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Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” XIV Edizione

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Nov 23, 2018
Grande partecipazione alla consegna del Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” XIV Edizione. Cecilia Sarti Strada e Mauro Biani protagonisti di una lezione su guerra, nonviolenza e pace.
I patrocini della Presidenza del Senato, della Camera dei Deputati della Regione Toscana e dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana hanno accompagnato questa edizione del premio che ha visto un grande successo di pubblico che ha partecipato con emozione all’intervento di Cecilia Sarti Strada e di Mauro Biani. Le tecniche e i processi della guerra, le modalità con le quali si riesce, anche a spregio di norme stabilite, a vendere armi e a finanziare l’odio sono state alla base degli interventi di Strada e Biani. Ognuno con la propria specifica esperienza, Cecilia Sarti Strada con la sua vita vissuta in teatri di guerra e di violenza e Biani con la sua capacità divulgativa di vignettista ma anche di educatore in centri per disabili mentali. Cecilia Sarti Strada puntando contro la guerra quale mezzo inefficace per risolvere i conflitti, ha ricordato Erodoto e il suo monito contro la guerra: “in tempo di pace i figli seppelliscono i padri, ma in tempo di guerra sono i padri a seppellire i figli” oltre al giuramento di Ippocrate che chiama i medici a curare chiunque, ricordando di non aver incontrato categorie, ma solo persone.

Assente per motivi di salute, il Premio Nazionale “Nonviolenza”, Prof. ssa Anna Bravo docente dell’Università di Torino, componente del Comitato Scientifico della Fondazione Alex Langer, dell’Istituto per la storia della Resistenza “Giorgio Agosti” che ha comunque voluto essere presente attraverso uno scritto inviato agli organizzatori e che trovate di seguito all’articolo.

La mattina, come di consueto, i vincitori hanno incontrato gli studenti delle scuole superiori di Sansepolcro con un partecipato dibattito. Cecilia Sarti Strada ha spedito idealmente cinque cartoline agli studenti provenienti dai teatri di conflitto e guerra: dall’Afghanistan dove c’è una guerra da 17 anni di cui nessuno parla più, dallo Yemen che vede il più grande disastro umanitario contemporaneo, dal Mediterraneo dove si continua a morire, dai ghetti delle nostre città dove cresce l’abbandono e il rischio di devianza, dall’Australia che ha scelto una politica migratoria che respinge chiunque, anche le stesse vittime di quanti consideriamo nostri nemici. Biani ha ricordato agli studenti l’importanza oggi, più che mai, di tornare a difendere i “nostri” valori, quegli stessi che sono stati abbandonati: far cadere il muro di Berlino deve rimanere un ideale da perseguire, non certo quello di pensare di edificare nuovi muri o barriere.

I premi sono stati realizzati da Chiara Fabbrini e da Niccolò Cirignoni, entrambi ex studenti del Liceo Artistico e Scientifico di Sansepolcro che hanno spiegato poi, ai vincitori, il senso e le simbologie del loro lavoro.

Tante le realtà associative presenti che hanno contribuito alla piena riuscita della manifestazione: gli Sbandieratori di Sansepolcro, il gruppo Musici dei Balestrieri, l’Associazione Il Lauro, la Compagnia Teatro Popolare di Sansepolcro, l’Associazione Rinascimento nel Borgo, i Cantori del Borgo, la Società Filarmonica dei Perseveranti coordinati dalla gentilissima Donatella Zanchi hanno fatto gli onori di casa, con in aggiunta la preziosa presenza della classe III della Scuola Primaria “C. Collodi” di Sansepolcro con le maestre Manuela e Anna che hanno realizzato un disegno di una giraffa, logo del premio, preparato per la Prof. ssa Anna Bravo. Significativo il ceciclia strada premio sansepolcro contributo di Michele Foni, artista biturgense che ha donato il proprio dipinto raffigurante una giraffa, alla premiata Cecilia Sarti Strada. Tutto questo impegno fa comprendere come il premio sia oggi più che mai di tutta la città e che questa si ponga come luogo deputato al dialogo e alla ricerca e studio della nonviolenza e della cultura della pace. Lo scultore Loretto Ricci,  ha ricordato plasticamente la guerra e i suoi effetti attraverso le opere esposte. Un vero esempio icastico pieno di poesia. Un ringraziamento, infine, al Comune di Sansepolcro per la vicinanza e il supporto che ha voluto dare anche a questa edizione del premio.

