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“Vattene al tuo paese!” Ma questo paese di chi è?

DiElena Buccoliero

Set 13, 2018

La risposta corretta naturalmente è “più minorenni”, eticamente e giuridicamente – lo dicono ancora perfino le leggi italiane! – ma la domanda resta fondamentale, non per un dubbio improvviso ma come verifica su di noi, su ciò che stiamo facendo. Per noi sono più ragazzi o più estranei, più persone o più ingombro?

La questione non è di poco conto. Perfino chi si impegna accanto a loro e non ha dubbi mai, deve sorvegliarsi di fronte alla tentazione delle scorciatoie perché, è pur vero questo, le risorse sono poche e la burocrazia è tantissima. Tra le risorse scarse va annoverato anche il tempo smangiato dalle procedure, quello che ha, ad esempio, un ragazzino che lascia tutto quello che ha a 13-14 anni, viene trattenuto per un lungo tempo imprecisato in Libia – con ciò che questo vuol dire, e per un ragazzino! –, si imbarca e arriva in Italia a 16 anni compiuti, attende di uscire dalla prima accoglienza e quando, finalmente, può incominciare un percorso strutturato scopre di avere pochi mesi da lì alla maggiore età, mesi in cui dovrà – e noi gli chiediamo di – imparare la nostra lingua, ottenere i documenti, prendere la licenza media, apprendere un mestiere. Per qualsiasi coetaneo italiano mediamente in bambagia sarebbe troppo. Al giovane migrante però chiediamo anche di non commettere errori e sopportare di essere sopportato, quando non aggredito, da un certo numero di persone che incontrerà, e non per qualcosa in particolare ma per il fatto stesso di essere qui, magari una sera a mangiare un gelato come è successo a Dieng, un giovane senegalese di 19 anni.

“Più ragazzi o più stranieri?” dev’essere una domanda molto facile – o che semplicemente non esiste – per una certa quota di miei (sic) connazionali, se è vero che i minorenni vengono insultati e aggrediti né più né meno dei migranti adulti. E anche prendersela con loro non conosce discriminazioni: c’è il minorenne, il maggiorenne e l’anziano, il pregiudicato e quello senza precedenti, l’uomo e la donna, l’operaio che si è scolato 10 birre al bar e quello che fa lavori socialmente utili (davvero?).

L’ultimo esempio è di pochi giorni fa. Un 16enne riceve una sportellata e poi pugni e calci, ricoverato per lesioni a un testicolo e a un ginocchio con una prognosi di 5 giorni e tanto spavento. Poco prima cinque ragazzi e una educatrice di comunità sul loro pulmino sono stati inseguiti con quattro automobili al grido “negri di merda, vi ammazziamo”, fatti scendere, picchiati a mani nude e con bastoni, mazze di ferro e pietre, minacciati – si è detto – anche con una pistola. “Siamo come voi, siamo giovani che vogliono divertirsi come voi”, avrebbero vanamente protestato i ragazzi.

Di indegnità analoghe venute allo scoperto ne stiamo vedendo in tutta Italia. In Sicilia, che è luogo di accoglienza, se ne sono contate cinque in poche settimane, di cui due proprio a Partinico. Mi pare di immaginarlo Danilo Dolci rientrare nel paese che aveva scelto, e perciò era il suo, per radunare la gente, interpellarla, favorire il confronto tra tutte le opinioni e rifondare un’umanità che ha radici profonde e proprio per questo può crescere, né superficialmente buonista né superficialmente cattivista.

Che cosa sappiamo sull’origine di questi fatti? Sul caso del 16enne aggredito ho trovato poche informazioni. L’aggressore sarebbe un uomo di 46 anni, pregiudicato, prosciolto in passato da un’accusa di omicidio e il cui fratello è stato ucciso dalla lupara bianca. Un uomo che abita vicino alla comunità di accoglienza e intorno al quale sembra di sentire odore di violenza organizzata (di chi è il nostro paese?). Un solo articolo mi accende una luce in più: i ragazzi della comunità avevano chiesto da poco al figlio (o alla figlia) di questo signore di tenere a bada i due pitbull che li spaventavano e questa sarebbe la risposta. Non sappiamo se sia andata veramente così. Certo il coordinatore della comunità ha dichiarato che prima di quest’episodio ce ne sono stati altri e che i ragazzi avevano paura; chissà, forse c’erano di mezzo anche cani addestrati per la lotta.

