Doobie Brothers e John Hall, meno conosciuto da noi ma autore di interessanti canzoni sul tema come “Plutonium is forever” e “Power”. Nelle coscienze dei giovani e nell’opinione pubblica quei concerti hanno ottenuto molto più degli interventi pubblici degli esperti ambientalisti.

In Italia cantanti e musicisti sono stati spesso disponibili per iniziative con valenza socio-politica, anche se raramente si sono fatti promotori di azioni e campagne, soprattutto se collettive. Alcuni come Gino Paoli e Domenico Modugno sono addirittura stati eletti in parlamento, altri danno vita ad iniziative individuali come i Pooh a favore del Wwf, Venditti per l’Eritrea, Jovanotti per il Chiapas, Concato per il Telefono Azzurro, Laura Pausini per l’Unicef, ecc, ecc.. La ormai storica “Nazionale di calcio cantanti” e la più recente “Dinamo Rock” aggregano musicisti su iniziative (non musicali) di beneficenza.

Qualche singola partecipazione a iniziative nonviolente e antimilitariste c’è stata: De Andrè, Battiato, Locasciulli e Ivan Graziani alle marce antimilitariste in Friuli e Sardegna, qualche concerto per la Loc di Dalla e Graziani, un concerto di Paoli a Montalto di Castro in piena lotta antinucleare. Non abbiamo avuto il “No Nukes” italiano, anche se ci si è andati molto vicini: cantanti e musicisti erano stati aggregati da un’iniziativa di base in vista dei referendum sul nucleare del 1987, ma la struttura necessaria all’organizzazione non ha trovato le risorse economiche per attivarsi.

I cantanti italiani dimostrano di non sentirsi una categoria omogenea in grado di fare opinione. A metà degli anni settanta si tentano i primi grandi raduni musicali in Italia: a Licola per la Nuova Sinistra, al Parco Lambro di Milano per la rivista ReNudo. La musica raduna diverse migliaia di giovani, ma è più un ricopiare modelli dei grandi concerti inglesi e americani. Infatti, faticano a decollare iniziative con precisi connotati sociali. Nell’81 per i terremotati dell’Irpinia e nell’85 per le vittime del crollo della diga di Stava, ad esempio, si verifica l’aggregazione di numerosi artisti. La risposta del pubblico e dei media è veramente scarsa e la reazione di organizzatori, impresari e politici è totalmente negativa: si scatenano contro questi concerti perché rompono lo stereotipo del cantante italiano e delle logiche di mercato. Chi canta non deve pensare e chi ascolta deve fare altrettanto. Suonare insieme non è possibile. In seguito qualcosa si sblocca, ad esempio in occasione della guerra del Golfo. “Fermiamo la guerra: i giovani per la pace e la nonviolenza”, concerto a Roma il 26 gennaio ’91, con 30.000 persone e una trentina di cantanti e gruppi. In quel caso il comitato promotore aggregava l’associazionismo della sinistra e quello cattolico. Oggi, pur essendoci stato qualche concerto contro la guerra (ad esempio ad Aviano), interventi singoli di diversi cantanti e musicisti (una decina ha sottoscritto l’appello “Io vado a Pristina”) non c’è stata una spinta né da parte politica né da parte del mondo dello spettacolo per realizzare qualcosa di più importante. I tempi sono cambiati, così come le maggioranze di governo…

ESERCITO PROFESSIONALE
Le ragioni della nonviolenza

Si temeva il peggio ed è arrivato: esercito di mercenari e di rambo, spesa militare in su, finalità neocolonialista, militarizzazione volontaria delle donne, abolizione dell’obbligo di leva nell’intento di abolire la obiezione di coscienza e il servizio civile, chiusura totale alla cultura della nonviolenza.

E’ questo il programma di centrosinistra?

D’Alema ha ammesso che l’esercito professionale, anche se con meno personale, costa assai di più, perché senza paghe alte nessuno o pochissimi farebbero volontariamente il soldato. E poi un esercito di rambo esige tutto un armamentario nuovo e costosissimo.

