• 9 Dicembre 2024 18:10

Un ‘libero religioso’ in cammino – contributo di Andrea Billau

Diadmin

Mar 14, 2017
vigna Biani Aldo Capitini

Scrive Aldo Capitini in Religione aperta: «Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma».1 Trovo queste parole un manifesto della presenza del Tragico nel mondo e del suo rifiuto da parte della coscienza umana. Questo rifiuto si è manifestato nella storia umana attraverso molteplici vie che hanno cercato una soluzione per il superamento di questa condizione tragica; io ne riassumerò alcune di cui l’ultima qui descritta mi sembra la più proficua per conseguire l’obiettivo prefisso.

Prima via – la via tradizionale delle religioni monoteiste (eccetto, come vedremo dopo, il cristianesimo paolino, non quello controriformistico), che predica un Dio soccorritore delle vittime della storia, ma che di fatto lascia irrisolto il problema delle sofferenze precedenti al soccorso e di qui il grande dibattito sulla presenza del male che è proprio di quella branca delle teologia che si chiama Teodicea2 e che a mio avviso è assolutamente insoddisfacente.

Seconda via – L’ateismo3 che si differenzia in varie sottovie:

  1. Il materialismo che sposa la famosa espressione di Epicuro: «La morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi» e quindi cancella la dimensione del tragico e e ne fa economia totale, ma questa rimane pur sempre con tutta la sua problematicità; si tratta di un vitalismo superficiale.4

  1. Il nichilismo, che, al contrario fa della morte la vera regola della vita che bisogna assecondare attivamente e a partire dalla famosa frase di Sileno: «La cosa più desiderabile è non esser nati, non essere, essere niente», e che attraversa tutta la storia con la sua carica distruttrice e autodistruttrice.5

  1. L’ateismo che potremmo definire, sensu latu, esistenzialista e che ha varie declinazioni:

a) Quella Heideggeriana che fa del “vivere per la morte” il centro della riflessione del filosofo tedesco e approda a una posizione contemplativa dell’uomo che come massimo della sua azione vede la possibilità dell’espressione artistica attraverso la forma poetica. E anche questa declinazione, a mio avviso, si arrende al Tragico.6

b) Quella Nietzchiana che fa del vitalismo, “al di là del bene e del male” e con il comandamento della “volontà di potenza”, la sua cifra, che però approda nella fase finale della sua riflessione filosofica a un approccio fatalistico al mondo nell’ “eterno ritorno dell’uguale”.7 Ciò fa sì che il suo vitalismo non sia un vitalismo superficiale perché assume in sé il Tragico, ma di fatto non lo supera.

c) Quella Camusiana, che invece si ribella al Tragico, definito il regno dell’Assurdo, criticando le risposte cosiddette libere che si pongono al di sopra della morale, perché per l’autore esse rappresentano invece l’asservimento alla logica assurda del mondo e di fronte alla quale l’unica risposta che è da uomo libero è quella per l’appunto della morale e in particolare della morale dell’amore e della giustizia.8 Qui abbiamo una dimensione potente di azione contro il Tragico, che si potrebbe definire di cristianesimo ateo, ma che, a mio avviso, lascia ancora inevasa la questione della morte come chiusura della vita anche di quella più virtuosa.

Terza via – Le forme teologiche alternative:

  1. Il Panteismo che tenta la risoluzione del problema posto dalla teodicea unificando Dio e il mondo e che vede nelle figure di Spinoza (Deus sive Natura) e di Hegel (tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale) i massimi esponenti di questa corrente filosofico-religiosa. Qui il male è assunto in Dio ma è annullato come Tragico perché fa parte della perfezione intrinseca dell’Uno-Tutto.

  1. Le filosofie religiose orientali e in particolare Buddha, che anch’esse sono per un’unica dimensione del Tutto ma che poi rompono la sua staticità attraverso la dottrina del Karma che differenzia l’Uno-Tutto su due piani, quello dell’apparenza del “Velo di Maya” e quello della profondità del “Nirvana”. Questa dottrina risolve in modo “storico-cosmico” il problema del male ma, a mio avviso, il processo del karma attraverso la reincarnazione viola l’unicità e irripetibilità dell’identità personale umana

  1. Il Cristianesimo che opera una rivoluzione di paradigma nelle religioni monoteiste perché attraverso l’idea della incarnazione di Dio nell’uomo Gesù e la sua crocifissione e la sua resurrezione, il divino soffre la stessa realtà tragica delle sue creature e questo scardina dall’interno la teodicea assumendo il male in Dio, in un processo di sofferenza e liberazione compartecipato assieme alle creature. Questo è davvero un punto di svolta ma che rimane in parte insoddisfacente perché pensato attraverso un evento mitico che lo svuota di universalismo rispetto alle altre religioni e alla razionalità moderna.

