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Lentius, profundius, suavius: la lezione del coronavirus

DiGabriella Falcicchio

Mar 28, 2020

[Si ringrazia Edizioni La Meridiana per averci permesso di pubblicare questo contributo]

Non ci stancheremo di esprimere il cordoglio per le perdite, né l’incoraggiamento a chi sta cercando di sopravvivere o di permettere la sopravvivenza a chi sta male, nel corpo e nello spirito. Questo rimane un punto fermo e la premessa necessaria a non deformare la lettura. Che però non deve bloccarci rispetto a tutti i germogli che questa primavera preme perché fioriscano.

È fine marzo, i mandorli sono ormai verdi, qui, davanti alla finestra. A breve toccherà ai ciliegi. Mi viene alla memoria da giorni il titolo del libro inchiesta che Rachel Carson pubblicò nel 1962, Primavera silenziosa, comprato mesi fa. Da casa mia, sul margine di un paese dell’hinterland barese, con un affaccio sul campo ben curato che divide le abitazioni dal cimitero, il silenzio è davvero tanto e, anche se mi si è affacciata alla mente la primavera silenziosa di Rachel, la qualità del silenzio è completamente diversa. Per fortuna.

Quando la biologa Carson, con una meticolosità e una passione investigativa che deflagravano nel panorama della fine degli anni ’50, denunciò l’America della chimica e della cosiddetta “rivoluzione verde” fatta coi pesticidi e i grossi macchinari, il silenzio era quello della campagna senza più uccelli, la campagna spogliata del canto e della presenza delle creature che sono indicatori di salute dell’ecosistema. Nessuno tranne lei pensò che quel silenzio era “tombale”, che avesse un nesso con le sostanze spacciate per “miracolose” nell’agricoltura industriale, anzi neppure si pensava che fossero così nocive (beh, le corporation lo sapevano, e lo negavano…). Lei morì dopo appena 2 anni, tra polemiche e insulti sessisti che dureranno decenni, senza sapere che aveva battezzato le lotte ambientaliste.

In questi giorni, anche questa campagna (come il paese, le città) è silenziosa, ma posso ascoltare ben distintamente 4-5 specie di uccelli cantare. Ho visto i consueti piccioni, le tortore e le gazze, i corvi e i passeri, il pettirosso, un uccellino blu e giallo per me ignoto, un cardellino e la sera è chiaro il canto del pascoliano assiuolo (da noi chiamato onomatopeicamente coccovascia).

Sono stati avvistati sciami di api nei quartieri di periferia, ovunque i fiori sono esplosi sul ciglio delle strade e mi appaiono più rigogliosi, felici di non dover respirare lo smog delle auto. Sono comparsi i primi papaveri. Rachel sarebbe contenta di questa strana primavera silenziosa che contemplo.

Un tempo di sospensione destinato a finire

Rifletto su alcuni spunti a partire dall’epoché del coronavirus. Epoché, da cui “epoca”, significa appunto “sospensione” e quale migliore occasione per sperimentare, in un tempo da tanti sentito e definito sospeso, l’epoché come pratica di ascolto e apertura recettiva, di attenzione tersa, in cui le cose si offrono non solo nel loro svolgersi storico ma nella loro “datità”, nell’essenza, diceva Husserl.

A pensarci, gli antichi ne avevano messe di cose dentro le parole che riguardano il tempo. I greci avevano costruito la parola chronos sulla radice sanscrita gher (racchiudere), e i latini sulla radice, presente anche nel greco, tem, da cui temno (taglio), temenos (tempio, recinto sacro) come templum, fino a tempusEccolo qui, il tempo, in cui è radicata l’idea della recinzione, del limite, e fa pensare al tempo come fatto di intervalli, di salti, di stadi. E al tempo, storicamente inteso, come un’entità limitata non solo perché finisce se ci mettiamo dalla parte di chi vive il tempo e poi muore, ma proprio dal punto di vista del tempo stesso: il tempo storico ha un limite, perché si apre all’eterno, a ciò che è fuori dai limiti. Esattamente come il recinto sacro del tempio rappresenta la porta di accesso alla divinità, all’infinito, e pure architettonicamente si eleva verso il cielo con le punte delle piramidi, i gradoni delle ziqqurat, i campanili delle chiese e i minareti.

Finirà questo tempo di sospensione, sì. È nella sapienza delle parole antiche universali, è nella natura delle cose.