L’aggressione ai cinque minorenni viene raccontata da un giornalista come effetto di uno scambio di sguardi, il che farebbe pensare a una sfida reciproca che poi è esplosa. Niente suffraga, però, questa ipotesi che sottintende uno scontro imprevisto, viceversa la disponibilità di armi nelle mani degli aggressori, poi effettivamente ritrovate nelle loro case (la pistola però no), fa pensare ad una chiara premeditazione. Nessuna sfida, ma una vera e propria spedizione che verrebbe spontaneo qualificare come “punitiva”, non fosse il fatto che da punire non c’era proprio niente, e il luogo di nascita non è una colpa e neppure una scelta.

In diversi articoli leggo che “le forze di polizia hanno escluso l’aggravante di razzismo”. E io mi domando: e perché? E poi ancora: come è possibile? E ulteriormente: a vantaggio di chi?

Mettiamo in premessa che i capi d’imputazione, cioè la precisa formulazione delle accuse con cui si va a processo, li scrivono le procure e non le forze di polizia. Aldilà di questo, come si può pensare che ragazzi vengano picchiati immotivatamente, e con lo slogan “Tornatene a casa tua”, non per un atto di razzismo?

L’aggravante di cui parliamo sta nell’art. 604 ter del codice penale e si applica a tutti i reati, tranne l’ergastolo, che siano «commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso». Prevede un aumento della pena fino alla metà e non può essere annullata da circostanze attenuanti che possano essere riscontrate nel medesimo reato.

Una sentenza della Corte di Cassazione del 2013 ha stabilito che quando c’è, da parte del colpevole, un consapevole comportamento esteriore risoltosi nell’offesa al colore della pelle, l’aggravante scatta e non è necessaria ulteriore indagine. Scatta ogni volta che l’offesa manifesta un pregiudizio di inferiorità nei confronti di una razza, o un sentimento di avversione fondato sulla razza, sull’origine etnica o sul colore della pelle. «È configurabile nel caso di ricorso a espressioni ingiuriose che rivelino l’inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa», ribadisce ancora la Cassazione nel 2015.

Se l’esclusione dell’aggravante serve ad alleggerire la pena, io mi chiedo perché. Vorrei che le formulazioni fossero attinenti alla realtà e che le pene fossero giuste. Non provo gusto a immaginare la privazione della libertà come unica risposta possibile alla violenza ma sento che camuffare la realtà o ingentilirla per non calcare la mano sulle risposte della giustizia è una violenza ulteriore inferta alla vittima.

Aveva molta ragione Langer scrivendo che un conflitto, se ha radici etniche, è più efferato, è subito cieco e irragionevole. Io penso sia perché quel processo di deumanizzazione dell’altro che apre la porta a ogni violenza, e che in condizioni normali richiede un’elaborazione a confronto con la propria etica personale, diventa facilissimo giacché possiamo pensare che l’altro sia diverso da “noi”.

L’Italia è molte cose, fortunatamente. Lo è certamente la Sicilia, che continuamente e da tanti anni ci dà lezioni di accoglienza. Proprio lì un certo numero di organizzazioni si sono riunite per comporre un manifesto contro il razzismo che ha raccolto in poche ore migliaia di firme, da tutta Italia e non solo. Il manifesto è molto bello, si può leggere in rete e firmare con una e-mail a palermo@repubblica.it. Il primo punto è una richiesta di “vigilanza” e dice così: «Chiediamo che la politica, le istituzioni, le forze dell’ordine riconoscano che in Italia c’è un incalzante e diffuso fenomeno di razzismo e che mettano in atto azioni conseguenti che vigilino sui discorsi e atti razzisti e non li consentano per la sicurezza di tutte e tutti coloro che ne sono vittime e per la coesione sociale della nostra comunità». Mi piacerebbe che questo manifesto venisse discusso in molti luoghi. La consapevolezza ci deve accompagnare.

Torno indietro e ripenso ai minorenni accolti. Chi gli urla contro «Vattene al tuo paese» evidentemente suppone che questo posto sia suo. Ma se dev’essere anche mio, la cosa mi disturba. L’Italia di chi è?

Il 16enne recentemente aggredito ha trascorso oltre un anno in Libia, ha attraversato il Mediterraneo, da più di un anno è in Italia e ha già imparato l’italiano. Frequenta regolarmente la scuola, vuole lavorare. Rientrato dall’ospedale pur ammettendo la paura ha confermato il desiderio di rimanere qui. Ecco io vorrei potergli dire “Resta qui, al tuo paese”. Vorrei che il mio paese fosse di gente come lui, non dei violenti o dei delinquenti. Non di chi si organizza per spaccare la faccia ai ragazzini.

(immagine tratta da qui)

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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