  1. Il Panenteismo che riprende il concetto cristiano ma universalizzandolo, Dio è tutto in tutti ed è pienamente storico e vive nella e della realtà, ma di questa è ragion d’essere positiva nell’alfa e nell’omega di ogni vita che è parte dello stesso processo divino, dall’Uno indiviso al Tutto plurale sino alla Comunità Eterna delle Coscienze. Questa via è quella che va dall’emanazionismo di Plotino sino alle teologie demitizzanti cristiane del ’900, di cui troviamo un punto avanzatissimo nella riflessione teologica di Vito Mancuso. Questa è la via, a mio avviso, soddisfacente per affrontare e “risolvere” il Tragico e per illustrarla meglio uso a mò di conclusione ancora le parole di Aldo Capitini da Religione aperta:

Il Dio tradizionale ha mandato non un solo figlio, ma più profeti a testimoniare e spesso, a morire. Quale ragione abbiamo di scegliere uno, e di rifiutare gli altri? Forse perché siamo nati nella civiltà dove uno di questi è chiamato unigenito figlio di Dio? E gli altri? Possiamo allo stadio attuale di unità del mondo e di rapporto tra tutti, far questo? Non c’è anche la difficoltà che nel Figlio di Dio da noi dichiarato unico ed assoluto possano esserci atti, fatti, pensieri, comandi, non accettabili dalla nostra coscienza? Non sarebbe idolatra ammettere che tutto di lui sia divino? È noto che vi sono stati profeti, tra i quali il calabrese Gioacchino da Fiore(prima di san Francesco), che hanno parlato di tre età, del Padre, del Figlio, dello Spirito. Noi possiamo, al momento attuale, interpretare la profezia così. La prima età fu quella dell’Autorità; la seconda quella del Figlio, prese il posto della prima, con lo scopo di avvicinare di più la realtà divina agli uomini, e di superare i duri assolutismi del Dio precedente. Ma l’età religiosa dello Spirito deve liberare dai particolarismi dei figli di Dio assolutizzati in Occidente e in Oriente, ponendo la realtà di tutti come compresenza in cui è Dio e aperta alla realtà liberata.

1 Si tratta della prima parte della considerazione finale del I capitolo del libro di Capitini, capitolo significativamente dal titolo La mia persuasione religiosa. Per il Nostro, si tratta soltanto di una prima ragione per non accettare la realtà così com’è che dalla «coscienza appassionata della propria finitezza» cerca il varco per una trasformazione profonda che sia liberazione di tutti, nessuno escluso, dai limiti della violenza e della morte.

2 Dal dizionario filosofico di Abbagnano, alla voce ‘Teodicea’: «Sul primo problema [quello dell’esistenza del male] la teodicea di Leibniz risponde più specialmente alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697): considerazioni che poi non facevano altro che amplificare quanto avevano già detto gli Epicurei in polemica con gli Stoici: “Dio o non vuole togliere i mali o non può, o può e non vuole, o non vuole ne può o vuole e può. Se vuole e non può è impotente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è invidioso, il che del pari è contrario a Dio. Se non vuole ne può è invidioso e impotente, perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo conviene a Dio, da che cosa deriva l’esistenza dei mali e perché non li toglie?”»

3 Riguardo al tema dell’ateismo è necessario distinguere tra l’ambito religioso e l’ambito più propriamente filosofico. Muovendo, infatti, dalla propria peculiare rappresentazione di Dio, ciascuna religione positiva ha sempre condannato come atee tutte le rappresentazioni non conformi alla propria. Nella storia della filosofia una distinzione può essere posta fra ateismo di tipo dogmatico, che perviene cioè alla negazione vera e propria dell’esistenza di Dio, di tipo scettico o agnostico che afferma il disconoscimento dell’umana capacità di scoprire e dimostrare l’esistenza di Dio e di tipo critico, ampio ‘cappello’ sotto il quale mettere le diverse confutazioni delle varie prove avanzate per dimostrarne l’esistenza.

4 La citazione è tratta dall’Epistola a Meneceo, 124-127. La dottrina di Epicuro sulla morte è semplice ed immediata. Il problema non è il fatto del morire, ma la paura della morte, quel sentimento che se diventa turbamento ci impedisce di raggiungere la serenità interiore, la pace. Come combattere questa paura atavica? La soluzione di Epicuro, come traspare da questa lettera, è appunto questa: “Quando ci siamo noi, non c’è la morte”. E viceversa.

5 Al re Mida che gli chiede quale sia la cosa più desiderabile per l’individuo umano, Sileno, il mentore di Dioniso, risponde perentoriamente: «Non essere nato, non essere, essere niente». Non venire mai alla luce o, se si ha avuto la sventura di nascere, tornare nel nulla quanto prima possibile. Versioni diverse della sentenza, riferite ad altri personaggi, riecheggiano in una pluralità di fonti, da Erodoto ai grandi tragici, da Aristotele a Plutarco, testimoniando la presenza di una vera e propria tradizione di pensiero. Per chi volesse approfondire rimando all’approfondita ricostruzione presente in: Umberto Curi, Meglio non essere mai nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

6 Ciò che caratterizza l’essere-per-la-morte autentico progettato sul piano esistenziale viene da Heidegger riassunto così in Essere e Tempo, § 58: «l’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo all’aver cura che si prende cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere sé stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Sì, effettiva, certa di sé stessa e piena di angoscia: la libertà per la morte». In altre parole, se la morte diviene la sola ed autentica possibilità, questa consapevolezza annichila ogni possibilità dell’esistenza in generale ma, paradossalmente, apre la possibilità di una libertà appassionata dell’agire umano, non pù vincolato dall’illusione di doversi affermare vitalisticamente in ogni momento.

7 Il significato dell’eterno ritorno dell’eguale in Nietzsche può essere così parzialmente riassunto: se il divenire è la forma autentica della realtà, la volontà di potenza non può che rifiutare il tempo lineare come impossibilità di modificare il passato. Ed è per questo che l’amor fati diventa la forma estrema di fedeltà al divenire. Per approfondire cfr.: Emanuele Severino, Oltre il rimedio: Nietzsche, in La filosofia contemporanea, Milano, BUR, 1996, pp. 166-169.

8 Cfr. Albert Camus, Ribellione e morte. Saggi politici, Milano, Bompiani., 1961.

Di admin

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.