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Uscire dalle mafie. Una sfida possibile dove tutti devono convertirsi, anche la Chiesa.

DiVincenzo Sanfilippo

Apr 14, 2020

A febbraio scorso, si è svolto a Palermo, presso la Libreria San Paolo, un interessante seminario da titolo “Uscire dalle mafie” a cui hanno preso parte tra gli altri l’Arcivescovo di Palermo, Mons. Corrado Lorefice, Vittorio Teresi, Presidente del Centro Studi Paolo e Rita Borsellino, Mariangela Di Gangi, operatrice del Laboratorio “Zen Insieme” di Palermo, Luigi Pasotti della Rivista Mosaico di Pace e Cosimo Scordato, teologo e rettore della Chiesa San Francesco Saverio all’Albergheria. Con lui riprendiamo oggi i temi del suo intervento.

Padre Cosimo, da tanti anni operi in un quartiere del centro storico di Palermo, dove l’organizzazione mafiosa ha una sua presenza antica, che sopravvive, sembrerebbe, indisturbata, anche ai nostri giorni, come recenti notizie di cronaca testimoniano. Ma possiamo ancora cercare la mafia in questo o in quel quartiere o è tutto un sistema sociale che ormai ha assunto certe caratteristiche preoccupanti?

Siamo dinanzi ad una situazione complicatissima…  Se ci fermiamo a riflettere ci viene un po’ più facile potere delineare le situazioni e maturare una presa di posizione. Io penso che abbiamo a che fare con un complesso sistema politico-mafioso-finanziario e con tutte le sue contiguità. Ci accorgiamo purtroppo che la mafia è stata capace di grande pervasività, a tutti i livelli. Dopo la fase delle stragi la mafia ha capito che doveva mettersi d’accordo e “fare affari”. E gli affari non si possono fare senza collaborazioni politiche, senza connivenze di vario genere, senza l’appoggio finanziario.  Così oggi l’identificazione del fenomeno mafioso ci risulta molto più complicata, anche se i giudici hanno gli elementi per poterlo fare, per poterlo anche circoscrivere…  Quando si leggono alcune statistiche in cui si afferma che le famiglie mafiose sono tante e che di ogni famiglia fanno parte decine o centinaia di persone, a un certo punto si scopre di essere “dentro” questo sistema che ha le caratteristiche di un’anguilla e che non è più circoscrivibile come noi invece vorremmo…

Come si fa dunque a fare anti-mafia in questo contesto, e cosa può fare la Chiesa?

Penso che possiamo affermare di essere “anti-mafiosi”, ovvero contro la mafia, come siamo contro la guerra, contro le ingiustizie. Ma non siamo contro “i mafiosi”, se non in quanto fanno parte di un sistema. Il mafioso lo vorremmo recuperare: è il nostro desiderio.  Le pene dunque vanno pensate come uno strumento per questo recupero. Possiamo fare un’analogia: noi siamo contro l’aborto, ma non contro la persona che ha abortito: quella persona dovremmo aiutarla a recuperarsi, a non restare soltanto ferita da quell’evento. Così è per il mafioso: in quanto parte del sistema mafioso siamo contro di lui.  Ma una persona mafiosa non è tutta è soltanto mafiosa: è anche tante altre cose, che noi vorremmo conoscere e rispettare e su cui vorremmo far leva per poterne prevedere anche possibili percorsi. Però dobbiamo stare attenti in queste possibilità di recupero. Non molto tempo fa una persona di un ambito istituzionale mi disse: «Ma lei non lo sa che il mafioso è irrecuperabile? Un mafioso non cambierà mai!» Forse aveva ragione, ma fino a un certo punto. Io vorrei mettere in conto che anche il mafioso potrebbe, a livello personale, cambiare ed è quello che noi auspichiamo.