Sospesi siamo, ordunque. E allora sarà a mezz’aria che ripasserò questa giornata, per rivederla con occhio aperto. Sorvolo le strade del mio paese piccolo come possono essere piccoli i paesi del mio sud, che meno di diecimila persone non siamo.

In coda dal giornalaio c’è un signore con la mascherina che parla concitato con un conoscente in fila fuori anche lui, a debita distanza. È un 45enne nel pieno delle forze, con la faccia del padre di famiglia, moglie e due figli a carico, lavoratore autonomo ora senza lavoro, e chissà quando riprenderà, se ne andrà tutto l’anno, sta dicendo. E poi fa: “…comunque – traduco il dialetto dalla forte cadenza altamurana – qua dobbiamo imparare ad andare piano, era tutto troppo accelerato, troppo!”

Perché la lentezza, a quanto pare, non è la prerogativa dei vecchi, dei malati, dei disabili e delle donne incinte, ma anche di quel maschio adulto sano in forze e occupato che da troppo tempo presta l’immagine all’idolatria della velocità e della macchina. Ce l’ho qui davanti e proprio lui, lo stereotipo incarnato, dice che vuole andare piano, persino dopo, quando la paura del virus sarà lontana e di certo ci chiederanno di rimetterci in moto in gran fretta per amore del Pil.

Io lo guardo da vari metri, sorrido e annuisco piano, quasi tra me e me, compiaciuta di tanta saggezza. Mi intercetta, i suoi occhi si fissano su di me captando l’assenso, si è allacciato un filo comunicativo sintetico e denso, senza parole. Ci salutiamo con la mano poi, dopo la puntatina in cartoleria. Quando era successo prima davanti a negozi di sentire una cosa del genere? E di incontrarsi con uno sguardo?

Sì, tanta gente ovunque, presa dal proprio andare solipsistico e indaffarato; saluti sì, “uè ciao”, “alla bellezza, uaglio’!”, quelli al sud non mancano mai insieme alle mille esclamazioni, ma dirsi qualcosa di così significativo non me lo ricordo proprio. È accaduto in pochi secondi, con uno sconosciuto. Adesso.

Lentius, profundius, suavius.

Nella nuova vicinanza la lezione del coronavirus

Con le mie ali saltello di qualche centinaio di metri. Sono su una delle tre strade principali, quella che taglia il paese. Passano pochissime macchine, l’orecchio di solito affaticato dal sottofondo chiassoso si sta riposando. E anche l’occhio, che abitualmente deve essere ben desto, perché le macchine vanno troppo veloci, non ce n’è una che si fermi per i pedoni, e poi le bici, i carrozzini in mezzo alla strada ché i marciapiedi sono impraticabili, e i tre ruote traballanti con gli ultracentenari dietro a occhiali spessi 3 centimetri… ora no.

Ora c’è mia madre, sola soletta, che fa il suo giro di spese dopo qualche giorno a casa. Ha problemi al ginocchio da un po’ per l’artrosi, si gira nel suo cappotto rosso appoggiata al carrellino e mi sorride – è così bella mamma nei suoi 72 anni, resterà per sempre la più bella di tutte noi, famiglia di femmine.

“Finalmente le macchine non mi arrivano addosso…”, mi fa e sospira soddisfatta con un’espressione di rivincita. Mi saluta e prosegue col suo passo ora meno militare di un tempo. Da quando una persona anziana non mi esprimeva la gioia di una camminata senza pericolo di essere travolta…

Torno nelle strade del mio quartiere. L’avevo vista già prima, adesso la colgo mentre torna a casa e mi precede sul marciapiede. Lei, commara Felina, 86 anni, inossidabile, col suo bastone, incurvata, tutta di verde e un fazzoletto di quelli che le donne usavano (e usano, ce l’ho pure io!) quando impastavano la farina, il triangolo bianco piegato e messo sulla bocca in guisa di mascherina casereccia.

La chiamo a gran voce, “Feliiiiiiinaaaaaa”, è dura di orecchi. Si gira e le urlo: “Stai bene? Sola stai?”