Ha ragione il generale Giancarlo Naldi dell’aeronautica ad affermare che l’esercito puramente professionale sarà formato da pochi motivati, un po’ esaltati e pericolosi, e da molti poveri in cerca di un mestiere ben pagato. Basta vedere da chi sono formati e come si comportano gli eserciti professionali delle cosiddette grandi democrazie occidentali. Si pensi alle guerre della Somalia, dell’Iraq e del Kossovo!

Ma il vero imbroglio è che si continua a motivare pubblicamente gli eserciti professionali per missioni di pace, guerre umanitarie e simili, mentre tutti i testi scritti fondamentali sul NUOVO MODELLO DI DIFESA parlano di “difesa degli interessi vitali della nazione”, ossia delle “materie prime presenti nel terzo mondo, necessarie alle economie dei paesi industrializzati”, di “difesa dei propri mercati”, con un intreccio perverso di industria e commercio bellici che hanno bisogno di eserciti possenti e di… guerre, con traffici che viaggiano apparentati, spesso e volentieri, con quelli della droga. Sono i pochi ricchi (20% della popolazione) che devono difendere il possesso dell’80% dei beni del mondo contro la massa dei poveri e facendo fare la guerra ai poveri: disegno neocolonialista, criminale! Quanto alla parità dei sessi, ossia alla donna soldato, in questo caso sarebbe forse meglio una parità a rovescio: che i maschi smettessero di preparare e fare la guerra, assimilandosi in questo alle donne. L’abolizione della leva può essere vista in positivo come effetto della crescita esponenziale del numero degli obiettori, che entro il 1999 potrebbero crescere fino ai 100.000, erodendo il consenso all’esercito. In ogni caso, l’obbligo di leva può essere “recuperato” in caso di guerra o di crisi di particolare rilevanza, per cui chi rifiuta l’esercito e il suo mestiere, che è di far la guerra, dovrà ugualmente dichiararsi obiettore di coscienza.

Il vero problema è la difesa, che è un problema serio e un problema di tutta la comunità civile. Anche per coloro che rifiutano il militare, il problema della difesa resta e non è l’ideale che, in caso di necessità, si facciano poi difendere dai militari.

Le alternative che i pacifisti generalmente pongono sono due: una istituzionale e l’altra popolare. Quella istituzionale consiste nel completare l’unione politica continentale e, ancor meglio, mondiale, visto che i problemi oggi sono mondiali. Perciò si auspica che, come già avvenuto a livello nazionale, si aboliscano gli eserciti nazionali e continentali, sostituendoli con una adeguata <polizia internazionale> alle dirette dipendenze di una ONU democratizzata e rafforzata. La polizia è altra cosa dagli eserciti, poiché usa la forza solo per difesa e, in ogni caso, escludendone l’uso <omicida>. Parola di generale: non si possono mandare gli eserciti a compiere azioni di polizia internazionale (gen. Bruno Loi). Ma l’alternativa vera è la DIFESA POPOLARE NONVIOLENTA, che esige una formazione culturale-operativa e un addestramento di massa. Questi due tipi di difesa, istituzionale e popolare, non sono alternativi fra loro, bensì complementari, secondo le circostanze. Ora l’abolizione pura e semplice della leva, incentivando l’esercito puramente professionale, significa consegnare il mondo in mano ai militaristi, rinunciando a una difesa ragionevole e umana. Non a caso la nuova legge-obiettori prevede l’addestramento alla “difesa nonarmata e nonviolenta” (art. 8 e).

Chiediamo che il Parlamento discuta e riveda al più presto il decreto-legge d’Alema in una prospettiva di legalità e non di Far West internazionale. Il millennio che si chiude è connotato nell’ultimo secolo da due figure emblematiche: Hitler e Gandhi, la prepotenza militare e la nonviolenza. Il governo D’Alema, insieme con tutta la Nato, sembra ispirarsi al primo modello. Le aspirazioni di pace che affollano i pensieri rivolti al terzo millennio sembrano richiedere invece una svolta culturale-politica nonviolenta, come esplicitamente richiesto all’ONU dai 20 PREMI NOBEL PER LA PACE: anno 2.000 dedicato alla pace e l’intero primo decennio dedicato alla educazione di tutti i popoli della terra alla NONVIOLENZA. Questa è la prospettiva che vorremmo prevalesse anche nella politica e in tutta la società italiana. Ci auguriamo che questa volta i cappellani militari non facciano da palo alla istituzione militare in questa svolta buia. Per dar risalto a una prospettiva di pace e nonviolenza, e incoraggiare il PARLAMENTO a intervenire, oggi stesso ho deciso di digiunare inserendomi nella staffetta iniziata il 2 settembre da Gianfranco Buffagni di Modena.