Ora vorrei dire, da cristiano: «Che cosa può fare la Chiesa nei confronti della mafia e dei mafiosi?» Qui finalmente abbiamo le idee chiare: c’è la scomunica della mafia e dei mafiosi in quanto vi fanno parte.  Finalmente la Chiesa ha maturato, dopo tanta fatica, una posizione netta e ufficiale: il sistema mafioso è anti evangelico; chi fa parte di un’associazione mafiosa si pone ipso facto al di fuori della Chiesa; non può in nessun modo considerarsi cristiano, anche se avesse ricevuto qualche sacramento; in quanto scomunicato non potrebbe accedere a nessun sacramento.  Tuttavia il discorso non può concludersi con la scomunica… A questo proposito mi viene in mente una citazione di un teologo, Pino Ruggieri che, nell’85, scrisse una frase che più o meno suonava così: «La Chiesa si è resa conto che, per molti aspetti potrebbe somigliare a un sistema mafioso?»  Con certo autoritarismo, con certo legami con la Finanza, con certi rapporti violenti (pensiamo, per esempio, alla comunicazione unidirezionale), la Chiesa potrebbe avere assunto nel tempo atteggiamenti mafiosi, al di là di fatti specifici… Nell’ultimo documento che hanno scritto i vescovi c’è scritto: Convertitevi… Io, per fare un discorso completo e credibile avrei aggiunto: Convertiamoci.…  Perché potrebbe essere facile per tutti quando si è fermi a discutere, schierarsi e già sappiamo da che parte stiamo. Però la conversione è un fatto che implica tutti perché se la mafia, per definizione, è un sistema caratterizzato dall’accumulo del denaro, dal ruolo di potere, dalla violenza, dalla pervasività di tutti gli spazi, per distanziarsi realmente  bisogna combattere il proprio attaccamento ai luoghi di dominio, di potere e bisogna combattere i propri atteggiamenti aggressivi in mille modi… Anche nelle prediche, mille volte, facciamo spaventare le persone con le nostre accuse: tutto è peccato… Così facendo provochiamo un sacco di problemi. Certo tutti questi atteggiamenti, presi singolarmente, non sono mafiosi però potrebbero diventarlo sul piano pratico. Per non dire poi che ci sono alcune premesse culturali sulle quali si è attardato opportunamente Augusto Cavadi nel libro Il Dio dei mafiosi, che si trascinano dal passato e che possono riaffiorare. Dovremmo essere vigilanti per superarli per davvero.

C’è però un tema spinoso su cui ci si è spesso impantanati che è quello del pentimento. Quando possiamo dire che un mafioso è pentito? E quali attenzioni pastorali possiamo immaginare per sostenere chi vuole uscire dai sistemi mafiosi? Tu hai anche alcune esperienze in quest’ambito…

Sì ho qualche esperienza, ma per inquadrare il problema in termini ecclesiali e teologici vorrei fare un riferimento a una vicenda del passato, che può illuminare la nostra riflessione. Siamo nel terzo secolo e la Chiesa si pone un problema delicatissimo: “Tutti i peccati sono perdonabili?” In un primo periodo Tertulliano risponde di sì.  I peccati gravi a cui si faceva riferimento a quel tempo erano l’idolatria, l’omicidio e l’adulterio. Un cristiano non può commettere questi peccati. Fino al IV secolo era impensabile che un cristiano potesse fare cose di questo genere: perché un cristiano a quel tempo aveva già fatto due, tre o quattro anni di cammino di conversione, aveva lasciato alle spalle il suo passato. Una volta che si è incontrato con il Signore risorto non era pensabile che si potesse ricadere nelle situazioni peccaminose del passato. Qui ovviamente si sta parlando di cristiani, lo scandalo vero è il peccato dei cristiani e non dei pagani… come è possibile, si diceva, che un cristiano battezzato, toccato dall’unzione dello Spirito Santo, che si è nutrito del corpo del Signore, uccida o tradisca il corpo del Signore?

Tuttavia, il primo Tertulliano dice: se questo dovesse accadere, la Misericordia di Dio è più grande del peccato dell’uomo, quindi, dopo anni di penitenza si dovrà dare un’altra opportunità. Esistevano quindi un’altra possibilità per il cristiano battezzato che si fosse macchiato di uno dei peccati ci cui abbiamo detto. Poi basta…  Perché altrimenti si diventerebbe “fabbricatori di peccati”…  Come quando si dice ancora oggi: tanto poi c’è una confessione e siamo tutti a posto… Ma queste logiche sono scattate molto dopo… In quel tempo Tertulliano dice, con altri: la chiesa può annunziare ancora una volta il perdono di Dio anche in queste situazioni.