Cecilia Sarti Strada ha vinto il Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” XIV Edizione con questa motivazione:

“per le molteplici attività svolte, per la sua opera sociale all’interno di un’associazione, così come per il lavoro di informazione, controinformazione e testimonianza riguardo i teatri di guerra e le possibili soluzioni da adottare. Tutto ciò ha permesso e permette a molti di conoscere realtà complesse, di aprire orizzonti diversi e di creare spazi di impegno decisivi per il progresso della società”.

Anna Bravo ha vinto il Premio Nazionale “Nonviolenza” Ed. 2018 per i suoi studi sulle donne, sull’impegno sociale da loro profuso, sulla resistenza armata e su quella nonviolenta, studi che hanno contribuito alla comprensione, progettazione, costruzione ed edificazione di una società solidale, nonviolenta e pacifica.

 BIOGRAFIA

 CECILIA SARTI STRADA

Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” XIV Edizione

Cecilia Sarti Strada, nata nel 1979, è una filantropa, attivista e scrittrice italiana, già presidente di Emergency.

Figlia di Teresa Sarti Strada e di Gino Strada, Cecilia Sarti Strada si è laureata in sociologia e a 30 anni, dal 2009 al 2017, è stata Presidente dell’Organizzazione non governativa Emergency.

Impegnata a livello internazionale, ha seguito le attività dei vari ospedali dell’organizzazione e ha curato i rapporti a livello locale, oltre a testimoniare come giornalista e sui media la sua esperienza.

Sostiene la necessità di una   modifica   dei   rapporti   internazionali   e   il   bisogno   di   legare   la   rete   dei rapporti commerciali col rispetto dei diritti umani.

Ha scritto i libri “Sulla nostra pelle. Le missioni di pace uccidono. Anche quelle italiane” e “La guerra tra noi”.

ANNA BRAVO

Premio Nazionale “Nonviolenza” Ed. 2018

Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall’Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Società italiana delle storiche e dei comitati scientifici dell’Istituto storico della Resistenza in Piemonte, del Comitato Scientifico della Fondazione Alexander Langer, dell’Istituto per la storia della Resistenza “Giorgio Agosti” e di altre istituzioni culturali. Opere: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003, Storie del sessantotto (Laterza 2008), che non rappresenta una storia tradizionale della stagione dei movimenti, ma spazia intorno a questioni filosofiche, ideologiche e culturali che hanno attraversato gli anni sessanta e settanta, e che presenta una delle più azzeccate analisi sull’argomento nella celebrazione del suo anniversario e ancora La conta dei salvati. Dalla Grande guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, 2013.

Discorso della Prof. ssa Anna Bravo inviato agli organizzatori 

Il vostro riconoscimento mi rende felice e orgogliosa, e solo un brutto incidente mi impedisce di essere con voi. Vi sono profondamente grata. Da molti anni nel mio lavoro di storica studio e scrivo di lotte nonviolente. Cerco anche di dare un contributo alle iniziative di associazioni come la fondazione Alexander Langer, che fra le altre attività svolge un’opera assidua di sostegno a quanti e quante si dedicano a costruire ponti al posto dei muri. E quando i muri resistono, li “saltano” simbolicamente e spesso concretamente, con coraggio, con rischi e costi personali, senza violenza. Qui voglio proporvi una breve riflessione sulle azioni nonviolente, tenendo conto degli stereotipi che circolano da noi, e non solo da noi.

È difficile trovare oggi qualcuno che neghi il valore della nonviolenza. Ma è anche difficile trovare qualcuno che non si affretti a relativizzarla. Si precisa, per esempio, che a livello teorico sarebbe la scelta migliore, ma non nella pratica: perché è un’utopia che non può durare, non può vincere; e dove ha avuto successo (a questo punto l’esempio d’obbligo è il Sudafrica) non è riuscita a risolvere le questioni di fondo – come se ogni nuovo corso non si trovasse di fronte al medesimo problema. E’ la vecchia pretesa del «tutto e subito», che nei confronti della nonviolenza è applicata con particolare accanimento.

Eppure esistono ormai varie ricerche sulle resistenze non armate (dette anche civili) e armate, che mostrano come, nel novecento siano state le prime a ottenere più esiti positivi; secondo Erica Chenoweth e Maria J. Stephan, fra il 1900 e il 2006 sono state rispettivamente il 59% contro il 27% nelle lotte interne antiregime, il 41% contro il 10% di risultati parziali in quelle contro l’occupazione di un paese o per l’autodeterminazione (per la realizzazione piena i dati si equivalgono). Solo nelle campagne per la secessione di un territorio la scelta nonviolenta conta 0 vittorie (e quella violenta l’esile percentuale del 10%), mentre ha il monopolio dell’affermazione nelle lotte contro l’apartheid e per i diritti civili.

