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Povertà, giovani, lavoro

DiDaniele Lugli

Ott 12, 2020

Inoltre non appare facilitato l’accesso al lavoro dei percettori. Per chiarezza forse sarebbe meglio parlare di “reddito minimo garantito”, come scrive Luigi Ferrajoli. È pensato a favore dei soli bisognosi, a garanzia del loro diritto alla vita. Il “reddito di cittadinanza” sarebbe invece universale e incondizionato, a garanzia della dignità personale. Vi sono ragioni sociali, economiche e giuridiche a sostegno di questo più ambizioso obiettivo.

Anche a voler considerare il solo aspetto di lotta alla povertà, un obolo pubblico, bene o male indirizzato che sia – come quello privato – non può essere la soluzione. Ci vuole altro.

Come già ho avuto occasione di dire nessuno, dopo la guerra e dopo Ernesto Rossi, si è cimentato seriamente sul tema. Nessuna forza politica ne ha fatto punto qualificante della sua azione. Ripeto cose già scritte in passato. “Abolire la miseria” – Rossi lo scrive tra carcere e confino ultimandolo nel ’41, ’42 – conserva elementi di attualità. “Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale”. Al servizio sanitario e alla scuola si doveva aggiungere, secondo la proposta di Rossi, la fornitura gratuita dei beni essenziali: alloggio, vitto, vestiario.

A ciò avrebbe provveduto l’esercito del lavoro, formato da ragazze e ragazzi che, “terminata la loro preparazione scolastica, sarebbero obbligati a prestare servizio in tale esercito, per un certo periodo di tempo: mettiamo due anni”. La scuola per Rossi doveva essere gratuita per tutti e in tutti i gradi. “Non si dovrebbe mai fare interrompere gli studi ai giovani che fossero bocciati agli esami, giacché da ogni giovane è sempre possibile tirar fuori qualcosa; ed è interesse collettivo che tutti ottengano un’istruzione completa corrispondente alla loro capacità”. Insomma prima che venisse scritto in Costituzione antivede significative modalità di attuazione del futuro articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Un esercito del lavoro, che procura beni essenziali a chiunque li chieda, formato da giovani, vorrebbe dire offrire loro l’occasione per svolgere la loro personalità nel modo migliore, secondo l’auspicio dell’articolo 2 della Costituzione. Potremmo contare su leve successive di cittadini, formati concretamente alla “solidarietà politica, economica e sociale” e quindi su sicuri e crescenti diritti, politici, economici e sociali, per tutti.

Ai beneficiari del “reddito di cittadinanza” dovrebbero giungere da parte dei “navigator” offerte di lavoro e opportunità formative. Il solo indubbio successo è quello di introdurre parole inglesi in luogo delle italiane: navigator significa navigatore. Non avranno voluto essere da meno del “Jobs Act” (Legge sui Lavori?), che con gli stessi scopi aveva istituito l’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive, stranamente in italiano. Nell’Agenzia o nei Centri per l’impiego i “navigator” sperano di finire al termine del loro contratto di collaborazione. Finora a 1 milione e 230mila maggiorenni tenuti al patto di servizio, cioè pronti al lavoro, sono state offerte, tra formazione e lavoro, secondo il Sole 24 Ore, 220mila 48 proposte. Non sappiamo quante andate a buon fine.

Naturalmente la disoccupazione crescente e strutturale esige risposte ben altrimenti profonde per essere efficaci.

Completare il ciclo di studi e poi l’ingaggio nell’Esercito del lavoro, in un vero Servizio civile universale, sarebbe intanto una concreta risposta alla situazione di giovani che né studiano, né lavorano, né sono in tirocini. Acronimi e anglicismi ci perseguitano, ma abbiamo imparato che questo dei NEET (Not in Education, Employment or Training) è un serio handicap sotto il profilo economico, oltre che un disastro sociale. Siamo i primi in Europa nella disdicevole classifica, i secondi se consideriamo la Turchia. Tra i 20 e i 24 anni uno su tre in Italia è in questa condizione. Occorre agire ad ogni livello. Questo tipo di economia, questa crisi occupazionale non è un dato naturale, Non lo è neppure la crisi ambientale, figurarsi questa, tutta nostro prodotto. È un’azione che chiama in causa forze sociali e istituzioni pubbliche. Se ai giovani non ci pensano loro stessi, in solidarietà con chi è più vecchio e ancora in grado di dare un contributo, sappiamo che c’è chi ci pensa. Primi per numero di NEET e non ultimi per criminalità organizzata un’idea possiamo cominciare a farcela.

Leggo in una recente intervista al Procuratore di Reggio Calabria di minori arruolati dalle ‘ndrine, fino ai tredici anni per lo spaccio, del sogno dei ragazzini di diventare boss, di padroni delle strade adolescenti o poco più. È un fenomeno in crescita allarmante, non solo a Reggio Calabria. Non mi soffermo sull’analisi, riporto solo una frase del Procuratore in conclusione dell’intervista: “Ricordo bene, quando un mafioso in udienza mi disse: Noi in famiglia non abbiamo mai dovuto lavorare”. I nostri NEET non è che non stanno facendo niente. Sono a disposizione. In qualche modo in tirocinio.

Povertà e lavoro sono nell’ultima Enciclica di papa Francesco: “Il grande tema è il lavoro… Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro. Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri a ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro. In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo”. Ci offre pure un esempio di cosa intenda per Amore politico. “Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica”.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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