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La mia nascita è quando dico un tu

DiDaniele Lugli

Feb 11, 2018
dita

Aveva pensato di sparare in tribunale, ma la rabbia contro il presunto assassino si è tramutata in odio verso tutti quanti i suoi “simili”. La rabbia verso uno è divenuta odio verso un collettivo. Come dice Aristotele: “Se crediamo che qualcuno sia un certo tipo di persona, noi lo odiamo”. Forse anche non ce l’ha fatta ad aspettare. Così ha preso auto e pistola e ha tentato una strage degli spacciatori.

Gli spacciatori a Macerata sono neri, dunque i neri di Macerata sono spacciatori. Adesso all’ospedale ce ne sono cinque. Uno appena medicato se ne è andato nonostante il ricovero fosse necessario. È senza permesso. Temeva altre conseguenze oltre alla pallottola che gli hanno estratto dalla gamba. Qualcun altro è stato colpito, forse meno gravemente, e non è andato al pronto soccorso. Dei ricoverati uno è del Ghana, un altro del Gambia, un altro del Mali, gli ultimi due della Nigeria, come Innocent Oseghale, per il vendicatore Luca Traini sicuramente colpevole, nonostante il nome. Ventinovenne, da un paio d’anni in Italia, conosciuto come spacciatore. Ora Innocent è in carcere: l’accusa è di vilipendio e occultamento di cadavere. Anche Luca è in carcere con un’imputazione più grave – strage aggravata da odio razziale – ma è stato benaccolto e ci sta bene. Intanto si cerca di ricostruire i fatti che hanno portato all’uccisione, a partire dall’abbandono, 29 gennaio, della comunità da parte della ragazza, che aveva problemi di dipendenza. Si sarebbe accertato che un po’ di soldi per procurarsi la sostanza li ha avuti da un quarantacinquenne, maceratese doc, col quale si è intrattenuta.

Luca Traini non è pentito di quel che ha fatto. O meglio si scusa per avere ferito una giovane, mentre non voleva sparare alle donne. Forse, nell’eccitazione, gli è parsa più nera che ragazza. Così pure per sbaglio gli sono partiti colpi verso una pasticceria. «Ecché, se va a spara’ così? Poteva piglia’ qualcuno» ha commentato un commerciante. Fortunatamente non ha colpito nessuna persona, ma solo dei giovani neri, tra i 20 e i 30 anni, senza identità, anche se loro credono di chiamarsi Wilson Koff, Omar Fadera, Gideon Azeke, Jennifer Otiotio, Festus Omagbon, Mahamadou Toure. In questo sta l’aspetto più preoccupante, nel non vederli proprio come persone, ciascuna con il suo volto, la sua storia, la sua dignità. Questo preoccupa più degli applausi che delinquenti in carcere e a piede libero rivolgono al coraggioso Traini. Perché è un atteggiamento più diffuso, per non dire generale. È lo stesso che ha reso possibile altri orrori in passato e ne prepara di nuovi.

Per quel che mi riguarda so che questo comportamento non mi è estraneo. Vuoto gli spiccioli, non ne ho mai tanti, al primo questuante così a chi segue rispondo allargando le braccia, spesso senza neppure guardarlo in faccia. Non sono interessato ai servizi di spacciatori e prostitute e così mi pare di non contribuire a una filiera criminale. Qualcosa, senza che mi impegni troppo, cerco perfino di fare per i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Ma i giovani che incrocio quasi non li vedo. Quasi non li guardo. Eppure so che non si fa così. È così che si comincia a considerarli “non uomini”, a vederli parte di masse anonime, di incerta età (giovani comunque), di incerta identità, di incerta e comunque sospetta occupazione, senza permesso di stare dove stanno. Magari ci diciamo che anche per loro, per molti di loro, era meglio se non venivano. Quasi crediamo che davvero sia possibile riportarli indietro tutti. Una minaccia, fortunatamente irrealizzabile, ci appare una promessa alla quale credere. Almeno che non ne arrivino più. E sappiamo che per feroci che siano i prezzolati guardiani libici non possono trattenere chi ha attraversato deserti per giungere al mare. Scapperà o sarà ceduto ai trafficanti per la traversata. E allora bisogna fermarli prima che attraversino il deserto, prima che il loro cammino diventi irreversibile. Vanno bloccati prima del Sahara, nella cintura dei cinque paesi, Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. È un progetto francese al quale partecipiamo anche noi. Più lontano dai nostri occhi avvengono le cose e meglio è.

Un impegno che prendo è di non distogliere lo sguardo, di guardare in faccia le persone che incontro. Tutte. Di rivolgere loro mentalmente un “tu”, come mi aveva insegnato Capitini. Perché se gli altri come persone non ci sono per me, dubito di poter esserci io. Rileggo pochi versi di Colloquio corale, tra quelli che Capitini ha voluto mettere nel suo scritto testamentario Attraverso due terzi del secolo:

La mia nascita è quando dico un tu.

Mentre aspetto, l’animo già tende.

Andando verso un tu, ho pensato gli universi.

Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso alle persone.

La casa è un mezzo ad ospitare…

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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