Infine, la nonviolenza offre più opportunità per una transizione pacifica: le controversie tra forze politiche non hanno strascichi militari, mentre sono minori le occasioni per desideri di rivalsa e di vendetta. Il libro delle due ricercatrici ha per titolo Perché la resistenza civile funziona.

Credo che dietro l’accusa di utopismo inefficace giochino ancora oggi alcuni corposi equivoci.

Diversamente da quel che molti credono, la nonviolenza non rinuncia ai conflitti sociali e politici, anzi, li apre, ma prova a affrontarli in modo evoluto, con soluzioni in cui nessuno sia danneggiato, soluzioni «win-win», come insegna la teoria dei giochi. Non si limita a rigettare le armi proprie e improprie, rifiuta l’odio. Non è dogmatica, prova a limitare quanto più possibile la violenza nel mondo; lo stesso principio del non uccidere prevede eccezioni, se uccidere è l’unico modo di salvare gli indifesi da un pericolo mortale.

E ancora, la nonviolenza non vive negli interstizi lasciati liberi dal potere: all’opposto, lo sfida. Non dipende dalla sua benevolenza, lo costringe semmai a essere più benevolo. C’è chi pensa che Gandhi potesse agire perché il governo britannico glielo consentiva; certo la Gran Bretagna non era il Terzo Reich, ma se approdò a una certa tolleranza è perché il movimento gandhiano non le lasciò scelta fra il massacro e la trattativa. Dunque, la nonviolenza non è una pratica per anime belle, richiede pazienza, sagacia, e coraggio davanti alla ferocia altrui – esiste una combattività nonviolenta molto temuta da chi è al potere. Non è neppure predicazione per raccogliere proseliti. Il concetto ha una carica di immediatezza che nasce dalla semplicità del suo primo fondamento, realizzare un obiettivo senza spargere sangue. Molte e molti che non si sarebbero definiti nonviolenti lo sono stati di fatto. Come quelle e quelli che qui nella vostra Toscana fra il ’43 e il ’44 partecipano a due ampi e straordinari fenomeni. Il primo è la protezione accordata ai militari itaiani sbandati nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, quando l’esercito viene lasciato a se stesso e si disfa letteralmente; il secondo è l’aiuto offerto ai prigionieri alleati evasi in quegli stessi giorni dai campi di concentramento sul nostro territorio nazionale – con i britannici, la maggioranza, ci sono americani, indiani, neozelandesi, sudafricani, francesi, australiani. Le due vicende vedono attivarsi centinaia di migliaia di persone in tutta l’Italia occupata, i salvati sono  decine di migliaia. «Fino al giorno della liberazione la maggioranza degli italiani formò una strana alleanza con i prigionieri» – dirà il 17 maggio 1946 Sir Noel Charles, ambasciatore inglese in Italia.

Ma la nostra storiografia ha ignorato questi eventi per decenni, e così la memoria pubblica; il primo libro sull’aiuto ai prigionieri alleati è pubblicato nel 1991 a Firenze (ma in inglese) dallo storico scozzese Roger Absalom, reduce dalla guerra negli Appenini.

Perché non includere i soccorrritori nella costruzione di una nuova immagine nazionale, riscattata dai crimini fascisti e fondata sulla capacità di resistenza della popolazione?

La risposta è penosamente semplice, e vale per tutta Europa: in sintonia con la cultura dell’epoca, si era scelta come terreno elettivo della rigenerazione la lotta in armi, che se oggi giustamente onoriamo come preziosa ribellione al dominio fascista e nazista, rimane preziosa, ma non la sola. Certo, i soccorritori disarmati non “vincono la guerra”. “Funzionano” su un altro piano: non consentire che i nazistii si impadroniscano di miglioaia di giovani per avviarli ai lager o all’esecuzione – è questo il loro campo d’onore. Alcuni dei soccorritori -donne, uomini, contadini, operai, ceto medio, alcuni aristocratici, religiosi e religiose- pagheranno con la vita, come si erano affrettati a sancire una legge di Salò e un decreto tedesco. Non avrebbero meritato i più alti riconoscimenti?

Oggi la situazione sta cambiando, in parte è già cambiata. Ma il lavoro per dare valore a questi resistenti disarmati sarà lungo, e di molti non arriveremo mai a conoscere il nome. 

Quello che tutti possiamo fare per loro è provare a seguirne l’esempio – quegli esempi che Hannah Arendt definisce i cartelli segnaletici della morale – per salvarci dalla tentazione di voltare le spalle alla sofferenza dei nostro prossimo, dovunque si trovi e da qualsiasi lontananza provenga.

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