p. Angelo Cavagna – presidente del Gavci

ECONOMIA NONVIOLENTA
La strategia lillipuziana e i capelli di Gulliver

Nel romanzo di Jonathan Swift i lillipuziani hanno la meglio sul gigante perché ciascuno di essi lega uno dei capelli di Gulliver, che viene immobilizzato.La metafora è stata ripresa da Francesco Gesualdi, a Firenze il 19 giugno scorso in occasione del seminario “Economia Nonviolenta” organizzato dal Movimento Nonviolento e dal M.I.R., per presentare l’esperienza e le proposte del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di cui è fondatore. Questa è la sintesi del suo intervento

Di Francuccio Gesualdi*

Di fronte al disagio la prima risposta deve essere di solidarietà diretta verso chi è in difficoltà, perché chi lo vive ha bisogno subito e non può aspettare la rivoluzione. Proprio per questo, come gruppo di famiglie, ci siamo impegnati nel campo dell’accoglienza a minori con l’obiettivo di vivere la dimensione familiare in un modo diverso. Quello che facciamo è molto contenuto perché abbiamo scelto di mantenere comunque la fisionomia familiare, ma penso che le cose andrebbero meglio se un più ampio numero di famiglie seguisse questo esempio.

Dall’altra parte, se non vogliamo ricadere nell’assistenzialismo, è necessario un impegno politico per andare alla radice dell’ingiustizia.
Un tempo per comprendere

Noi del Centro Nuovo Modello di Sviluppo abbiamo aperto una fase di studio per capire in che modo l’organizzazione economica crea disuguaglianza. Non siamo un’Università, ci siamo mossi con una finalità concreta, chiedendoci il perché del processo di impoverimento che riguarda anche il nostro Paese – in Italia il 15-16% delle persone vive al di sotto della soglia di povertà – ma in maggior misura i Paesi in via di sviluppo.

Le nostre conclusioni sono ab”astanza nette. La povertà non è un caso, è un processo VOLUTO.

Viene prodotta scientificamente da un’organizzazione sociale e da un mercato che mette al primo posto il profitto d’impresa e suddivide la gente negli utili – coloro che consumano o che si arricchiscono – e negli inutili, cioè quelli che al mercato non servono.

Nonostante questo esiste tuttora una larga fascia di popolazione che vive una vita dignitosa al di fuori del mercato, perché è autosufficiente nelle funzioni basilari, per esempio in quella alimentare. Verso queste persone il sistema si accanirà sempre di più e cercherà di appropriarsi delle loro ricchezze , come già sta accadendo nel sud del mondo dove la gente viene privata della terra, dove le foreste vengono distrutte per costruire industrie o stabilimenti minerari, o dove la gente non può più pescare alla profondità che le era consueta perché i grandi pescherecci sono passati per primi e hanno razziato il mare.
Un sassolino nella scarpa

A questo punto per noi si trattava di capire in che modo siamo dentro a questo meccanismo – dal quale nessuno può ritenersi escluso – e in che modo possiamo incepparlo. La risposta è stata: in quanto consumatori, possiamo agire sui consumi delle merci che provengono dal sud del mondo.

Le proposte sono essenzialmente tre:

la scelta di un consumo equo e solidale, ormai diffusa in molte città italiane, alle quale abbiamo contribuito a dare un impulso sicuramente importante;

la richiesta di un certificato sociale di accompagnamento delle merci che, accanto alla qualità e al prezzo dei prodotti, ne documenti la storia;

il boicottaggio, che è un’arma nelle mani del consumatore basata sul non acquisto di un determinato tipo di merce. Il boicottaggio ha possibilità di riuscita molto ridotte., per questo bisogna fare molta attenzione. Organizzare azioni di questo tipo che non abbiano possibilità di successo significa esporsi a delusioni che aumentano la sfiducia nella gente e fanno retrocedere su posizioni di disimpegno.

