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Fra Riace e Marzabotto, memoria e politica oltre la retorica

DiLorenzo Guadagnucci

Ott 18, 2018

Il vignettista Vauro ha scritto una lettera al sindaco e ai cittadini di Marzabotto per invitarli a gemellarsi con il Comune di Riace: chiede un gesto che “riconfermi i valori della solidarietà, della civiltà e della Resistenza”. L’intento è giusto e comprensibile, visto che il Comune di Riace,  noto universalmente per i suoi progetti di rilancio sociale e demografico attraverso l’accoglienza di stranieri immigrati, è finito nel mirino del ministero dell’interno e della magistratura e quindi a rischio di sopravvivenza. Il cosiddetto modello Riace è un simbolo che potrebbe ispirare un nuovo corso politico (come finora però non è stato)  e la sua demolizione sarebbe una iattura per chiunque aspiri a cambiare l’ordine delle cose. Quindi Vauro – nell’intento di salvare Riace – chiama a raccolta un altro luogo simbolo, appunto Marzabotto, ma forse non coglie pienamente nel segno. Il disegnatore spiega infatti che la cittadina emiliana è “il simbolo vivo della disumanità della rappresaglia” e la sospensione dei finanziamenti destinati a Riace, decisa dal ministero dell’Interno, sarebbe anch’essa una rappresaglia. Ecco il legame, secondo Vauro, fra Riace e Marzabotto.

A essere pignoli, anche ipotizzando che il passo del ministero sia davvero una rappresaglia e non un atto maturato nel tempo,  si potrebbe obiettare che gli storici ormai considerano la strage di Marzabotto-Montesole come un eccidio “eliminazionista” e non come la reazione a un attentato dei partigiani,  ma la domanda è un’altra: è davvero quello indicato da Vauro il nesso che può collegare la vicenda di Mimmo Lucano e della gente di Riace con il lascito morale della Resistenza e con la testimonianza di chi perse la vita nelle stragi? Forse c’è qualcos’altro di più pregnante. 

Fra il ’43 e il ’45 l’Italia ha vissuto un’esperienza unica, straordinaria: nel collasso di un regime autoritario ventennale, nel mezzo di una guerra e con gran parte del paese sotto occupazione, molte  migliaia di persone  dissero no e si impegnarono – chi con le armi, chi senza – per salvare la dignità della nazione e imboccare la via di una liberazione che fosse politica e morale oltre che militare. Ecco il lascito della Resistenza e il possibile legame con Riace, piccola ma preziosa utopia concreta in piena dissidenza con l’ordine politico delle cose. Per questa ragione – la tangibile dimostrazione che un altro modo e un altro mondo sono possibili –  Mimmo Lucano e la gente di Riace hanno suscitato tanta insofferenza nel mondo politico istituzionale, con poche distinzioni fra centrosinistra, centrodestra e pentaleghisti, tutti impegnati in politiche sull’immigrazione di segno opposto, imperniate sul controllo delle frontiere, la riduzione dei flussi, la retorica dell’emergenza e dell’allarme sicurezza. Oggi stare con Lucano e con Riace è un modo d’essere resistenti, di dire no a un potere che opprime e che sbaglia.

C’è anche di più. A Montesole, come a Sant’Anna di Stazzema, a Vinca, a Civitella e nei molti altri luoghi che compongono la dolorosa geografia delle stragi, furono uccise migliaia di persone con metodi sbrigativi e una certa noncuranza, in modi che hanno offeso in modo indelebile la coscienza di chi è sopravvissuto e di chi è venuto dopo. E’ il motivo per cui quei luoghi continuano a essere frequentati; sono luoghi speciali, mettono a contatto con l’orrore che fu e spingono a riflettere, a meditare sul presente, a orientare pensieri e comportamenti. Le stragi furono possibili – e furono perpetrate in quel modo, con ferocia e indifferenza – per una ragione che va oltre il concetto di rappresaglia e la stessa natura del regime nazista che stava dietro le truppe di occupazione. Migliaia di persone furono trucidate in quel modo perché agli occhi dei militari tedeschi erano non-persone, per  dirla con Alessandro Dal Lago, o vite di scarto, se preferiamo il lessico di Zygmunt Bauman. La de-umanizzazione è all’origine di quei massacri e averlo compreso permette di capire meglio il presente. Consente ad esempio di cogliere a pieno il senso del contrasto all’immigrazione praticato nel mar Mediterraneo, trasformato in un cimitero che custodisce e occulta i corpi di non persone, quanto resta di innumerevoli  vite di scarto. E’ la de-umanizzazione che consente di organizzare con leggerezza e godendo del consenso popolare blocchi navali di fatto, di stringere patti con opachi regimi e gruppi paramilitari per impedire le partenze dalla Libia, di valutare la bontà delle proprie scelte attraverso la contabilità degli sbarchi, nella totale indifferenza per la sorte di chi non può partire o non riesce ad arrivare.   

