• 24 Aprile 2024 13:56

Frontiere

DiDaniele Lugli

Feb 27, 2023

Libri recenti e incontri ripropongono, a me stanzialissimo, i migranti con i loro complessi percorsi di vita, intrecciati con la vita di tutti: Pescatori di uomini di Mattia Ferrari, con Nello Scavo, e Il gioco sporco di Valerio Nicolosi. Con Ferrari c’è stato il piacere di un incontro dal vivo, molto partecipato. Il libro di Nicolosi l’ho presentato, con l’autore, a Ferrara il 22 febbraio.

Mi viene da citare un’altra coppia, non solo di libri, Noi rifugiati di Hannah Arendt e L’emigrante di Günther Anders. Il libro della Arendt, ripubblicato lo scorso anno, traduce We refugees, un saggio del ’43. È scritto due anni dopo il suo travagliato arrivo negli Stati Uniti, favorito anche dalla presenza sul suolo americano di Günther Anders, già suo sposo dal quale si è separata nel 1937. Questo non impedisce l’apprezzamento di Anders per l’articolo e la loro collaborazione negli anni successivi. La riflessione, sugli stessi temi, di Anders è affidata a un articolo su Merkur nel 1962. L’emigrante ne è la prima traduzione in Italia.

Sono due straordinari pensatori. Le cose che scrivono continuano a essere utili. Sono passati 80’anni dallo scritto di Arendt e 60 da quello di Anders. La condizione di perseguitati, ebrei in cerca d’asilo, è sofferta e indagata in profondità: accoglienza difficile, vite spezzate da ricostruire in ogni aspetto: la lingua, la casa, il lavoro, le relazioni.

La precarietà, dopo anni superata con l’ottenimento della cittadinanza americana, fa scrivere dalla Arendt ad Anders “Ho un passaporto (il libro più bello che conosca, un passaporto)”. È il passaporto che Nicolosi considera come un privilegio, nel condividere pericolose rotte degli emigranti verso l’Europa, nel raccontare le loro storie, dove si ritrova lo stesso sradicamento e la stessa speranza che Arendt e Anders ci restituiscono magistralmente. Perché è questo che Nicolosi fa da anni: presidiare le frontiere della sempre più munita fortezza Europa. Questa non può fermare una migrazione che ha ragioni strutturali, ma solo può rendere più difficile la vita, più facile la morte, a chi tenta di attraversare le frontiere, per terra e per mare. Hanno questo senso gli accordi con Tunisia e Libia per fermare gli sbarchi sulle coste europee, e d’Italia in particolare, i compensi alla Turchia, e non solo, per intercettare la rotta terrestre attraverso i Balcani.

Il libro di Nicolosi riassume un intenso periodo di lavoro sulle frontiere lungo la rotta balcanica, dal 2019 al 2022, per terminare con l’Ucraina, in cui è presente sin dall’annuncio dell’invasione. Non potrebbe essere diversamente. Il nome significa sul confine (u krajna) anche se, dal 1911, prossima alla Slovacchia, un’epigrafe in latino, Società Geografica di Vienna, attesta che lì è il centro dell’Europa: quella che va dall’Atlantico agli Urali.

L’autore prende sul serio l’indicazione che Cecilia Strada gli offre, “stare dove bisogna stare”, apprendendo della morte del padre, Gino, mentre lei è nel mare a salvare migranti. Molto del 2018 Nicolosi lo trascorre a bordo delle navi umanitarie e, nella presentazione a Ferrara, è da poco tornato dai luoghi del terremoto tra Turchia e Siria. Ci dice di non aver visto nulla prima d’ora di così sconvolgente e letale. Imparagonabile con ogni distruzione osservata. E ne ha viste.

Sulla rotta marittima mi soffermo un momento. È un’esperienza che ha in comune con il giovane sacerdote Mattia Ferrari, che invece di starsene tranquillo a fare il vice parroco al suo paese, appena ordinato si imbarca con una Ong. Fa parte di un a flotta sospetta e sorvegliata. Comprensibilmente il giudice di Modena archivia la denuncia per ripetute minacce provenienti dalla mafia libica. Sono cose che si dicono sui social e un prete deve attendersele, per non dire che se l’è andate a cercare, se opera in ambiente “ben diverso dagli ambiti tradizionali – riservati e silenziosi – di estrinsecazione del mandato pastorale – e lo faccia propalando le sue opere”. E Mattia Ferrari, con l’aiuto di Nello Scavo e di altri, le propala!

Il contributo delle Ong è importante, a supporto spesso delle operazioni della Guardia costiera italiana, ma è intollerabile. Non perché porti in Italia un numero considerevole di migranti via mare. Sono forse il 13% rispetto al totale, salvato per lo più dalla guardia costiera e dai pescherecci, o giunto con mezzi propri. È inaccettabile il principio. I guardacoste lo fanno perché è un dovere il salvataggio in mare di chi è in pericolo di vita. Così pure i pescherecci, salvo che siano diffidati, pur in acque internazionali, dalle minacciose imbarcazioni della guardia libica. Sono ultimo modello. Le diamo noi. Loro, insomma, debbono farlo, se si trovano in quelle circostanze. Le Ong invece ci vanno apposta e non alla ricerca di un giusto profitto, come tutte le organizzazioni per bene. Li vogliono proprio salvare e sbarcare al primo porto sicuro. Magari se in zona ci sono altri in pericolo di vita salvano anche quelli. Non è più salvataggio, è traghetto! E vogliono sbarcarli nel porto sicuro più vicino. Così vengono mandati per punizione al porto più lontano. Quanto a sbarcare si vedranno tempi e modi, secondo un aureo principio: se non è sempre possibile fare il male accontentiamoci di non fare mai il bene.