Il boicottaggio è molto temuto dai lavoratori del sud perché ha un’altra controindicazione: se riesce, può determinare un cambiamento negli investimenti dell’impresa, che decide di chiudere in una certa area annullando così dei posti di lavoro. Per i lavoratori questo è un pericolo reale. Soprattutto dove avvengono trasferimenti di massa dalle campagne alla città per lavorare nel settore industriale, i cambiamenti sociali che si innescano sono enormi ed è molto difficile tornare indietro. Va detto però che, storicamente, il boicottaggio non ha mai prodotto disoccupazione.

Secondo la nostra esperienza, l’unica garanzia dei posti di lavoro al sud è un forte movimento di consumatori che dica ai grandi stabilimenti: ”Fate sì che il lavoro dia condizioni di stabilità e dignità”. Le possibilità che abbiamo non sono da sottovalutare. Ogni volta che sviluppiamo una campagna di denuncia le aziende rispondono a tutti, singolarmente, dimostrando di tenere in grande considerazione l’opinione dei consumatori. Forti di questa consapevolezza, come Centro chiediamo alle imprese la sottoscrizione di codici di condotta nei quali queste si impegnano a lavorare nel rispetto dei diritti dell’uomo e dell’ambiente, e l’istituzione di organi di controllo indipendenti che verifichino l’attuazione degli accordi pattuiti.
Il trasferimento della produzione

Oggi dal sud del mondo non arrivano solo prodotti agricoli. La globalizzazione del mercato ha indotto il trasferimento della produzione nelle zone che offrono manodopera al minor costo, soprattutto nei settori calzaturiero, tessile e dell’industria del giocattolo.

Grazie allo sfruttamento del sud i paesi più sviluppati placano le proprie contraddizioni in una catena di sfruttamento per cui, ad esempio, il trasferimento della produzione consente di contenere i prezzi delle merci, e questo fa sì che anche chi ha un reddito minimo nel nostro paese possa riconoscersi un proprio potere d’acquisto e un livello di vita più accettabile.

Ma per capire il meccanismo dobbiamo conoscere le modalità basilari del trasferimento d’impresa. Nei paesi in via di sviluppo, dove i salari sono bassi, le multinazionali non decidono investimenti diretti, scelgono piuttosto di appaltare i lavoro a ditte locali. La ditta appaltatrice stabilisce la quantità e la qualità delle merci, i tempi di consegna e la durata dell’accordo, che alla scadenza può venire rinnovato. In questo modo viene declinata ufficialmente ogni responsabilità sulle condizioni di lavoro della dita incaricata. E’ una falsa innocenza perché i contratti di appalto stabiliscono prezzi talmente bassi che non è possibile per nessuno garantire ai lavoratori condizioni accettabili.
La campagna Nike e Reebok

La nostra prima campagna sulla dignità del lavoro ha avuto per oggetto le industrie Nike e Reebok, verso le quali esisteva già una campagna internazionale. Non è un caso se i profitti della Nike si sono quintuplicati nel giro di pochissimi anni. Ciò è stato reso possibile proprio dal trasferimento della produzione nei paesi in via di sviluppo e dallo sfruttamento del lavoro minorile. Negli Usa tutto questo è talmente noto che girano in televisione degli sketches satirici sulla Nike proprio come in Italia si attaccano certi uomini politici. La polemica è stata ulteriormente sollevata nei confronti di Michael Jordan, l’idolo di tutti i ragazzini, che si è prestato per pubblicizzare le scarpe Nike.