Dopo qualche tempo Tertulliano stesso cambia idea e dice che non è possibile.  Questa nuova posizione viene dichiarata eretica (l’eresia montanista). Il secondo Tertulliano aderisce a questa eresia condannata dalla Chiesa. Tertulliano ha sofferto su queste questioni ed è morto sposando da montanista, rischiando quindi la condanna d’eresia…

Fatta questa premessa, possiamo ritornare alla domanda: cosa può fare oggi la Chiesa? Come opportunamente ci ha ricordato il nostro vescovo è fondamentale che scegliamo di stare dalla parte delle vittime. Mi sono incontrato con Fiammetta Borsellino prima che andasse a incontrare i due fratelli Graviano in carcere… Lì, per esempio, il familiare di una vittima di mafia ha trovato due atteggiamenti diversi nei suoi interlocutori. Fiammetta ha posto la domanda: «Caro signor Graviano, io sono la figlia di Paolo. Voi avete ucciso mio padre. lo sono una figlia a cui voi avete ucciso il padre… Si metta lei nei miei panni: Se suo figlio dicesse: avete ucciso mio padre, come dovrebbe rispondere il suo interlocutore?» A questa domanda Fiammetta ha avuto due risposte dai due fratelli: una più partecipe nei suoi confronti, l’altra refrattaria. È come se uno dei due interlocutori non volesse seguirla su questo discorso…

Quindi il pentimento, per essere tale, dovrebbe essere accompagnato ad una richiesta di perdono alle vittime o comunque dare segnali di un desiderio vero di riconciliazione…

Sì. È importante assumere il punto di vista della vittima. E quando parliamo di vittime dobbiamo riferirci sia alle persone singole, sia alla comunità. Non è forse vittima quella parte della società che vorrebbe portare avanti progetti di democrazia, partecipazione, di sviluppo, di cambiamento e di abbellimento dei luoghi della città? In un certo senso tutti siamo potenzialmente vittime quando qualcosa si abbatte contro i nostri progetti di vita, di sviluppo di incremento. Questo punto di vista è importante; non ci poniamo in una soluzione anti montanista a basso costo, perché anche la prima posizione di Tertulliano, che prevedeva la riconciliazione, la vedeva come traguardo possibile ma laborioso, impegnativo… Ci volevano anni di penitenza per poi presentarsi dinanzi alla Chiesa e finalmente, la notte di Pasqua, dopo avere chiesto perdono a tutta la comunità, si poteva essere riammessi con questa seconda opportunità, dopo quella battesimale.

Hai potuto fare esperienza di questi principi che hai enunciato?

Posso parlare di tre casi di mafiosi “amici miei”.  Uso il termine amico con tutte le virgolette necessarie.  Il primo si chiama Settimo ed ha oggi più di 80 anni. È stato due volte in carcere. Ha subito la prima condanna per mafia, è uscito e ha fatto in seguito ancora altri anni di carcere. Quando uscì per la seconda volta dal carcere chiese di poter essere assegnato dai servizi sociali in un contesto sociale di recupero. Venne da me e accettai la sua proposta. Confesso di avere agito con ingenuità. Lui mi aveva fatto capire che ormai a 75-76 anni di età tutto era ormai alle sue spalle … così gli consentimmo di frequentare il Centro Sociale di San Giovanni Decollato, che lavora con bambini del quartiere dell’Albergheria a Palermo, nella zona di Via Castro. Ho pensato che lavorare con i bambini, per un ex mafioso, fosse una buona opportunità… con i bambini ci si deve abbassare al loro livello ed essi mettono a dura prova la pazienza… e così più volte mi capitò di incontrarlo mentre tornava dal Centro dove andava quasi regolarmente.  Lui mi diceva: «Ma comu si fa a commattiri cu sti picciriddi!» [Ma come si fa a combattere con questi bambini?] ed io rispondevo: «Settimo, questo è il nostro lavoro…», ma questi commenti ci facevano convincere che qualcosa aveva funzionato… Passò il periodo di frequentazione del Centro e Settimo continuò a frequentare anche la Chiesa regolarmente…  Non ricordo se facesse la comunione oppure no… Insomma mi ero convinto che potevo considerarlo un ex-mafioso. Anche se non frequentava più il Centro di San Giovanni Decollato veniva però di tanto in tanto per qualche festicciola.  Ricordo che Settimo compì 80 anni in quel periodo. La domenica festeggiò con tutti i suoi familiari e il giorno dopo lo vidi e gli feci gli auguri. Il giorno dopo leggo dai giornali che Settimo era stato arrestato. Addirittura i giornali dicono che Settimo aveva preso il posto di Totò Riina!

La domenica successiva denunciai questa situazione e scrissi una lettera alla comunità in cui ribadii che chi è mafioso non dovrebbe mettere piede in Chiesa … così come non dovrebbe frequentare la Chiesa chi è ladro chi è corrotto, chi ruba allo Stato, ecc. Nessuno si senta consolato dal fatto di frequentare la Chiesa perché frequentando la Chiesa non salva.  No non c’è compatibilità…. Poi con calma decisi di scrivere una lettera a Settimo. Non l’ho ancora spedita e sono ancora indeciso se farlo, dopo aver sentito alcuni familiari.