Con la sua macchina fotografica e il suo taccuino di appunti Nicolosi incomincia dallo Scudo d’Europa, lodato da Ursula von der Leyen. Ho letto della caccia ai migranti e a chi li aiuta a Lesbo, sul fiume Evron di confine con la Turchia, da entusiasti volontari. Ho letto pure della battaglia di Kastanies, al confine greco turco, segnato da un reticolato con i migranti sospinti violentemente dai reparti turchi e respinti, con altrettanta violenza, da quelli greci. Così, mi sono meno rammaricato che la Presidente della Commissione UE sia stata lasciata in piedi, a suo tempo, dal nostro dittatore di fiducia. Penso a Kastanies, in turco Kestanelik: castagne. Chissà se ci sono ancora tanti castagni, come un tempo a Castagnaro, al confine tra Rovigo e Verona. Ora non ci sono più. Ne hanno piantato qualcuno, per memoria, nel cortile della scuola. Segue l’Hotspot bosniaco, con numerosi e diversi incontri lungo un percorso più volte rivisitato. Molte le storie che Nicolosi accenna, inquadrate in modo essenziale nel contesto di questo uso sporco dei migranti. Sono tutti sporchi gli usi che noi europei ne stiamo facendo sulla pelle loro e a nostro danno, di diritti, condizioni vita, dignità, umanità. Consiglio di prendersi un quarto d’ora per ascoltare una di queste storie narrate dall’autore. Nel percorso troviamo con Reza, protagonista del racconto, i Mohammed e gli Ahmerd, Eyman, Sema, Ashraf, Shah, Jim, Bhim, Hamza, Gulab, Is Sik, Malak, Farsad, Ismail, Kalid, Hazim, Yassir. Rashad, Sana (la bimba che Valerio porta sulle spalle improvvisando un jingle, Europe we are coming) con il padre e il nonno, Mustafa e Havar e il resto della famiglia, quelli senza nome, indicati solo per provenienza, i morti e il vecchio che piange silenzioso.

A vigilare sui confini è Frontex. Costa all’UE 6 milioni nel 2004, divenuti 98 dieci anni dopo e 754 l’anno scorso. La Croazia, particolarmente apprezzata per i respingimenti in Bosnia, riceve per questo 7 milioni all’anno. Qualche eccesso di zelo è valso denuncia per trattamenti inumani. Così l’UE aggiunge 300mila euro, per il rispetto dei diritti.

A Korenica – posso esserci passato vicino 50 anni fa andando ai laghi di Plitvice – c’è un garage con la porta blu dove si convincono, in modi efficaci, i respinti a non riprovare. Ma loro riprovano sempre, per anni e anni. Se riescono a passare la Croazia e la Slovenia arrivano in Italia a Trieste. Qui possono essere non respinti – questo noi non lo facciamo – ma riammessi in Slovenia, di lì in Croazia e risospinti, con le consuete buone maniere, in Bosnia. La situazione è destinata a farsi più difficile. Le barriere esistenti vengono rinforzate e sempre più Stati chiedono fondi per nuovi muri. Già ora sono stati eretti e fortificati 2.048 chilometri, dai 315 esistenti otto anni prima.

Nel calvario dei migranti ci sono altri muri da scavalcare, lasciata Trieste, nella quale chi cura le loro ferite e li rifocilla è denunciato. L’Italia, per la maggioranza, è luogo di transito per andare al nord. Dal Brennero non si passa e allora si tenta con la Francia. Si prova in vario modo con molta difficoltà. C’è un percorso, dal beneaugurante nome sentiero della morte. Valerio Nicolosi, che è giunto fino alla barriera alta tre metri al confine, dice che il nome è meritato. Scrive sconsolato: “Sono stanco di incontrare vivi che sembrano morti, che si muovono come spettri lungo le frontiere del vecchio continente. Sono stanco di essere il solo a ricordare i nomi dei morti. Sono stanco delle frontiere chiuse. E poi è mai possibile che dopo il sentiero della morte ci debba essere Montecarlo?”.

Gli articoli, il 13 e il 14, della dichiarazione dei diritti spettanti a ogni persona, in vigore dal 1948, sono chiari quanto a libertà di movimento e a diritto d’asilo. Sono ribaditi dalla nostra Costituzione, dal diritto internazionale e comunitario. Esternalizziamo le frontiere e alziamo alte mura per far finta di non vedere chi cerca una vita migliore. Le persone decidono da sole dove vogliono vivere è scritto bene in un’edizione dei diritti umani rivolta ai bambini, che lo capiscono e approvano. Difficile convincere i loro genitori e nonni.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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