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Cosa vuole dire responsabilità?

DiCarlo Bellisai

Apr 17, 2020

L’impatto sociale della pandemia che sta attraversando tutto il mondo rischia di diventare, col trascorrere dei mesi, sempre più pesante. Oltre al problema specificamente sanitario, infatti, incominciano ad affacciarsi questioni economiche, sociali, psicologiche che non potranno essere a lungo messe in secondo piano. Se infatti i lavoratori del settore pubblico ricevono i loro stipendi e quelli del privato possono accedere alla cassa integrazione o ad altri ammortizzatori sociali, i lavoratori del sommerso, del “lavoro nero”, che per varie ragioni affligge molte regioni, soprattutto del Mezzogiorno e parecchi settori produttivi, si ritrovano senza niente. Quindi uno degli effetti collaterali del blocco della circolazione è quello di allargare ulteriormente le differenze sociali, con un contraccolpo drammatico soprattutto per le fasce più povere e prive di protezioni.

D’altra parte anche dietro la massima dello “stare a casa”, propinato come unico rimedio per evitare il diffondersi del virus, soprattutto per mancanza d’alternative sicure, si celano enormi disparità. Ha più fortuna chi risiede in campagna, o in piccoli agglomerati, con case, orti, o giardini. Meno chi abita in città e, anche fra questi, quante differenze fra case idonee e case fatiscenti, abitazioni sufficientemente ampie ed altre malsane e ristrette!

Cosa vogliamo dire allora della scuola? Con la così detta didattica a distanza si sta in realtà verificando una grande sperimentazione di volontariato civile, che coinvolge insegnanti, alunni e famiglie. Ma tutto è stato improvvisato e in parte funziona solo grazie ai supporti elettronici in dotazione a docenti e famiglie. Così anche qui, insidiosa, ritroviamo la differenza di opportunità che, anziché essere colmata, come sasrebbe compito della scuola pubblica, allarga il suo solco: risulta già infatti che gli alunni in difficoltà o poco motivati non partecipano alla didattica a distanza. Un contatto che, con tutti i limiti, potrebbe essere almeno un contributo alla loro stabilità psicologica.

Ho fatto solo tre esempi, ma potrei andare avanti, a dimostrazione che gli effetti sociali perversi della pandemia e del conseguente blocco allargano gli squilibri economico-sociali già esistenti. Ma l’aspetto sociale non è scollegato da quello psicologico.

Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.”

Così scriveva Albert Camus nel romanzo “La peste,” a metà dello scorso secolo. Immagino che ci faccia ancora pensare. Perché di retorica se n’è già sparata tanta, da un lato dando voce a un patriottismo generico e confuso, dall’altro con le continue metafore e metonimie di stampo bellico e militaresco, nelle quali finiscono loro malgrado inclusi medici, infermieri, assistenti e tanti altri che, ci dicono, “sono in trincea”, “fanno la guerra”. Ancor peggio, i morti sono “caduti”, come se un invisibile nemico avesse sparato loro addosso. Confondere le cause naturali con quelle omicide, come appunto sono quelle di guerra, più che una metafora è una manipolazione linguistica, oltre che storica. Il linguaggio non è mai un dettaglio, neppure oggi, in un mondo sempre più propenso all’automazione e al dominio dei numeri e degli algoritmi. Soprattutto perché questo linguaggio militaresco davanti ad una tragedia umana, civile, stona fin troppo, se si pensa che solo sottraendo il 20% delle spese militari a bilancio avremmo centinaia di nuovi reparti di terapia intensiva, migliaia di nuovi posti letto negli ospedali , tanti nuovi assunti nel comparto sanitario.

E’ così che arriviamo dritti alle ricadute psicologiche. Si parla e si ciarla molto nelle chat e nei social, nella realtà virtuale in cui stiamo vivendo, di individuo e collettività, di egoismo e altruismo, di responsabilità individuale e collettiva. Spesso lo si fa a sproposito, il mezzo non aiuta e si finisce col litigare, messaggio contro messaggio. In realtà si tratta di temi filosofici importanti, che hanno unito e che uniscono in qualche modo la riflessione anarchica e quella nonviolenta. Temi al contrario il più delle volte semplificati dal pensiero liberale e anche da quello socialista, con il predominio dell’uno o dell’altro estremo. Oggi più che mai possiamo capire quanto sia importante la responsabilità individuale di ciascuno, al fine di non propagare il contagio. Ma la responsabilità collettiva non la si raggiunge per decreti, nasce come la somma, talvolta la moltiplicazione, della forza di ciascuno. Va sostenuta, piuttosto che ricattata e minacciata.

Nelle situazioni emergenziali, personalmente l’ho vissuta nella tragica alluvione a Capoterra nel 2008, la maggior parte della gente, se non tutta, dopo aver sistemato i propri problemi immediati, è spinta dall’impulso di aiutare l’altro, quello che ha avuto più danni di te: spalare il fango dalle case, accumulare i rifiuti, aiutare i bambini facendo delle attività. Ma davanti ad una minaccia invisibile che consiglia la non vicinanza, quel tipo di solidarietà è oggi impraticabile. Oggi l’unica forma di solidarietà possibile, per quanto frustrante, passa dall’accettazione del distanziamento sociale. Tuttavia sarà molto difficile mantenere questi limiti alla lunga distanza, ovvero fino alla produzione di un vaccino, o alla scoperta di una cura.

Se le situazioni emergenziali si prolungano, come in questo caso, occorre certo sapere in sicurezza gli anziani che sono i più esposti, ma non si dovrebbero ignorare i bambini, soprattutto quelli che vivono nei condomini delle grandi e medie città, che non hanno attorno cortili, perché sono diventati parcheggi pieni di auto. Qui si può vedere il paradosso del sistema di sviluppo capitalistico vorace, che nelle città ha tolto lo spazio ai bambini per darlo alle macchine. Quanti di questi piccoli saranno traumatizzati da questa situazione? Più o meno tutti, ma non tutti allo stesso modo e questo non dipende solo da fattori sociali, o culturali, ma dalla specificità di ciascun essere. E’ vero che i bambini e i ragazzi hanno una forte energia vitale, capace di catapultarli avanti comunque, eppure dovremmo interrogarci, come adulti, in che modo ciò che sta accadendo oggi stia incidendo nel loro sviluppo. Iniziare a parlarne assieme va bene, ma il problema è quanti saranno trascurati. Chi ha una qualche forma di disabilità, chi ha da recuperare nel suo sviluppo, nei suoi apprendimenti, nella crescita rischia di pagare doppiamente.

Non sappiamo quanto durerà questa pandemia e, allo stato delle cose, nemmeno la scienza medica, divisa al suo interno, lo sa. In questi tempi che si allungano resta il dovere di rispettare i diritti di tutti, senza dimenticare gli ultimi, i nascosti, i carcerati, e i più fragili.

Carlo Bellisai

Di Carlo Bellisai

Sono nato e vivo in Sardegna. Mi occupo dai primi anni Novanta di nonviolenza, insegno alla scuola primaria, scrivo poesie e racconti per bambini e raccolgo storie d’anziani. Sono fra i promotori delle attività della Casa per la pace di Ghilarza e del Movimento Nonviolento Sardegna.

1 commento su “Cosa vuole dire responsabilità?”
  1. Carlo carissimo,
    specie in questi tempi come ben constati, iperinformatizzati malgré nous, sono riuscito a scorrere tutte le tue righe senza salti!
    Grazie di questo tuo apporto… Ti sottoscrivo profondamente.
    Marco

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