In breve, la ditta ha subito attacchi quasi quotidiani da parte dei consumatori finchè si è trovata costretta a modificare il suo comportamento. In questo caso la campagna non si è basata sul boicottaggio ma sulle pressioni dei mass – media, quindi sulla possibilità di influenzare l’opinione pubblica. Tuttavia una forma indiretta di boicottaggio può essersi verificata, perché è pensabile che chi si è impegnato a denunciare i soprusi operati dalla Nike si sarà anche rifiutato di acquistarne i prodotti.
Chicco, dove c’è un bambino…

La seconda campagna è stata quella verso l’Alzana. Il nome può non dire molto ma diventa subito più identificabile se parliamo della Chicco. L’alzana è una ditta italiana ma ha un mercato multinazionale che comprende gli Stati Uniti e i paesi asiatici, e anch’essa utilizza manodopera straniera a basso costo.

Alcuni anni fa, in una fabbrica cinese appaltata che impiegava soprattutto lavoro minorile, si sviluppò un incendio gravissimo. Le ragazzine tentarono disperatamente di fuggire, ma inutilmente. Morirono quasi tutte perché erano state chiuse a chiave dall’esterno. Ci furono 87 morti, decine e decine di ustionati gravi.

Al fatto seguirono le indagini: i pompieri furono accusati per essere intervenuti troppo tardi, il capo della ditta di Hong Kong venne condannato ad un anno di prigione, che non scontò adducendo motivi di salute, più di una sanzione di 6 o 7 milioni di danni che non sborsò perché, disse, la ditta era andata distrutta e non era in grado di pagare. Intervenne il governo cinese con un piccolo rimborso alle famiglie sufficiente per coprire le spese dei funerali. I gruppi sindacali di Hong Kong chiesero aiuto al sindacato italiano, l’Alzana si disse disponibile a venire incontro alle famiglie delle vittime ponendo condizioni che non si verificarono mai e, in definitiva, nessuno pagò.

Nel ’96 partecipammo ad un convegno sull’industria del giocattolo e decidemmo di riaprire la questione. Chiedemmo un appuntamento al consiglio di fabbrica, che ci accolse con un’accoglienza tiepida. Dopo quasi un anno di silenzio da parte del sindacato capimmo che dovevamo agire da soli e organizzammo una nostra campagna basata sull’informazione e sul movimento d’opinione. Come primo passo, secondo nostra consuetudine, informammo l’impresa che stavamo iniziando una campagna nei suoi confronti. Non avemmo risposta, neppure da parte del sindacato. Anche chi inviava le cartoline di denuncia che avevamo stampato in migliaia di copie – avevamo strutturato un sistema per cui giungevano contemporaneamente all’impresa, al sindacato, all’Unione Industriali e al Centro Nuovo Modello di Sviluppo – anch’essi non ricevettero mai nessun riscontro.

La campagna si risolse positivamente grazie ad una coincidenza fortunata, un convegno a Milano del PIME, una grossa assemblea dove erano presenti ditte come Nike, Timberland, Nestlè, c’era il giornalista Gad Lerner che presentava, c’erano i sindacati e anche noi del Centro, tra i rappresentanti della società civile. Nello stesso giorno si teneva la marcia per la pace Perugia-Assisi. L’apertura, affidata a Padre Zanotelli, era ripresa in diretta dalle tv nazionali. Noi avevamo diffuso migliaia di cappellini, ben visibili nelle riprese di tv e giornali, con una scritta che chiedeva un’economia giusta. Padre Zanotelli, che ero riuscito a contattare, parlò della questione e tutta la stampa fece da cassa di risonanza.

Proprio quel giorno, durante il convegno del PIME, l’Alzana rese pubblica la decisione di istituire un fondo di 300 milioni per le famiglie delle vittime, e dopo 6 mesi ci furono i pagamenti. Ancora una volta abbiamo visto il movimento d’opinione riuscire a modificare l’ordine delle cose.
La campagna Chiquita

Attualmente stiamo seguendo un’iniziativa del sindacato centro-americano contro la ditta Chuiquita. Nel sud del mondo troviamo una miriade di sindacati aziendali frammentati, tra loro autonomi, con scarsa forza contrattuale; qui, invece, per una serie di condizioni, è stata possibile la nascita di un coordinamento regionale nel settore dei lavoratori delle banane.

