Ne parla con chiarezza il XII Atlante dell’infanzia a rischio presentato da Save the Children lo scorso 15 novembre, a cura di Vichi De Marchi, edito da Ponte alle Grazie e consultabile in rete.
A pochi giorni dall’anniversario della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia (20 novembre) l’Atlante ci ricorda che rispetto a 15 anni fa in Italia ci sono 600.000 minorenni in meno ma in compenso quelli che restano se la passano peggio. Si parla infatti di 1 milione di bambini e adolescenti in più che vivono in povertà assoluta. I più sfortunati sono quelli nati da famiglie straniere o miste, per le minori possibilità di accesso a misure di sostegno quali il Reddito di Cittadinanza, che richiede almeno 10 anni di residenza documentata in Italia, o ad altre agevolazioni stabilite localmente. Al nord nel 2020, anno covid per eccellenza, tra le famiglie con bambini di origine straniera, il 30% viveva in povertà assoluta, mentre tra le famiglie di soli italiani l’incidenza era del 7%.
L’Atlante misura gli effetti della pandemia da coronavirus esplosa nel 2020 ed è un dato importante, ma a me non cessa di impressionare quanto il seme delle disparità fosse ben presente ancor prima, in barba all’art. 3 della nostra Costituzione che riconosce a ogni cittadino – e dunque a ogni bambino – pari dignità. Negli anni i governi che si sono susseguiti hanno concordemente risparmiato sulla scuola dal nido ai gradi più alti di istruzione, sulle mense e il tempo pieno e in generale sui servizi per l’infanzia. L’effetto è un abbandono scolastico crescente e una quota sempre maggiore di NEET, giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non sono inseriti in alcun percorso di formazione: il 23,3% in Italia (e il 30% al sud), contro una media europea del 13,7%.
“Nel 2007, la povertà assoluta colpiva 3 bambini su 100”, si legge. “Pochi anni dopo, nel 2016, era quadruplicata e colpiva 12,5 minori su 100, ossia 1 minorenne su 8. Nel primo anno della crisi pandemica, il 2020, sappiamo che i bambini e i ragazzi che vivevano in condizione di povertà, senza avere accesso a beni e servizi essenziali, erano il 13,5% del totale, quindi 1 minorenne su 7. In pratica, dal 2008 in poi, la povertà assoluta nella fascia d’età 0-17 anni è aumentata costantemente”.
Con questo stato di cose chi nasce povero è destinato a rimanervi. Secondo l’Ocse l’Italia è uno dei Paesi industrializzati dove la mobilità sociale è più scarsa, ossia in cui il reddito delle persone è più legato alle condizioni socio-economiche e al reddito dei genitori. Anche prima della crisi, l’Italia, insieme a Regno Unito e Stati Uniti, era al fondo della classifica della mobilità sociale tra i Paesi industrializzati. E la scuola non riesce a invertire il trend, perché probabilmente e in media non è sufficientemente pensata, formata e attrezzata per raggiungere i ragazzi e le ragazze con maggiori difficoltà personali, familiari e sociali. Si accentua così il solco determinato dal fatto che il di più di cultura e istruzione offerto dalle famiglie è inevitabilmente sbilanciato secondo la provenienza socioeconomica.
L’Atlante riporta, tra l’altro, la spesa mensile media delle famiglie più e meno abbienti per alcune
Se lo stesso confronto lo facciamo con la spesa per l’istruzione ci accorgiamo che le famiglie più in difficoltà spendono mensilmente 8-9 Euro in tutto il Paese. Tra le più ricche il corrispettivo 
Ancora da Save the Children. “In Italia solo un bambino su 7 (14,7%) usufruisce di asili nido o servizi integrativi per l’infanzia finanziati dai Comuni. Il dato molto basso cela enormi differenze nell’offerta territoriale, causa ed effetto di grandi diseguaglianze: in Calabria solo il 3,1% dei bambini ha accesso al nido, opportunità offerta invece al 30,4% dei bambini che nascono nella provincia di Trento”.
Investire sull’infanzia non porta voti ma fa crescere il futuro. È una preoccupazione avvertita in modi difforme secondo i casi. “La spesa media pro capite (per ogni bambina o bambino sotto i 3 anni) dei Comuni per la prima infanzia è di 906 euro ciascuno, con divari che vedono arrivare la spesa a Trento a 2.481 euro e scendere in Calabria a 149 euro”.
Quando cerchiamo un esempio di violenza strutturale nel nostro paese, possiamo pensare a questo. E al fatto che una disparità di opportunità tra bambini che crescono insieme – nelle stesse città, o nello stesso paese – non può che produrre ulteriore ingiustizia, infelicità, rabbia sociale, violenza cultura e diretta. Un quadro poco rasserenante, che dovremmo completare spingendo lo sguardo oltre i nostri confini per abbracciare almeno i bambini che con i loro genitori bussano alle porte dell’Europa.
