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Cammini nella memoria

DiDaniele Lugli

Ott 20, 2019

Un cammino nella memoria, nella più personale delle memorie, l’ho compiuto anch’io e lo sto continuando.

L’ho iniziato preparandomi al viaggio, con una semplice ricerca sul Campo di Bolzano, un campo di transito verso quelli di lavoro e sterminio, più a nord, in Germania e nei territori occupati. Fu però pure teatro di torture ed assassini, in parte accertati anche in un processo negli anni duemila. Trovo un nome e una testimonianza di Franca Turra, l’organizzatrice principale dei soccorsi ai deportati di passaggio per Bolzano e ai detenuti nel campo. È un nome che mia zia mi ha fatto spesso assieme a quello di Manlio Longon, che ricordava con le lacrime agli occhi.

Non sto a dire quali vicende, familiari e di guerra, mi avessero portato a Bolzano, e poi principalmente ad Appiano, tra la fine del ’42 e l’inizio del ’43, per restarvi almeno fino all’estate autunno del ’44, con la mamma, gli zii e la nonna che vi risiedevano. Luogo e persone a me carissimi. Sono tornato in tutte le vacanze scolastiche (estate, inverno, primavera) e ogni volta che mi è stato possibile.

Era la mia seconda casa, con nonna Olga, zia Esca, zio Berto. Lì ho fatto pure la terza elementare, restando un anno e mezzo di seguito. Gli zii non avevano figli e c’era chi si meravigliava “Hanno un solo figlio, che studia fuori e viene qui per le vacanze”.

Ritrovo ricordi lontani e incerti, ma taluno luminoso. Mia zia mi aveva detto di aver portato da mangiare a dei prigionieri nel Talvera. Almeno così avevo capito. Nella testimonianza di Franca Turra, “Anita”, leggo: “La ferocia della repressione nazista, che come primo atto si concretò in Bolzano l’8 settembre con l’ammassamento dei nostri soldati nel greto del Talvera tenuti a bada dalle raffiche delle mitragliatrici dei carri armati e con la contemporanea azione di terrore svolta per le vie della città nei confronti della popolazione, determinò una prima reazione di ribellione spontanea e un sentimento di assoluta solidarietà nei confronti delle vittima di tale repressione”.

Ancora mi aveva detto di pacchi e corrispondenza recapitati a dei detenuti. Capisco ora che si trattava di persone nel campo di Bolzano. Sempre Franca Turra: “Manlio Longon mi mise in contatto con “Giacomo” – Ferdinando Visco Gilardi – membro del CLN e responsabile del settore assistenza; fu così possibile allacciare, facendo capo a Giacomo, le file sparse di tutto i gruppi già impegnati in questa attività. In stretto collegamento con me operavano le amiche Pia e Donatella Ruggero, Fiorenza e Vito Liberio, Elena Bonvicini, Giuseppe Bombasaro, Armando Condanni, Esca e Umberto Penna, ai quali facevano capo altre persone, e perdonatemi se di molti non ricordo ora i nomi”.

Eccoli i mie zii: Esca e Berto! La zia mi ha detto che avevano scoperto di far parte della stessa rete – e dello stesso partito, quello d’Azione – proprio a casa della Franca, che aveva pure una radio ricetrasmittente. La stretta applicazione delle regole di clandestinità aveva impedito fino ad allora di riconoscersi nel comune impegno. Lo zio lavorava come autista alla Magnesio, fabbrica di interesse bellico, ed era perciò esentato dal proseguire nel servizio militare. Direttore della Magnesio era Manlio Longon, del Partito d’Azione, e capo del CLN provinciale, trucidato dopo lunghe torture, inscenando pure il suo suicidio, il 31 dicembre 1944. Il giorno successivo avrebbe compiuto 34 anni. È ancora Franca a testimoniare.

“Cerco semplicemente, pescando nella mia memoria anche fatti poco rilevanti, di ricostruire l’atmosfera di quel tempo e di raccontarvi come venne organizzata ed attuata l’assistenza ai perseguitati dal nazi-fascismo. Il CLN di Milano, attraverso organizzazioni commerciali di alcune ditte e con trasporti autonomi ed in particolare con gli automezzi degli stabilimenti della zona industriale di Bolzano, ci mandava lettere, viveri e indumenti, oltre che denaro, per l’assistenza agli internati. I viveri e il vestiario venivano in gran parte confezionati da noi in pacchi differenziati l’uno dall’altro per evitare che sorgessero nei nazisti sospetti sull’esistenza di un’organizzazione clandestina, ed erano destinati ai nominativi fornitici dal Comitato interno del campo; ne abbiamo confezionati a centinaia”.

Ecco dunque i pacchi dei quali mia zia parlava. Ecco cosa c’era nei viaggi Bolzano – Milano e ritorno, così frequenti di mio zio, allora e nel dopoguerra. Non c’era solo questo. “Il nostro comitato preparava la tecnica dell’evasione, la comunicava al comitato del campo insieme con gli indirizzi di rifugio degli evasi. Il comitato del campo a sua volta la comunicava a quelli che dovevano evadere con le modalità da seguire. Ciò quando i contatti diretti con l’internato che doveva evadere non erano stati possibili sul posto di lavoro. Il nostro compito si svolgeva praticamente nel prendere contatti e nell’organizzazione della fuga, nel raccogliere gli evasi e nasconderli nelle nostre case per il tempo necessario a rifornirli di documenti falsi e vestiario ed instradarli verso rifugi sicuri in altre regioni. Il loro trasporto avveniva il più delle volte con gli automezzi degli stabilimenti della zona industriale, in particolare Magnesio e Lancia”.

Alla mia domanda “Ma tu zio cosa facevi?” la risposta è stata solo: “Quello che si doveva fare”. Non sapevo quello che, almeno un po’, so ora. Ricordo però l’emozione con la quale la zia mi disse che i Turra sarebbero venuti a trovarci e che avevano una figlia, Gabriella, mia coetanea. Penso avessi allora tra gli otto e i dieci anni. Non più. Ci fu l’incontro. Ricordo una donna che mi parve molto più giovane degli zii (ora so che aveva sei anni di meno) e un uomo che mi parve più vecchio. Avevo tanto atteso Gabriella che ora non sono neppure più certo che ci fosse. Direi di sì e che mi fosse parsa più grande di me. Ci fu l’impegno di rivedersi. Il figlio di “Giacomo”, Leonardo Visco Gilardi, ci ha guidato con pazienza e sapienza nella conoscenza del campo e mi ha dato l’indirizzo di Gabriella. Sono passati circa settant’anni dall’incontro, avvenuto o mancato. Le scriverò confidando in una memoria migliore della mia.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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