“Tutto bene”, risponde con la mano libera dal bastone impercettibilmente spostata sul petto, in un movimento microscopico di orgoglio, mentre dal gomito pende una busta di arance. “Viene mio nipote di giorno e ho la badante di notte”. Lei, la “signorina grande” del quartiere, giovanissima si vide recapitare dalla sorella “emigrata” al nord con l’innamorato il fagotto del nipote, di cui da allora sarà madre putativa, madre single senza neppure aver consumato, condannata per questo a essere un cattivo partito. Eppure, per tutta la vita, fiera e allegra della sua indipendenza femminile (ma poi, con le rughe e l’afflosciarsi della maschera, anche infinitamente malinconica per il suo unico grande amore perduto…).

“Ti fanno i servizi in casa?”

“Faccio tutto io”, scandisce le parole in italiano, lentamente, vuoi per l’età, vuoi perché l’italiano è stato sì un orgoglio che la distingueva dalle altre donne, ma è pur sempre una seconda lingua e non cammina sciolto come il dialetto. Sento quel che la mano aveva già dichiarato, la fierezza interiore, dentro un corpo agli sgoccioli dell’esistenza.

Ma si sta avvicinando inesorabile a me e la fermo: “Non ti avvicinare, Felina, che posso darti il virus! Ancora ti ammali! [leggi: potresti ammalarti] Stai lì, parla da lì”. E lei si ferma, subito seria e concentrata; sa di cosa sto parlando, mi saluta con un cenno mentre si incurva di nuovo sul bastone.

“Se ti serve qualcosa, chiama dal balcone!”, la saluto io.

Sì, normalmente ci salutiamo tutte nel quartiere, ci chiediamo “tutt’apposto?” e Dio solo sa se conosciamo pure le storie pruriginose di quella e di quell’altro, e le corna e le commare (che significa anche amanti) e i figli di primo, secondo e terzo letto, e le doppie famiglie e i vizi di bere e menar le mani… nei vicoli di un quartiere popolare di un paesino del sud, le vite degli altri si ascoltano dai suoni dei pranzi e dei cessi di fronte, dalle urla di rabbia delle donne, dai cani che abbaiano dai garage bui. Se pure tutto non si sa, tutto si indovina.

Ma adesso stiamo a chiedere se hai bisogno di qualcosa sul serio e significa proprio che sì, posso andare io al supermercato, te lo porto su il pane, ti spazzo un attimo la cucina mentre tu ti metti tranquilla davanti alla tv col volume a palla (a un metro di distanza, certo).

La lezione del coronavirus per una buona vita

È davvero così brutto tutto questo? Davvero siamo più distanti solo perché non possiamo toccarci? Pensateci un attimo: non ci abbracciamo certo con tutti. Lo facciamo solo con gli intimi (per fortuna!) e gli intimi ce li abbiamo quasi tutti in casa e possiamo abbracciarli di più, stanno sempre qui vicini, adesso (approfitterei anche di questo!).

Con tutti gli altri, questo è il tempo, lo spazio sacro, prezioso perché limitato, in cui possiamo aprirci a un contatto più profondo, più aperto e più concentrato sull’essenziale dell’essere qui, uniti dalla comunanza del destino.

Quello stesso essenziale che finalmente emerge nelle considerazioni sfilacciate della “genteinattesa” davanti al supermercato, poche parole o nessuna, pregnanti anche quando parla uno sguardo. Una pratica che viene dai lontani monaci di tutte le latitudini, quella della riduzione del chiacchiericcio di cui la nostra epoca moltiplica nel mondo parallelo del virtuale troppo vacuo rumore.

Quell’essenziale che ha spazio di espansione e di respiro mentre si assopisce il disordine chiassoso della vita consueta, riportandoci alla domanda delle domande: “Cosa davvero vale, in una buona vita?”

La risposta pulsa come un animale degli abissi in un sottofondo di anelato silenzio, come quell’animale selvatico che al tramestio della megamacchina in moto a ciclo continuo e a tutti i costi (e i costi sono davvero troppo alti) forse sta porgendo l’incanto della sorpresa di una nuova domanda: “Cosa non mi serve, in una buona vita?”

Possono le due domande essere separate? Sono persuasa che no, anzi se le teniamo distinte ci perdiamo. Quello che vale, rischiamo di immaginarcelo come qualcosa (e spesso proprio cose, oggetti) che si accumula sulla linea della normalità, che riempie, che sazia, che decora, che premia… ma adesso la linea della normalità ha ceduto, nemmeno lo shopping possiamo fare, e la seconda domanda ci ricorda che per capire cosa rende buona la vita bisogna prima sottrarre, ripulire, ritrovare lo spazio. Il vacuum da cui siamo orripilati nelle nostre quotidiane abitudini di animali divoratori. Il mu giapponese, “senza”.

