• 9 Dicembre 2024 19:06

Il furto del tempo e la realtà virtuale

DiCarlo Bellisai

Ott 27, 2020

Uno schiavo non pensava al suo tempo, ma solo a lavorare o, al massimo, al modo di cercare di fuggire.

Ai servi della gleba veniva sottratto quasi per intero il frutto del proprio lavoro, ma non sapevano più dove fuggire.

Ai lavoratori salariati il tempo lavoro viene comprato con l’erogazione dello stipendio, che poi verrà speso all’interno dello stesso circuito economico e tornerà spesso ad arricchire le stesse tasche.

Ai lavoratori nell’epoca delle tecnologie digitali il tempo viene sottratto lentamente, come fossimo attaccati a una flebo che anziché darci ci risucchia. Così se lo devi fare da casa non è molto meglio, perché non hai più un orario e sei sempre coinvolto. Ai ragazzi di oggi spetta ora l’improbo compito di non lasciarsi assuefare a queste vere e proprie droghe tecnologiche. Su questo la società civile e la stampa democratica dovrebbero parlare di più, mentre questo argomento sembra essere diventato un nuovo tabù.

Se abbiamo infatti osservato i comportamenti dei bambini e dei ragazzi, abbiamo almeno constatato l’incremento dell’esposizione alle tecnologie e un aumento dei disturbi a questa connessi. E’ questa l’altra faccia della pandemia da Covid 19: un altro virus si aggira per il mondo ed è quello dell’ipertecnologia e della realtà virtuale. E’ un virus che viaggia di tastiera in tastiera, da social a social e si propaga. Le diagnosi e i ricoveri sono alquanto scarsi, ma i suoi sintomi si vedono alla distanza: diminuzione della voglia di muoversi, diminuzione dei rapporti sociali diretti, convinzione progressiva di poter agire solo in una realtà virtuale e non fisica, per finire con la confusione fra illusione e realtà e, in ultima analisi, in una psicosi collettiva.

Al di là della metafora, non possiamo non constatare che abbiamo ceduto e che cediamo progressivamente parte del nostro tempo a quelle tecnologie digitali che ci consegnano ad una realtà parallela, codificata e capillarmente controllata, o comunque controllabile dai poteri forti. Cediamo pezzi del tempo che avremmo dedicato a qualcosa d’altro, nel bene e nel male, ma comunque a qualcosa di concreto e corporeo. Questo processo di de-corporizzazione non ha nulla o ben poco di mistico, in quanto socialmente imposto, ma soprattutto perché è il corpo che ci avvicina alla natura e noi siamo natura, o almeno lo siamo ancora. Dovremmo arrivare alla consapevolezza che la natura ha bisogno dell’aiuto degli esseri umani, ma che per aiutarla e aiutare al contempo se stessi e le proprie speranze di sopravvivenza come specie, siamo chiamati a smettere di depredarla e vivere in modo più equilibrato e armonioso con le altre specie animali e vegetali e con la materia stessa che compone il suolo, le acque e l’aria: suolo che ci dà sostento, acqua che ci disseta, aria che ci permette di respirare.

Se allora le nuove generazioni vogliono riallacciare questo rapporto di cura reciproca con la natura, sempre più ridotto a un rapporto di predazione, dovranno anche interrogarsi sul proprio rapporto con le tecnologie. Tecnologie digitali che, per esistere, necessitano sempre più di minerali rari che rubiamo alla Terra e che al contempo creano nelle persone un potere illusorio, senza radici, che pretende di creare un mondo virtuale parallelo. Perché quella che viene contrabbandata come maggiore comunicazione, diventa nella realtà meno comunicazione vera, diretta, corporea, in presenza.

Il distanziamento fisico e le misure restrittive conseguenti alla pandemia ci mostrano oggi, come in un gigantesco esperimento sociale, dove rischiamo di arrivare in un prossimo futuro. In assenza di una visione cosciente e radicalmente critica sul sistema economico e politico legato all’espandersi delle tecnologie digitali e alla robotizzazione del vivere, stiamo correndo verso l’ultima grande rapina del nostro tempo: il deserto della comunicazione.

La visione nonviolenta, oggi più che mai, credo che debba assumersi il compito di fare chiarezza su questi argomenti, perché le armi distruttive non sono solo quelle che esplodono straziando i corpi, ma anche quelle invisibili che possono annichilire l’anima.

Carlo Bellisai, ottobre 2020

Di Carlo Bellisai

Sono nato e vivo in Sardegna. Mi occupo dai primi anni Novanta di nonviolenza, insegno alla scuola primaria, scrivo poesie e racconti per bambini e raccolgo storie d’anziani. Sono fra i promotori delle attività della Casa per la pace di Ghilarza e del Movimento Nonviolento Sardegna.

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