In Centro-America ci sono delle multinazionali che possiedono la terra e seguono tutta la produzione, dalla coltivazione alla esportazione della frutta. Anche qui ci sono stati tentativi di appaltare, ma è impossibile perché si tratta di un prodotto fresco che deve essere trattato immediatamente. Il problema su cui insistiamo, in Europa e negli Usa contemporaneamente, ,è l’impiego di sostanze chimiche altamente tossiche, proibite in Europa e negli Stati Uniti, che vengono utilizzate nelle piantagioni di banane provocando la sterilità nei contadini che vi lavorano.

E’ stata avviata una campagna basata sull’informazione finchè, lo scorso anno, abbiamo proposto alla ditta Chiquita un accordo sui diritti dei lavoratori. Lo stesso abbiamo fatto nei confronti della PAM, la catena di ipermercati e discount alimentari che più delle altre commercia i prodotti Chiquita. Fino a pochi giorni fa non abbiamo ottenuto risposta. Proprio ieri l’altro, per la prima volta, la Chiquita ci ha risposto in italiano per una ripresa delle trattative, e dovremmo incontrarci in luglio.
I limiti che abbiamo

In questo periodo stiamo riflettendo sui limiti insiti in questo tipo di lavoro. Non possiamo realisticamente pensare di seguire una per una le migliaia di imprese che operano il trasferimento della produzione. Possiamo lavorare sulle aziende più grosse, certo sperando che questo abbia una ricaduta positiva sulle più piccole, ma è davvero impossibile un controllo capillare anche perché ogni campagna costa anni di lavoro, e spesso le informazioni non sono disponibili ufficialmente, occorrono contatti ‘clandestini’ all’interno delle fabbriche, un lavoro lento e paziente che ci porta ad approfondire alcune situazioni e a trascurarne moltissime altre.

Stiamo cercando un modo per obbligare tutte le aziende a comportarsi nel rispetto dei diritti dell’uomo e allora, ci siamo detti, l’unico mezzo valido è una legge che imponga norme di giustizia per tutte le imprese. Un buon tentativo in questa direzione è stato fatto alcuni anni fa da un parlamentare di Rifondazione Comunista, ma la sua proposta di legge era inapplicabile perché prevedeva una struttura pubblica capace di controllare le imprese, e attualmente una struttura di questo tipo non esisto, e perché rischiava di creare discriminazione tra prodotti diversi, cosa che è illegale secondo gli accordi europei.

Le proposte:

una legge per un’economia trasparente

Le imprese che adottano il trasferimento di produzione si sentono in una botte di ferro perché sanno che non saranno pizzicate. Nessuno sa dove le imprese trasferiscono la produzione e a quali condizioni la gente lavora. Attualmente alcune imprese già inviano queste comunicazioni al sindacato, che però è spesso connivente.

Intendiamo chiedere ad ogni azienda un rapporto annuale, allegato al bilancio, che renda pubbliche alcune informazioni. Vogliamo che le imprese ci dicano dove trasferiscono il lavoro, quali garanzie ci sono in quel paese per il rispetto dei diritti, quali condizioni di lavoro loro hanno appurato e quali responsabilità si prendono dal punto di vista sociale ed ambientale. Parliamo di un rapporto allegato al bilancio perché in questo modo sarà sottoscritto da tutti i responsabili dello staff dell’impresa che si assumono in solido la responsabilità di quanto dichiarano, ed è improbabile che tutti siano disponibili ad evadere la normativa.

Chiediamo inoltre che venga istituita un’autorità garante della veridicità delle informazioni. Le ditte che supereranno i controllo dimostrando di rispettare i diritti dei lavoratori potranno vantare un marchio di qualità riconoscibile in modo da orientare gli acquisti e offrire una possibilità in più al consumatore. Fino ad oggi facciamo la spesa confrontando i prodotti per qualità e prezzo, è ora di inserire un ulteriore parametro, l’equità, la storia sociale delle merci che consumiamo.

un processo legislativo partecipato e controllato dal basso

Non siamo gli unici a spingere in questa direzione. E’ in discussione in parlamento una legge, già approvata dal Senato, che introduce un albo delle imprese che non utilizzano lavoro minorile.