Il secondo caso di cui posso dire qualcosa è il caso di Salvatore. Quest’uomo ha fatto 25 anni in carcere per mafia. Appena uscito dal carcere anche lui mi raggiunge a San Saverio e mi dice: «Io non voglio avere più a che fare né con la mafia né con i mafiosi. Non voglio neanche avere più a che fare col nostro quartiere!  Voglio che lei mi faccia un favore: vorrei essere aiutato da lei a cercare un lavoretto fuori, perché finché sono qui nel quartiere la gente mi continua a vedere come prima; lei lo sa, la gente mi chiama “Mussolini”, ma io non voglio avere a che fare con nessuno, neppure con quelli che si dovessero rivolgere a me per mettere la pace, io non voglio avere a che fare con nessuno. Però devo farle una confidenza… Io ho preso le distanze dalla mafia, ma lo sa perché? Forse per tutti i consigli che mi ha dato il prete in carcere? No! Per la sofferenza che ho subito in carcere? No! Io le dico che voglio lavorare onestamente per la mia bambina, che è nata mentre ero dentro. Io non la voglio lasciare più, neanche un secondo. Voglio vivere con mia figlia, voglio vivere con lei perché lei che mi ha cambiato radicalmente. Tutti gli altri discorsi non mi sono serviti a niente. Mia figlia sì. E io voglio stare con lei e non voglio avere occasione di nessun genere per perdere l’opportunità di stare con lei, con mia moglie e con mio figlio, quello più grandicello.» Queste parole mi sono servite, perché io stavo cominciando a” fargli la predica”: ma tu Salvatore… hai capito quello che hai fatto? Ecc.  Lui mi avrebbe detto: «Queste cose le so tutte e gliele posso raccontare io a lei, ma la mia vita è ormai questa bambina» Questo lo sto dicendo non per fare da contrappeso alla prima esperienza che ho raccontato… no. Penso che dobbiamo riflettere sul fatto che il pensiero di una bambina e il legame con questa bambina in lui ha provocato quello che vi ho detto.

Il terzo caso è quello di Paolo che è uscito da poco dal carcere. Paolo era un ragazzino del Centro Sociale San Saverio, come tanti altri. Poi a un certo momento viene coinvolto ed entra a far parte dell’associazione mafiosa. Scontata la pena di  7 anni di carcere è venuto a cercarmi per un saluto, ma io non ero a casa,  ancora non ci siamo visti… Abbiamo avuto un’ampia corrispondenza in questi anni, dei quali mi ha parlato positivamente; gli è risultata positiva l’esperienza carceraria: i dialoghi col Cappellano, la ripresa degli studi che gli hanno consentito di acquisire un titolo, l’esperienza di teatro dentro e fuori  il carcere, diverse attività lavorative svolte durante la pena. E io sempre a dirgli: «Paolo, lo sai che la mafia è stata condannata dal Papa!» Gli ho mandato il libro di Padre Puglisi….

Cosa ti ha impedito di inviare quella lettera a Settimo?

Dopo il suo ultimo arresto, e dopo la denuncia pubblica del fatto, ho voluto consultarmi con i familiari e con un suo nipote in particolare, al quale ho fatto leggere la lettera che avevo scritto. Il nipote mi ha detto: «Tutto giusto quello che lei vuole dire a mio zio … sappia che la sua lettera sarà letta da altri e molto probabilmente sarà resa pubblica e sia che mio zio risponda, sia che non risponda, sarà reso pubblico anche il suo atteggiamento.  E quindi, padre Cosimo, quale obiettivo vuole raggiungere?» Io risposi: «Vorrei che tuo zio approfittasse di questa situazione per prendere le distanze ufficialmente rispetto alla mafia e lo dica.» Pensavo infatti al bene che potrebbe fare la dichiarazione pubblica di un ex mafioso che prende le distanze… Nel caso specifico, Settimo potrebbe fare un appello agli altri mafiosi, che addirittura lo avevano scelto come capo… Mi rispose il nipote: «Giusto quello che dice… ma mio zio resterà in carcere, ci resterà per tutta la vita e ci resterà per noi. Lui resterà in carcere, farà il suo cammino con il Cappellano del carcere». Secondo suo nipote egli teme che ci sarebbero delle vendette trasversali; a quel punto che mi sono fermato. Non ho mandato più la lettera, gliele manderò …  Alla fine mi interessa lui, per quel poco di amicizia che abbiamo avuto modo di coltivare. Certo se un capomafia desse segnali di un certo genere sarebbe una cosa molto importante per la nostra società e sono rimasto un po’ disorientato quando il nipote mi ha detto: “mio zio non farà niente, resterà in carcere a marcire…”

Cosa ci suggeriscono queste esperienze? Come potrebbe la Chiesa trasformarle creativamente? 