Quello che vale lo stiamo sperimentando non solo e banalmente come rischio per la vita e incertezza (checché ne pensiamo in preda ai nostri deliri prometeici di immortalità, morire è quanto di più banale possa accaderci da vivi), ma perché finalmente qualcosa trova lo spazio e il tempo di affiorare. Necessitava di silenzio, di quiete, persino di clausura (come hanno sperimentato per millenni monaci, suore, eremiti, asceti…) e, nella nevrosi collettiva in cui for-sennata-mente anneghiamo, necessitava di costrizione all’immobilità, di insuperabile lentezza. Lentius

Necessitavamo di essere, noi, senza alternativa al cospetto dei fantasmi, di quel baratro interiore che ci fa caracollare sui precipizi, ci mette in faccia l’orrore dentro e fuori di noi, ci tira a calci dentro la danza vertigine del nostro perturbante, che poi è soltanto lo specchio in cui proviamo a guardarci in faccia e spesso ci ritraiamo, vilmente, quando la linea della normalità è intatta. Ma quella è saltata via.

Quasi tutti, quasi ogni volta, ce la facciamo a ritirarci su dal baratro, sopravvissuti alle cicatrici (ogni iniziazione prevede cicatrici e ogni inizio, persino quello di un nuovo giorno, ne ha un carico suo) e allora sì, lo capiamo cosa è la luce del mattino. Profundius

E necessitava – ne sono convinta forse perché, come una volta mi definì una omeopata, ho un temperamento paradosso – delle mascherine, sì, quelle che lo sappiamo ormai che servono poco e per poco, eppure oh, ce le hanno tutti in faccia. Paura? Probabile. Igienismo? Forse. Solo la quaquazza della morte? (Quaquazza è quella paura che fa tremare le gambe e sovverte gli equilibri intestinali: il vernacolo rende, vero?)

Eppure guardateli, si scambiano occhiate fugaci, si salutano con il cenno della testa o con la mano, si dicono le cose senza le parole, con gli occhi. La porta dell’anima.

Quanto avevamo bisogno di questo? Di qualcosa che simbolicamente e non solo ci mettesse una mano sulla bocca e frenasse le ciance, permettendoci di parlarci con gli occhi? Di usare il gesto di una mano per cedere il posto, di rispettare la fila (noi italiani, noi meridionali!), di mettere a tacere l’immenso sciabordio del superfluo per connetterci ai morenti lontani e soli nelle terapie intensive, ai morti senza un saluto, a chi vive senza nessuno, vedovo o single, e non sono pochi, e non sono soltanto anziani, a chi deve sbrigarsela con i disabili senza aiuto esterno, a chi non capisce l’italiano e non ha un permesso di soggiorno e deve nascondersi, a chi non ha nemmeno una casa dove restare. Oggi che la bocca può restare chiusa, coperta da una mascherina che protegge più gli altri da noi che non il contrario, possiamo aprire gli occhi e scegliere l’apertura a tutti i tu, vivi, morenti e morti, la compassione e la gentilezza. Suavius

Il virus, la lezione, la sta facendo e non a distanza su piattaforme telematiche, ma dentro di noi, nei nostri corpi, nelle nostre famiglie, nei nostri paesetti. Forse siamo pronti ad impararla.

Post scriptum

“Lentius, profundius, suavius” sono le tre parole con cui meglio è conosciuta la nonviolenza di Alexander Langer: più lentamente, più profondamente, più gentilmente.

L’epoché è il metodo filosofico della fenomenologia husserliana.

“Danza vertigine” è una espressione di Paolo Conte in Elisir.

“Luce del mattino” come “apertura a tutti i tu” sono espressioni di Aldo Capitini.

“Megamacchina” è parola che intitola un libro di Serge Latouche.

“Genteinattesa” è un album del cantautore Piero Sidoti.

“Parlare con gli occhi” è una canzone di Ivano Fossati.

a cura di Gabriella Falcicchio

Di Gabriella Falcicchio

Ricercatrice presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bari, Dipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche, responsabile del Centro Territoriale Pugliese del Movimento Nonviolento.

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