L’iscrizione all’albo avverrebbe secondo una procedura di autocertificazione, cioè sarebbe la ditta stessa ad attestare la propria correttezza, e l’iscrizione rimarrebbe valida fino a prova contraria. A noi sembra che su un tema così importante l’autocertificazione non possa essere accettata, e speriamo di riuscire ad ‘arrivare per primi?. Ma in che modo intendiamo intervenire sulla normativa in vigore?

Volevamo promuovere una legge di iniziativa popolare ma ci rendiamo conto di non averne le forze, per questo abbiamo lanciato una petizione popolare sulla quale abbiamo già raccolto 160.000 firme. Il testo di legge, redatto da noi, è stato illustrato ad un senatore dei Verdi, di Como, che lo ha presentato. Nel contempo stiamo cercando un contatto alla Camera dei Deputati anche se, devo ammettere, abbiamo la sensazione di fare un buco nell’acqua.

Alla gente – e questo per noi è un impegno legato al metodo di lavoro – proponiamo di riappropiarci del processo legislativo. Le lobby economiche fanno forti pressioni sul Parlamento, spesso è proprio l’economia ad orientare il potere legislativo. Questa pressione possiamo esercitarla anche noi, dal basso.

Certo, corriamo il rischio che la nostra proposta di legge venga insabbiata. Per questa ragione abbiamo chiesto di venire messi a conoscenza di tutti i passi di avanzamento della legge e ci siamo impegnati a diffondere l’informazione ai 500 gruppi di base che sono stati al nostro fianco nella raccolta di firme per la petizione popolare. Tra questi, sappiamo di potere contare su una 50ina di gruppi disponibili ad intervenire se necessario, per sveltire il procedimento di esame. E probabilmente il primo intervento lo faremo molto presto, per insistere affinchè il testo di legge venga assegnato ad una commissione.

progettare un’economia alternativa

La vera sfida per il nostro tempo – la più difficile, e non so se abbiamo la forza di coglierla – è quella di progettare un’economia alternativa, non più finalizzata all’espansione ma una economia del limite, se davvero vogliamo per il futuro un pianeta vivibile nel quale le ricchezze siano condivise. Insistiamo sulla condivisione in quanto crediamo che il rispetto dell’ambiente non sia un indicatore sufficiente se non si coniuga alla giustizia, perché non sia che le uniche tre gocce di benzina del pianeta vengono usate dai tre uomini più ricchi della terra, ma vengano ripartite tra quanti ne hanno realmente bisogno.

raccogliere le forze

Vorremmo cercare un coordinamento tra le associazioni che adottano il nostro stesso metodo per dare una maggiore visibilità al nostro lavoro.

Padre Zanotelli in un incontro recente riscontrava molte forze positive nel nostro Paese, con l’unico handicap di lavorare disgregate, disperdendo energia. Insieme potremmo fare molto di più. E’ un po’ la storia dei lillipuziani che riuscirono ad immobilizzare Gulliver perché ognuno di loro lo legò per un capello. Anche per noi sarebbe importante dotarci di una forma di coordinamento e di collegamento sia su progetti concreti e condivisi, sia su alcuni servizi che sono di utilità comune. Un esempio potrebbe essere il servizio stampa – quanto è importante riuscire a far conoscere le nostre iniziative! – oppure l’indirizzario, le proposte editoriali, una messa in rete informatica delle iniziative perché abbiano una circolazione più vasta e raccolgano un più ampio contributo di idee.

Sappiamo bene le difficoltà a cui si va incontro quanto si tenta di armonizzare gruppi, associazioni e movimenti molto diversi tra loro, per storia e per vocazione. Le differenze sono una ricchezza e dovrebbero essere mantenute, ma rischiano di produrre divisioni o di andare a detrimento del nostro stesso lavoro.

D’altra parte il concetto di coordinamento evoca immediatamente la gerarchia, un ordine secondo il quale qualcuno dall’alto prende delle decisioni ed altri sono incaricati di attuarle, ed è proprio quello che rifiutiamo. Divisi tra la necessità di contatti più stretti e il rifiuto di una struttura di potere, non abbiamo ancora trovato una buona formula e siamo aperti a tutti i contributi che potranno aiutarci in questa ricerca.

*Testo non rivisto dall’autore

Di Fabio