Penso che dovremmo trovare una possibile prassi che la Chiesa dovrebbe portare avanti in casi come quelli che ho raccontato. Certamente il compito della Chiesa non si può appiattire su quello delle istituzioni pubbliche, anche se per molti aspetti lo può condividere.

La Chiesa si esprime col suo linguaggio, parlando di peccato e di situazione di peccato. Ad una persona che vuole uscire dalla mafia si deve richiedere una conversione veramente profonda. E questa conversione deve essere credibile sia come percorso interiore, sia nelle relazioni sociali. Bisogna realmente mettere fine a tutte quelle contiguità, conoscenze, collaborazioni, rispetto alle quali non si possono non prendere le distanze e – se fosse possibile – si dovrebbe poter esprimere anche con una formula di collaborazione; se fosse possibile, proporzionatamente a quello che è giusto desiderare e auspicare…

Credo che la Chiesa debba lanciare quest’appello alla conversione. Lo hanno già fatto Giovanni Paolo II alla Valle dei templi, papa Francesco a Cassano, la Chiesa siciliana con l’ultima lettera pastorale. Come ho già detto, forse sarebbe stato meglio integrare questa appello anche con quel ci impegniamo anche noi a prendere le distanze da ogni forma, anche lontanissima, di contiguità con espressioni mafiose. La Chiesa dovrebbe, per esempio, essere più povera per essere più credibile; dovrebbe essere più democratica nei suoi processi di ecclesialità e invece tante volte non lo è; dovrebbe diventare spazio di convivenza e di pace autentica tra le persone; testimone non solo di nonviolenza “passiva” ma creativa, affinché possa fare meglio il suo compito. Ma questo appello ai mafiosi penso che vada lanciato. Bisogna dar loro la possibilità di poter essere riconciliati col Signore perché Gesù Cristo è morto mentre noi eravamo peccatori, dice San Paolo e non c’è nessun peccato che non possa essere perdonato, se l’uomo accetta di essere perdonato. Ma il perdono va chiesto per davvero. E questo perdono comporta la conversione, cioè un cambiamento radicale e anche una rinunzia a tutto quello che ciascuno ha accumulato abusivamente. Ci vorrebbero anche gesti di questo genere. Personalmente mi sono confrontato con alcuni amici e ho accettato il consiglio che mi è stato dato. Se dovesse ancora arrivare una richiesta di accoglienza, di rientro nella comunità, io dirò a questa persona che è stata mafiosa: «Sei pronto a dire pubblicamente in assemblea, dinanzi alla Chiesa, che hai preso le distanze dalla associazione mafiosa?» Ognuno ha certamente diritto di accedere ad una confessione che abbia soltanto una dimensione privata, ma fatto ciò è necessario riconciliarsi con tutta la comunità. Vorrei focalizzare questo elemento per non essere un po’ ingenui forse, o troppo remissivi. Penso sia necessario ritornare dinanzi alla comunità. Perché la mafia la offende la ferisce e la compromette. All’ex mafioso dirò che è importante che egli dica pubblicamente che si è pentito per davvero. Questo comporterà anche un cammino penitenziale ragionevole prima che si possa accedere al traguardo finale. Con ciò si ripristina peraltro qualcosa della prassi penitenziale antica. Questa potrebbe essere anche una possibilità da lasciare aperta… come comunità Cristiana dovremmo riflettere con calma e poter confrontarci un po’ più espressamente per evitare eccessi o difetti, in un senso o nell’altro.

 

Di Vincenzo Sanfilippo

Svolgo la professione di sociologo nell'ambito di un Dipartimento di Salute Mentale. La mia formazione spirituale e sociale mi hanno portato in gioventù all'obiezione di coscienza e alla nonviolenza. Sono abbonato ad Azione Nonviolenta dal lontano 1975 e non posso che ringraziare questo strumento che ha contribuito alla mia formazione e che, con altri percorsi variegati (scoutismo, studi universitari a Trento, comunità del dissenso cattolico) mi ha portato alla nonviolenza gandhiana e alla Comunità dell'Arca fondata da Lanza del Vasto di cui faccio parte dal ‘95. Con amici palermitani e catanesi abbiamo costituito una Fraternità di cui potete avere notizia visitando il sito http://www.trefinestre.flazio.com/home  

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