Ecco perché guardare alla Resistenza  e alla storia popolare d’Italia – cioè la storia fra il ’43 e il ’45 vista dal basso, dal punto di vista della gente comune –  è un forte motivo di ispirazione per chi voglia essere cittadino consapevole e attivo. I migliori interpreti dei valori scaturiti dall’esperienza vissuta in quegli anni sono oggi le persone che si battono contro i discorsi d’odio e per il diritto di spostarsi da un paese all’altro; sono i “passeurs solidali” che aiutano a varcare i confini con la Francia; sono i costruttori di ponti e di opportunità di vita come gli attivisti e la gente di Riace e di tanti altri luoghi in cui si vive fra diversi senza odio, con spirito di fratellanza.  

Ne deriva un insegnamento importante riguardo alle cosiddette politiche della memoria. L’antifascismo è in crisi da molto tempo e sta correndo il rischio di diventare un rito –  uno sterile omaggio alla memoria – nella sua parte più istituzionale, e un mero a corpo a corpo – nella sua parte più muscolare e militante – con il neofascismo organizzato.  La memoria della “guerra civile”, come la chiamò Claudio Pavone, può essere molto di più: un’ispirazione per chi lotta in prima linea contro i seminatori d’odio che vorrebbero dividere il mondo fra un artificiale “noi” e  “vite di scarto” invece molto concrete; un pungolo ad agire – qui e ora- per le persone di buona volontà, persuase che dalla Resistenza armata, dalla resilienza popolare, dalla testimonianza dei trucidati arrivi un insegnamento che spinge nella direzione dell’uguaglianza e del rifiuto della violenza.

Perciò, riprendendo Vauro, Marzabotto si gemelli con Riace, e magari facciano lo stesso gli altri Comuni colpiti dalla stragi del ’43-’45, ma che lo facciano per un insieme di buone ragioni e non solo perché testimoni dell’orrore della rappresaglia. E soprattutto: si tolga finalmente all’eredità della Resistenza e  alla memoria delle stragi quella patina di retorica e di compiacimento che ne sterilizza il potenziale politico e morale. Il pensiero di quei tempi, di quei fatti, di quelle tragedie, di quei no, di quelle lotte va calato in questi tempi, in questi no, in queste lotte. 

A Riace, chiusa l’esperienza Sprar, si ripartirà dal basso, costruendo ponti e convivenza col sostegno della gente di tutt’Italia e non solo. Altrove si potrà fare qualcosa di simile, attraverso la disobbedienza civile e gli altri strumenti dell’azione popolare; sarò giusto farlo rivendicando finalmente l’eredità morale e politica che ci deriva da chi fu protagonista e testimone di una stagione cruciale per la storia d’Italia, quale fu l’epilogo del fascismo e della seconda guerra mondiale. Ecco la nuova politica della memoria. 

Di Lorenzo Guadagnucci

Faccio il giornalista, sono fra i promotori del Comitato Verità e Giustizia per Genova e del gruppo Giornalisti contro il razzismo. Ho scritto dei libri sul commercio equo e solidale, le forme di altreconomia, sul G8 di Genova del 2001, sull’autoritarismo che monta, sul razzismo a mezzo stampa e i modi per contrastarlo, sulla questione animale come questione di giustizia, sulla strage di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944). Cerco d’essere amico della nonviolenza e dell’antispecismo. Sono su Twitter @lguadagnucci, non su Facebook.

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